L’alpinismo extraeuropeo – 1

L’alpinismo extraeuropeo – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-40)

Parlando di alpinismo extraeuropeo, generalmente si intende il fenomeno delle spedizioni alpinistiche composte da alpinisti europei dirette alla conquista di montagne poste su altri continenti. Bisogna però anche tener conto di un alpinismo che è nato in altri Paesi posti al di là dell’Europa.

Se ci si chiede perché gli alpinisti abbiano trasferito la loro azione su altri continenti, la risposta non pone difficili problemi. Per gli stessi motivi che aveva generato sulle Alpi l’alpinismo stesso, ad un certo punto si cominciò a portare l’azione sulle catene montuose di altri continenti. Quando sulle Alpi la difficoltà a poco a poco andava a sovrapporsi alla scoperta, sui monti lontani invece tutto era ancora da conoscere e da scoprire. Inoltre i viaggi in questi Paesi già di per se stessi costituivano un’avventura meravigliosa sotto tutti gli aspetti: geografico, naturalistico, umano, alpinistico. Quindi, proprio come avvenne sulle Alpi, inizialmente vi fu un periodo pionieristico, in cui l’esplorazione prevalse sulla conquista. Poi venne il momento della conquista, fino al punto in cui il dispiegamento di mezzi praticamente rese possibile ogni conquista, ma con assai poca eleganza. Infine ora si fa strada il concetto di eleganza: non si tratta più di conquistare una vetta o una parete a qualsiasi prezzo o in qualsiasi modo. La grande montagna dall’aspetto di nemica da vincere si porta lentamente verso l’aspetto di compagna, ancora un po’ severa ed arcigna, con cui rivaleggiare.

Ultima foto a George Mallory e Andrew Irvine prima del loro fatale tentativo alla vetta dell’Everest

Abbiamo detto che una spedizione alpinistica già di per sé è un’avventura magnifica. È esatto, ma oggi purtroppo anche alcune zone montane di altri continenti, a causa di un eccessivo affollamento, vanno perdendo quel fascino che una volta possedevano in misura straordinaria. I più desiderosi d’avventura debbono spingersi verso le zone più interne dei massicci, oppure compensare con l’isolamento e la difficoltà la carenza dell’avventura data dalla genuinità dell’ambiente naturale.

Asia
II continente asiatico, com’è noto, racchiude la catena montagnosa più poderosa ed imponente di tutto il globo, dove si alzano numerose vette che superano gli 8000 metri di quota. Generalmente la catena viene definita nella sua interezza come «Himalaya», ma bisognerebbe distinguere i vari settori con altri nomi. Più a sinistra, comunque, nella regione del Pakistan la catena assume il nome di Karakorum, un massiccio montagnoso di eccezionale bellezza.

Sappiamo che l’alpinista viene attratto dall’altezza. È quindi naturale che gli interessi della maggior parte degli alpinisti siano sempre stati rivolti alla catena himalayana. Una spedizione su queste montagne lascia nell’alpinista un segno indelebile per tutta la vita. È un’esperienza difficile. L’isolamento, l’allontanamento dalle abitudini occidentali, il contatto con culture radicalmente differenti, la vita alle grandi altezze, la fatica costante, instaurano nell’individuo fenomeni di mutazione ad ogni livello, il più delle volte irreversibili. Quando l’individuo rientrerà nel suo nucleo di vita abitudinario, si sentirà mutato, «diverso» e prepotente agirà in lui il richiamo a tornare verso quei mondi lontani.

I paesi che salgono a lambire la grande catena asiatica, già di per se stessi costituiscono un’avventura eccezionale. L’arte, la cultura, le religioni: un mondo magico ed affascinante, purtroppo gravemente contaminato oggi dai frequenti contatti con la civiltà occidentale. Splendida è la terra di questi paesi: verde, ricca di acque e di foreste, abitata da gente mite ed ospitale. Indimenticabile è il contrasto tra il verde smeraldino delle valli collinose ed il biancore lucente della catena che appare dominante sopra gli ultimi rilievi verdeggianti, altissima, quasi irreale e magica, scelta dai locali come sede delle loro divinità.

Una spedizione alpinistica himalayana offre problemi tecnici ed organizzativi più che notevoli. Innanzi tutto i componenti la spedizione dovranno tener conto di un fattore importantissimo, che troppo spesso viene sottovalutato: la permanenza alle alte quote e le difficili condizioni ambientali mettono a nudo il carattere dell’individuo e lo privano a poco a poco di ogni maschera necessaria in altre sedi per adattarsi a vivere nel mondo occidentale.

Il carattere così si mostra in tutta la sua nudità e l’accordo tra i vari componenti della spedizione risulta sempre più difficile. Chi si accinge ad un’avventura del genere dovrebbe essere giunto a conoscersi assai bene e a presentarsi ai suoi compagni, ancor prima della partenza, nella sua luce più negativa, in modo da prevenire attriti durante lo svolgimento dell’impresa. Inoltre vi sono le difficoltà d’approccio, che richiedono marce di una o due settimane lungo le immense valli, con al seguito molti portatori necessari per condurre i carichi fino al «campo base» e poi su ai campi in quota. La quota resta comunque la difficoltà più grande da vincere ed è anche quella che ha rallentato assai l’assalto alle grandi difficoltà. Comunque, anche in questo caso, l’uomo ha saputo dar prova di straordinario adattamento, riuscendo ad agire senza ausilio artificiale (bombole di ossigeno) ad altezze dove la scienza aveva ritenuto ciò impossibile.

Parlando invece di alpinismo, dobbiamo dire che tutto l’alpinismo himalayano (ed anche quello extraeuropeo) è alpinismo di conquista, dove l’impresa gioca la parte principale. Più che mai quindi conta raggiungere la meta, la «vetta». Si considera fallita una spedizione che non abbia raggiunto la vetta. E questo è molto amaro. Oggi che quasi tutte le vette sono state conquistate, si cercano da salire le creste inviolate e le pareti più difficili, ma il discorso in sé non cambia, in quanto l’ideologia base non muta affatto. Eppure un giorno forse sarà anche possibile avere un rapporto dolce e rilassato con queste superbe montagne, anche se ciò oggi pare quasi impossibile. È un mondo di una severità ambientale feroce e terribile, ma anche di una bellezza quasi sconcertante, praticamente indescrivibile. Una salita himalayana mette l’alpinista a durissima prova, sia psichicamente che fisicamente. Essa richiede tutta la sua volontà, la tenacia, la capacità di resistere e di soffrire, la determinazione e soprattutto il coraggio e l’umiltà. L’ambiente è duramente ostile ed inospitale: alta quota, freddo, venti impetuosi, bufere che durano intere settimane, valanghe che spazzano versanti per chilometri e chilometri, non lasciando più nulla al loro passaggio.

Edmund Hillary (a sinistra) e Tenzing Norgay di ritorno dalla vetta dell’Everest

La montagna himalayana chiede all’alpinista un grandissimo tributo, non per nulla la fila dei caduti e dei dispersi su queste montagne è assai lunga e a molti può anche sembrare impressionante. Se poi il prezzo pagato venga o no ripagato, questa è una domanda a cui solo chi ha combattuto questo genere di lotta può rispondere. Ogni giudizio esterno, e che non si basi sull’esperienza individuale, è del tutto gratuito e non serve a nulla. Molti che hanno vissuto alcuni di questi momenti,dicono di sì, ma non amano perdersi in lunghe dissertazioni tese a volerne spiegare il perché. Noi li crediamo volentieri. Sappiamo che per certi uomini è necessario agire così, sappiamo che per essi la vita non avrebbe senso se non fosse spinta verso la lotta, il sacrificio, l’avventura. Laggiù essi trovano pane per i loro denti. Voler convincerli del contrario, a priori, è veramente far violenza sull’uomo e non concedergli la libertà dell’esperienza individuale.

Piuttosto onestamente ad essi dovrebbe andare tutta la nostra stima, a prescindere da ogni discorso che abbia pretese filosofiche e sociologiche. Molti hanno orrore (e giustamente) di una pianificazione verso il basso, mentre invece molti vorrebbero che chiunque fosse messo in condizione di conoscere e di elevarsi. Questi uomini, protagonisti dell’alpinismo himalayano, hanno pur dimostrato (e dimostrano) tuttora qualcosa. Se poi la loro è un’illusione e se quello non è il modo di raggiungere l’altopiano della conoscenza, ciò è discutibile e non certo. Tuttavia, si può ragionevolmente pensare che se essi fossero indirizzati nella giusta direzione, o meglio se ciascuno di loro si accorgesse quale è la vera scalata da fare nell’interno di se stessi, la forza e la capacità di lottare dimostrate nell’azione certamente li metterebbero in grado di vincere la propria lotta individuale (dove soprattutto bisogna saper perdere, il che è molto più duro per chi è abituato a lottare e a voler vincere!).

A questo punto bisogna distinguere. Come è accaduto sulle Alpi, anche l’alpinismo himalayano a lungo è stato caratterizzato da un assalto un po’ violento e volgare, dove l’aggressività veniva liberata in modo diretto. Non per nulla nelle spedizioni himalayane poche volte si è badato a limitare i mezzi: l’obiettivo era uno solo, raggiungere la vetta. Ma bisogna stare attenti. Le spedizioni dei pionieri, anche se non raggiunsero le vette principali, ma soprattutto dettero un contributo esplorativo, furono condotte ancora con uno spirito avventuroso, quasi patetico, da pochi alpinisti che si inoltravano come smarriti ed incantati in quel mondo fantastico di rocce e di ghiacci. Subentrò poi un periodo in cui la tecnologia assunse il ruolo risolutore: con enormi dispiegamenti di uomini e mezzi, il «colosso» himalayano fu preso letteralmente d’assalto e non mancarono i risultati, raggiunti però con assai poca finezza ed eleganza.

È il famoso discorso del leone ucciso in gabbia. Poi, a partire dal secondo dopoguerra, vi furono alcuni (pochi) che invece vollero portare eleganza e purismo anche in Himalaya, naturalmente correndo rischi enormi ed affrontando difficoltà immani. Ma la volontà fa miracoli ed il più delle volte basta credere fermamente in ciò che si ritiene possibile, anche se ciò da tutti è definito «impossibile». Giungiamo così ai giorni nostri, quando cordate di isolati, senza alcun ausilio esterno e senza l’aiuto di portatori, bombole d’ossigeno, tecniche americane, ecc., si lanciano alla conquista di pareti inviolate su montagne che superano gli ottomila metri. Non è lontano il giorno in cui un solitario se ne partirà tutto solo dagli ultimi villaggi e, forte solo del sacco che porta in spalla, si incamminerà senza fretta verso un Ottomila (1).

D’altronde questo forse non è il gesto di un pazzo o di un temerario, ma soltanto un grandissimo gesto di umiltà e un voler considerare la tigre come una compagna di giochi, verso la quale si va disarmati. Se ci si avvicina armati e con cattive intenzioni, la ferocia è una reazione più che giustificata. E poi? Forse e finalmente potrebbe esserci la fine di un mondo aggressivo e violento.

I grandi eventi dell’alpinismo himalayano (Himalaya – Karakorum)
I primi eventi che interessano le grandi catene asiatiche appartengono più alla storia dell’esplorazione che all’alpinismo vero e proprio. Infatti all’inizio del XIX secolo vi furono alcune spedizioni a scopo geografico, che risalirono il corso dei grandi fiumi fino alle loro sorgenti. La prima salita di rilievo è realizzata da un topografo, che salì appunto il primo «7000» della storia dell’alpinismo, lo Shilla, situato nell’Himalaya del Punjab. Poi giungono alla ribalta i primi alpinisti e vediamo agire sui fianchi del Nanga Parbat, uno dei quattordici Ottomila, il famoso Mummery, che tenta addirittura un assalto in stile alpino dal versante Rupal, vinto poi nel 1970 dai fratelli Messner. Di questo sfortunato tentativo, durante il quale Mummery scomparve per sempre, si è già parlato innanzi.

Hermann Buhl di ritorno dalla vetta del Nanga Parbat

Vediamo poi più volte in azione l’italiano Luigi Amedeo di Savoia, il Duca degli Abruzzi, il quale opera nel settore del Karakorum, dando un contributo essenziale al successo delle future spedizioni che agiranno su questi monti. Le spedizioni del Duca degli Abruzzi, oltre all’apporto esplorativo, hanno uno spiccato senso alpinistico. Come prima Mummery, anche il Duca degli Abruzzi sferra un attacco ad un Ottomila, il K2, la seconda montagna della Terra dopo l’Everest. La spedizione riesce ad intuire quale è il punto più debole della montagna ed infatti si alza parecchio lungo un difficile crestone, utilizzato poi dalla vittoriosa spedizione italiana del 1954. I tentativi di questo primo periodo sono veramente straordinari, se solo si pensa ai materiali dell’epoca e al fattore psicologico inibente. Tuttavia bisogna ancora ricordare che nel 1909, una spedizione italiana guidata ancora dal Duca degli Abruzzi stabilì un record di altezza, giungendo fino a 7500 metri sui fianchi del Chogolisa, una delle più affascinanti cime del Karakorum. Fu un’impresa storica, se si pensa che il record di altezza fu battuto solo in occasione della spedizione che nel 1922 giunse a più di 8000 metri sui fianchi dell’Everest.

Queste prime spedizioni avevano un carattere del tutto privato ed erano finanziate dagli stessi alpinisti. In seguito l’alpinismo himalayano divenne quasi un prestigio nazionale ed infatti si originerà una sorta di «corsa» agli Ottomila del globo, assaltati da massicce spedizioni a carattere nazionale, finanziate direttamente dai club alpini quando non dagli organi di stato. Di tutta la storia dell’alpinismo è questo uno dei periodi meno brillanti e simpatici, escludendo naturalmente l’operato degli alpinisti stessi, i quali più volte seppero dar prova di grandissimo coraggio e di notevoli capacità. La critica non è mossa alle spedizioni e agli alpinisti, ma alla concezione stessa di questo tipo d’alpinismo, che assai da vicino ricorda lo spirito bellico. Ancora oggi, purtroppo, ci è dato di leggere: «L’Italia ha conquistato la tal cima…» «La Francia ha espugnato lo sperone Xy », «L’Inghilterra ha vinto la parete sud del…». Invece sarebbe assai più bello leggere: «Due alpinisti x e y hanno vinto la parete del…». Ma forse è un sogno ancora lontano. Per ora dobbiamo ancora sorbirci la patetica scena degli eroi giunti in vetta che sventolano la bandiera nazionale ed il gagliardetto della sezione del CAI di appartenenza.

Qualcuno potrà obbiettare che se non vi fosse stato l’interesse nazionale molte spedizioni non sarebbero state possibili, appunto per il problema finanziario. Se ci si riferisce alle spedizioni pesanti e massicce ciò è pur vero (recentemente per alcune spedizioni si è parlato di miliardi di lire!), ma sappiamo benissimo, e la prassi di oggi ce lo ha dimostrato, che le spedizioni leggere possono raggiungere gli stessi obiettivi con una spesa infinitamente minore (nel giro di qualche milione). Ma sappiamo anche che il senno di poi non serve a nulla. La realtà è che vi furono moltissime spedizioni nazionali pesanti, la realtà è che di alcune imprese se ne fece un vanto nazionale, la realtà è che l’alpinismo ancora è mescolato a certi interessi. Che poi questo sia giusto o no, a ciascuno tocca giudicare. Se è accaduto e se accade, non è certo a caso. Forse se non vi fossero state le poco eleganti spedizioni nazionali, oggi non vi potrebbe essere il fenomeno delle spedizioni leggere e leggerissime. È la stessa storia dei mezzi artificiali in arrampicata.

Compaiono ora in scena gli alpinisti britannici, che per un certo periodo saranno i grandi protagonisti dell’alpinismo himalayano.

Quasi tutti i loro tentativi sono diretti alla montagna più alta della Terra: l’Everest 8848 m. In tutte le prime grandi spedizioni himalayane, salvo casi eccezionali, il problema non fu tecnico, in quanto il percorso di salita cercava sempre il punto più debole della montagna. Il problema più grande era costituito dalla quota e dai suoi effetti negativi sulla respirazione. Si giunse così all’aiuto delle bombole d’ossigeno, le quali però a causa del loro peso si rivelarono non troppo efficienti, ma comunque allora indispensabili. Oggi, dopo accurati studi scientifici sull’acclimatazione, alcuni alpinisti riescono a salire ben oltre gli ottomila metri senza l’aiuto di ossigeno supplementare, una cosa allora ritenuta impossibile.

I tentativi inglesi furono accaniti e numerosi e più volte si giunse oltre gli ottomila metri, anche senza bombole d’ossigeno. Proprio durante uno di questi tentativi, scomparvero Mallory ed Irvine, che erano stati tra i più grandi protagonisti della fase esplorativa di questa montagna (1924). A partire da una certa quota vi è comunque una specie di muro da valicare, fisico e psichico, oltre il quale tutto diviene estremamente difficile e pericoloso: Reinhold Messner chiama appunto la «zona della morte» il settore che si eleva oltre questa quota.

Se gli inglesi si adoperavano in ogni modo per vincere l’Everest, gli alpinisti tedeschi invece avevano scelto un altro Ottomila, il Nanga Parbat 8125 m, come obiettivo da raggiungere. Le spedizioni che si lanciarono alla conquista del Nanga Parbat furono numerose, ma purtroppo la storia alpinistica di questa montagna è segnata dalla tragedia. Oltre alla scomparsa di Mummery, nel 1934 alcuni alpinisti tedeschi, tra cui il grande Welzenbach, perirono durante un tentativo. Ancora nel 1937 un’intera spedizione tedesca scompariva travolta da una valanga.

Il K2 con le firme dei partecipanti della spedizione al K2 del 1954. Foto: Vittorio Sella.

Tanto che il Nanga Parbat divenne per i tedeschi quasi un fatto nazionale, una montagna che «doveva» essere salita dai tedeschi. Ed infatti, come già sappiamo lo fu, nel 1953, da Hermann Buhl.

Ma invece la prima vittoria su un Ottomila fu appannaggio dell’alpinismo francese, il quale poteva contare sul perfetto affiatamento dei componenti la spedizione e sul loro spirito d’equipe. Fu vinto l’Annapurna 8078 m e la vittoria fu anche la dimostrazione dei livelli più che notevoli raggiunti dall’alpinismo francese dopo la guerra (1950). Sulla scia dell’Annapurna, conquistato naturalmente da una spedizione di tipo «pesante», anche se poi sul terreno furono proprio i singoli alpinisti a dare dimostrazione di grandissima volontà, vennero le vittorie inglesi sull’Everest (1953), dove in vetta accanto al neozelandese Hillary salì il valoroso sherpa Tenzing Norgay (che poi calcherà anche la vetta di un altro Ottomila), la vittoria italiana sul K2, la seconda montagna del globo, e quella francese sul Makalu (1954 e 1955). Lo stile di tutte queste spedizioni è pressoché identico. Della leggendaria impresa di Buhl sul Nanga Parbat (1953) già si è detto.

Da sottolineare invece l’impresa compiuta dall’austriaco Herbert Tichy, che con una spedizione leggerissima, nel 1954, vinse un altro Ottomila, il Cho Oyu, con il compagno Sepp Jöchler e lo sherpa Pasang Dawa Lama. L’esempio di Tichy invero non fu poi seguito da molti, anche se magnifico per il suo coraggio, e si continuò nello stile delle spedizioni «pesanti» e super-organizzate. Solo Hermann Buhl rimase fedele al suo stile e nel 1957 tornò in Karakorum con pochi compagni (il fortissimo ghiacciatore austriaco Kurt Diemberger, salitore di due Ottomila, uno dei migliori alpinisti del dopoguerra, Marcus Schmuck, Fritz Wintersteller) e salì splendidamente in tecnica alpina un altro Ottomila, il Broad Peak.

Si giunse così rapidamente alla conquista di tutti gli Ottomila asiatici e si proseguì poi in due direzioni ben definite: alcune spedizioni si dedicarono alla conquista di cime magnifiche e difficili e inferiori agli ottomila metri; altre invece iniziarono il nuovo corso, cercando di aprire nuove vie più ardue su degli Ottomila già saliti dal versante più facile. Altre spedizioni ancora, sempre a carattere pesante, iniziarono la ripetizione degli Ottomila già saliti, più che altro alla ricerca di un vanto personale alquanto discutibile.

Così nel 1962 fu vinto il grande versante Diamir del Nanga Parbat da una spedizione tedesca guidata da Toni Kinshofer, poi nel 1963 una spedizione americana vinse l’Everest lungo l’inviolata cresta ovest. Ma l’impresa che segna veramente un netto distacco da tutte le salite himalayane precedenti è la conquista dell’immensa e formidabile parete sud dell’Annapurna, salita nel 1970 da una fortissima spedizione inglese guidata da Don Whillans e Dougal Haston. Mai in Himalaya ed a quella quota erano state superate difficoltà di quel genere. Si apriva così la strada ad una serie di imprese analoghe: sempre nel 1970 fu vinto il gigantesco versante Rupal del Nanga Parbat dai due fratelli Messner, protagonisti di una epica odissea sui fianchi della montagna, durante la quale purtroppo Günther perse la vita travolto da una valanga; poi nel 1971 una spedizione francese composta da alpinisti di primissimo piano vinse il pilastro ovest del Makalu, superando, a quota elevatissima, difficoltà d’arrampicata degne di una grande salita di roccia del Bianco.

Tuttavia, anche questa fu una spedizione di tipo «super-organizzato» e si valse del lavoro d’equipe per giungere alla vetta. La stessa cosa si può dire per la vittoria inglese sulla parete sud-ovest dell’Everest, smisurata muraglia presa più volte d’assalto da numerose spedizioni. Ancora una volta fu protagonista il formidabile Dougal Haston che giunse in vetta accanto a Doug Scott.

Dougal Haston, con il francese Yannick Seigneur, l’austriaco Diemberger, lo sherpa Tenzing, fa parte di quella ristrettissima élite di alpinisti mondiali che hanno salito due Ottomila nella loro carriera alpinistica. Messner fa caso a sé, avendone raggiunti addirittura tre! (2). Ma bisogna giungere al 1975 per assistere ad un fatto nuovo, che aprirà il cammino a realizzazioni ancora più audaci: Reinhold Messner e Peter Habeler, senza alcun aiuto esterno, senza installare campi intermedi, senza bombole d’ossigeno e senza corde fisse, aprono un nuovo e difficilissimo itinerario sulla parete nord-ovest dell’Hidden Peak 8068 m, (Karakorum) salendo e discendendo sempre slegati!

Achille Compagnoni (a sinistra) e Lino Lacedelli di ritorno dalla vetta del K2

Questa splendida impresa naturalmente ridimensiona un certo tipo di alpinismo himalayano su cui si era fatta un po’ troppa retorica nelle pagine di libri e riviste.

Compiuta nello stesso stile, dobbiamo ricordare anche la magnifica impresa degli italiani Guido Machetto e Gianni Calcagno sullo sperone ovest del Tirich Mir 7780 m, la più alta vetta del massiccio dell’Hindukush, catena montuosa posta tra il Pakistan e l’Afghanistan, ricca di picchi maestosi e di pareti imponenti che ricordano molto quelle delle nostre Alpi.

Nel 1976 due giovani alpinisti inglesi aprono una nuova via di difficoltà assolutamente estrema sulla parete ovest del Changabang, una fantastica torre granitica alta quasi settemila metri posta nell’Himalaya del Garhwal. Joe Tasker e Peter Boardman, i due protagonisti dell’eccezionale impresa, hanno raggiunto la base della parete senza l’ausilio di alcun portatore, hanno operato in parete per quasi un mese, superando difficoltà di V e VI grado e di arrampicata artificiale estrema.

Queste dunque le massime espressioni dell’alpinismo himalayano dei giorni nostri. Non è lontano il momento delle solitarie sugli Ottomila (3).

Ma nella storia dell’alpinismo himalayano dobbiamo anche ricordare il notevole contributo dato dall’alpinismo giapponese. Numerosissime sono state le spedizioni nipponiche che hanno agito in Himalaya, esplorando ogni settore della catena e realizzando molte prime ascensioni di vette comprese tra i settemila e gli ottomila metri. Alcuni alpinisti giapponesi hanno anche raggiunto la vetta di alcuni ottomila ed in qualche caso, come al Makalu, hanno aperto nuove vie di alta difficoltà. Tuttavia il carattere delle spedizioni giapponesi è quasi sempre di tipo «pesante». Nel dopoguerra, anche negli Stati che si estendono ai piedi della grande catena, si è sviluppato un buon alpinismo locale, tant’è che alcune spedizioni indiane e cinesi hanno raggiunto la vetta dell’Everest.

Note
(1). Nel 1978 Reinhold Messner salirà da solo la selvaggia parete di Diamir sul Nanga Parbat.
(2). Li salirà tutti nel decennio successivo.
(3). Vedere nota (1).

L’alpinismo extraeuropeo – 1 ultima modifica: 2025-05-16T05:17:00+02:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

2 pensieri su “L’alpinismo extraeuropeo – 1”

  1. Alla Storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti fu mossa da molti la critica di essere parca di notizie, salite, date, imprese. È vero.
    Si tratta di un testo che non presenta molti fatti, bensí tante considerazioni, sia generali che di tipo psicologico (e queste ultime risentono in modo marcato del carattere dell’autore).
    Per esempio, qui si è ignorata buona parte della storia dei pionieri sugli ottomila. Mancano l’epopea degli inglesi all’Everest (se non cenni e una fotografia), le tragedie delle spedizioni tedesche al Nanga Parbat (se non cenni), il Nanda Devi di Tilman e Odell nel 1936, il K2 degli americani nel 1939 (Wiessner) e 1953, il K2 degli italiani nel 1954.
    Affinché i lettori possano formarsi un proprio giudizio, bisogna innanzitutto che siano informati dei fatti, nudi e crudi. Vale per ogni testo di storia.
    P.S. L’aggiornamento che ne fece Enrico Camanni è invece l’opposto.
     
    Detto ciò, leggete il libro di Motti!

  2. E’ buffo che Motti – pur sempre interessante da leggere – lamenti il linguaggio che parla di guerra, ma poi scrive che sarebbe meglio usare vincere in luogo di conquistare. Sarebbe bello parlarne con lui.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.