Le Alpi Occidentali tra le due guerre – 1

Le Alpi Occidentali tra le due guerre – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-27)

La Prima guerra mondiale segnò evidentemente una pausa nella storia dell’alpinismo sulle Alpi. Al suo termine si verificarono dei fenomeni assai interessanti, che d’altronde ben rispecchiavano la situazione dei vari Paesi che erano stati duramente impegnati nel conflitto bellico. Abbiamo visto che nelle Alpi Orientali ben presto la supremazia austro-tedesca della Scuola di Monaco fu raggiunta e forse superata dall’iniziativa italiana degli anni Trenta ed abbiamo anche visto come l’alpinismo dolomitico bene aderisse a quei valori di ardimento e di supremazia nazionale che il regime fascista e quello nazista avevano inculcato nella popolazione. La situazione nelle Alpi Occidentali, però, era assai diversa: vuoi perché in Piemonte il fascismo non fu mai accettato o per lo meno fu tollerato con sufficienza, in quanto lo spirito liberale era assai radicato nell’animo del popolo, vuoi per un certo (ed ingiustificato) disprezzo che si nutriva negli ambienti occidentali per i «paracarri» dolomitici e per l’alpinismo acrobatico che là si praticava, si giunse ad una sorta di distacco molto marcato tra le due scuole, un distacco che generò una lunga e noiosa polemica tra orientalisti ed occidentalisti, alimentata anche dalla prolifica penna del giornalista Vittorio Varale.

Armand Charlet sul versante nord-est del Col du Dolent. Foto: Marc-Antonin Azema (proprietà Compagnie des Guides de Chamonix).

Dopo la guerra, nelle Alpi Occidentali si assiste al sorgere dell’alpinismo francese, il quale inizia il suo splendido periodo, che dura ancora ai giorni nostri. La Francia era uscita vittoriosa dalla guerra, era un Paese in via di risurrezione, con forti pretese di rivincita nei confronti di chi aveva cercato di distruggerla. Orbene, anche in alpinismo questo spirito agguerrito e tinto di forte nazionalismo si fece sentire non poco nel primo decennio che seguì la fine delle ostilità. Ma a differenza dell’Italia e della Germania, che scivolarono a poco a poco in regimi dittatoriali e quindi si espressero in alpinismo con manifestazioni spinte all’individualismo eroico ed ascetico, i francesi, forti della loro struttura democratica, invece dettero corpo ad un alpinismo di gruppo e di équipe, in cui più che l’individuo isolato, si poteva distinguere «la cordata». Per molto tempo infatti, nell’ambito dell’alpinismo francese si vedranno agire alcune cordate assai omogenee, in cui è difficile dire chi fosse il capo o il più forte, in quanto gli elementi si equivalevano come forza d’azione e come capacità ideativa. Non per nulla nel 1919 in Francia fu creato il Groupe de Haute Montagne, il famoso GHM, un gruppo di élite che raccoglieva i migliori alpinisti di Francia. Ma a differenza del Club Alpino Accademico Italiano, che rilasciava un riconoscimento dell’attività svolta ai soci ammessi, senza l’impegno di dover ancora praticare attività alpinistica, il GHM esigeva una certa attività di notevole livello, per poter rimanere annualmente membri del gruppo. La conclusione evidente è quella che il CAAI risultò essere alla lunga un gruppo «passivo», una specie di museo del tutto inattivo. Invece il GHM sarà sempre la vera forza dell’alpinismo francese, essendo un gruppo veramente attivo e vitale.

Come già si è detto, in questo periodo, per motivi esposti in precedenza, gli inglesi escono di scena dalle Alpi, con qualche eccezione assai rara. Gli italiani invece (e soprattutto il nucleo torinese) vivono un periodo fecondo, soprattutto perché la personalità di Giusto Gervasutti, dolomitista trasferitosi a Torino, apre loro nuovi orizzonti e permette di apprendere le tecniche orientali, realizzando una fusione che finalmente spegne la biliosa polemica che era in corso. Bisogna però sottolineare che, prima dell’arrivo di Gervasutti, l’alpinismo piemontese agiva ancora su schemi rigidamente classici e rifiutava i concetti espressi dalla Scuola di Monaco. Ma bisogna anche dire che il livello tecnico raggiunto in arrampicata su roccia era assai inferiore a quello dolomitico. L’alpinismo occidentale si orientava ancora sulla grande salita di “misto”, sulla parete di ghiaccio, sulla cresta rocciosa, ma non ancora sul vero tracciato in parete. A sbloccare la situazione contribuirà soprattutto la prima salita della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, realizzata nel 1930 da Karl Brendel e Hermann Schaller, la quale segnò indiscutibilmente la supremazia della scuola orientale sulle Alpi Occidentali.

Ma il vero rivoluzionario, oltre a Gervasutti, sarà il parigino Pierre Allain, il quale veramente darà inizio al “nuovo corso” dell’alpinismo occidentale realizzando la prima salita della parete nord del Petit Dru e diffondendo metodi d’allenamento in palestra che negli ambienti occidentali ancora non erano accettati.

Nell’alpinismo francese si potranno distinguere due correnti ben definite: una di puri dilettanti, raccolta nelle file del GHM, realizzerà imprese di ampio respiro, anche sul ghiaccio, che generalmente era appannaggio esclusivo delle guide montanare. L’altra di guide, dove campeggia la figura di Armand Charlet, forse la più grande guida alpina che l’alpinismo occidentale abbia mai avuto.

Armand Charlet: il Preuss delle Alpi Occidentali
Nato ad Argentière (9 febbraio 1900-1975), il bel villaggio posto nei pressi di Chamonix, Armand Charlet fu sempre un montanaro al mille per mille. E delle grandi guide alpine valligiane che lo avevano preceduto, conservò sempre quello spirito classico e quel modo di affrontare la montagna a “mani pulite”. In tutta la sua carriera alpinistica egli rifiutò sempre drasticamente l’impiego dei mezzi artificiali e l’uso delle tecniche di assicurazione. Charlet fu soprattutto l’uomo del “misto”, dove veramente la sua maestria e la sua “confidenza” con questo terreno repulsivo e difficile, erano leggendarie. Fu guida, ma svolse anche un’attività di primissimo piano di propria iniziativa, risolvendo i più grandi problemi di allora, rappresentati dai versanti più repulsivi di ghiaccio e misto del Bianco. Ma l’amore di tutta la sua vita fu sicuramente la bella Aiguille Verte, che pare egli abbia salito più di cento volte, aprendovi vie nuove su ogni versante. Charlet aveva quell’istinto innato, quell’equilibrio naturale, che gli permettevano di essere a proprio agio su qualsiasi terreno, dal ghiaccio alla roccia. Pur calzando scarponi chiodati, a volte seppe superare in maniera straordinariamente elegante passaggi ancora oggi valutati di quinto grado, come il tratto chiave posto sull’Isolée delle Aiguilles du Diable sul Mont Blanc du Tacul, la lunga e magnifica cresta di cui Charlet fece la prima ascensione nel 1928 con Miss Miriam O’Brien, Robert Lindley Murray Underhill e Georges Cachat. Il passaggio oggi è facilitato da numerosi chiodi, ma il racconto che i primi salitori fecero della prodezza di Charlet è indimenticabile e si tinge, col tempo, quasi di leggenda.

Sul ghiaccio fu vero maestro, infatti portò la tecnica del “cramponnage” (ossia dell’uso dei ramponi a dieci punte) laterale a dei livelli di raffinatezza incredibili, riuscendo a superare senza gradinare il ghiaccio dei pendii inclinati fino a 60 gradi! Non per nulla la tecnica scoperta da Charlet sarà la base di tutta la progressione su ghiaccio, fin quando il rampone a dodici punte (con le quattro punte frontali) e l’uso della piccozza in trazione, non permetteranno la creazione di una nuova tecnica che si basa sulla posizione frontale dell’arrampicatore rispetto al pendio e non laterale come richiedeva il rampone a dieci punte. Charlet per molti anni è stato professore alla scuola d’alpinismo di Chamonix, la famosa E.N.S.A., dove vengono formate le guide alpine francesi.

Modestissimo, schivo, tipico montanaro savoiardo, Charlet non ha mai scritto nulla e non ha mai lasciato alcun resoconto delle sue imprese. Comunque egli resta nella storia dell’alpinismo come uno dei più grandi, soprattutto per il modo e lo stile con cui praticò il suo alpinismo. Con un uso ristrettissimo di mezzi tecnici, praticamente limitati alla piccozza ed ai ramponi, egli seppe affrontare con grandissimo coraggio e risolvere problemi alpinistici che ancora oggi vengono accuratamente evitati (salvo rari casi) dalle nuove generazioni. Il terreno «misto» richiede serenità d’animo, pazienza e provata esperienza. Forse l’arrampicata su roccia è più difficile dal punto di vista tecnico ed atletico, ma permette una valida assicurazione. Sul terreno misto tutto è insicuro, infido, si è costantemente esposti alle scariche di ghiaccio e di sassi. Velocità, sicurezza interiore (più che assicurazione tecnica), esperienza: queste le doti dell’alpinista che si avventura su questi versanti. E queste doti Charlet possedeva in misura tale da essere definito senza tema di smentita (proporzionalmente ai mezzi dell’epoca) come il più grande specialista di questo tipo d’arrampicata.

Come poi vedremo, nella «corsa» per conquistare la parete nord delle Grandes Jorasses, dovette rinunciare non certo per incapacità, o per mancanza di coraggio, ma solo perché la parete richiedeva l’uso di quei mezzi (chiodi, moschettoni, manovre di corda, pedule da roccia) che egli aveva sempre rifiutato.

L’evoluzione dell’alpinismo francese dopo la Prima guerra mondiale
Abbiamo già detto che le sorti del primo conflitto bellico influirono non poco sull’evoluzione futura dei vari Paesi coinvolti nella guerra. Secondo alcuni scrittori francesi, la fine delle ostilità rappresentò per alcuni giovani un vero e proprio problema, in quanto essi si trovarono con un forte accumulo di energia che non poteva più essere scaricata nell’azione eroica. Si sa, d’altronde, che durante i combattimenti la Francia si distinse per l’eroismo dei suoi combattenti e per il compatto spirito di unione che legava le truppe. Insomma, si vorrebbe dire che per alcuni la guerra fu come un’avventura: forse lo fu più per gli ufficiali e per coloro che potevano impartire ordini alle truppe, ma comunque non è il caso di fomentare una polemica dove chiunque può scorgere il vero senza alcuna difficoltà. Sempre secondo questi scrittori, al termine delle operazioni belliche, costoro trovarono nell’alpinismo la naturale via di sfogo e di sublimazione dell’energia accumulata in battaglia. Vi è molto di vero in questa determinazione: i rappresentanti dell’alpinismo francese di questo periodo appartengono quasi tutti al mondo aristocratico francese e soprattutto parigino.

Non per nulla nel GHM si raduneranno appunto personalità di rilievo e appartenenti ad un ceto sociale ben definito. A differenza di altri Paesi come l’Austria, la Germania e l’Italia, dove l’alpinismo incontrava grosso favore proprio tra le classi sociali meno abbienti e più frustrate, qui invece accade il contrario, quasi vi fosse un certo ritardo della Francia rispetto agli altri Paesi. Ma forse non si può parlare di ritardo, ma soltanto di differenti situazioni di base (politiche e sociali), per cui solo più tardi l’alpinismo si diffonderà alle altre classi sociali del Paese. D’altronde anche l’alpinismo francese aveva uno spiccatissimo carattere nazionale, che purtroppo ancora oggi conserva (come d’altronde accadde anche negli altri Paesi), anche se ormai i giovani sono veramente sazi di tutto ciò e sorridono un po’ amaramente delle strumentalizzazioni che a volte devono pazientemente tollerare. Non per nulla sulla copertina della rivista ufficiale del Club Alpin Français si poteva leggere in quegli anni una frase alquanto significativa: «La montagne pour la patrie». Certo non era migliore la situazione in Italia, dove sempre sulla copertina della Rivista Mensile del Club Alpino Italiano, si poteva leggere: “Sono fiero di appartenere al Centro Alpinistico Italiano, scuola di ardimento e di italianità – Benito Mussolini».

Come sempre a volte gli uomini calano nella farsa o meglio nel grottesco del melodramma senza neppure accorgersene, perdendo completamente ogni possibilità di autocritica. Ed è un po’ fastidiosa questa confusione tra alpinismo e guerra, anche se l’analogia a volte viene accarezzata e proposta da alcuni psicologi di impostazione freudiana. Comunque è un vizio comune, in quanto anche in Italia sovente si è mescolato l’alpinismo con il Corpo degli Alpini, imprese alpinistiche con gesta (seppure gloriose) degli alpini compiute in montagna durante la Prima guerra mondiale. Le due cose vanno invece tenute ben distinte e separate, in quanto appartengono a due mondi assai diversi. D’altronde, solo la falsa retorica dell’amore di patria ci ha potuto far credere a certe cose che vennero propinate come vere alle masse. Sappiamo invece che la verità fu un’altra e che il soldato dovette eseguire degli ordini che a volte giungevano da menti un po’ troppo esaltate (è un giudizio fin troppo bonario…). L’alpinista sceglie il suo sacrificio per compiere la salita (anche se su ciò si potrebbe disquisire per un intero capitolo, in quanto vi sono le pulsioni inconsce che regolano il nostro agire), il soldato “deve” ubbidire.

Ma vi è ancora una piccola differenza sostanziale: qualora anche io agisca sotto gli schemi di un quadro inconscio che non controllo e non conosco, è forse sempre meglio che agire subendo gli ordini di un uomo in vena di follie senili o di brame di potere. Eppure, in parte il gioco è riuscito: basti pensare a come in certi ambienti si sia confuso il canto di montagna (di derivazione popolare) con il canto di guerra degli alpini. Resta comunque il fatto che i veri canti di guerra degli alpini non sono certo quelli proposti dai vari cori di montagna, ma sono canzoni di ribellione e di rivolta, che solo oggi cominciano ad essere conosciute, in quanto furono accuratamente sepolte da chi aveva il grande compito di salvare il patriottismo. Ma il discorso è molto delicato e sfiora purtroppo il famigerato “vilipendio alle forze armate”…

Comunque, ritornando all’alpinismo francese ed al suo spirito, purtroppo la vittoria ottenuta dalla Francia produsse degli effetti abbastanza negativi e risibili sullo spirito nazionale di questo popolo, determinando la pretesa della cosiddetta “grandeur” sugli altri Paesi. Oggi le cose vanno fortunatamente e rapidamente mutando, ma gli organi ufficiali del Club Alpin Français ancora soffrono di questa malattia dello spirito, assai dura a guarire.

Le imprese degli alpinisti francesi vengono ancora giudicate come le più grandi realizzazioni della storia dell’alpinismo, ogni spedizione extraeuropea è una vittoria della Francia e del suo popolo, e via di questo passo.

Ma per fortuna vi sono dei giovani, che, con il loro magnifico spirito anarchico, comunitario ed individualista (può sembrare una contraddizione, ma non lo è affatto), volano abbastanza alti su queste cose che sempre più apparterranno ad un passato da inserire nel filone dell’operetta. Certo non per tutti è così: vi è ancora chi arriva sul Kilimangiaro (dove ormai sono salite intere famiglie) e deve sventolare il suo bel tricolore e gridare “Viva l’Italia”. Ma vi è anche chi, giunto sulla vetta del Fitz Roy dopo una durissima scalata durata più giorni, ha sventolato un fazzoletto con l’immagine di Charlie Brown (ma sono californiani…).

«All things must pass»… dicono gli inglesi, tutte le cose passano; forse anche l’alpinismo un giorno sarà un gioco. E ritorniamo dunque ai nostri aristocratici rappresentanti del Groupe de Haute Montagne parigino. Vi troviamo Tom de Lépiney ed il fratello Jacques, Paul Chevalier, Henry Brégeault e più tardi personaggi di primissimo piano come Jacques Lagarde e Henry de Ségogne.

Merito di Lépiney è l’aver portato l’arrampicata libera su roccia a dei livelli veramente notevoli, senza che intervenissero mai mezzi artificiali. Questo fu evidentemente il limite che impedì loro di realizzare imprese come la parete nord del Petit Dru, il grande problema del Bianco dell’epoca. Sicuramente essi sarebbero stati in grado di superare i passaggi in arrampicata libera (è famosa una via di Lépiney sul Trident del Mont Blanc du Tacul, dove fu superato un passaggio di trenta metri di V e V grado superiore senza alcun chiodo!), ma essi non conoscevano l’uso dei chiodi e dei moschettoni. Se i Lépiney furono maestri della roccia, Jacques Lagarde fu sicuramente uno dei più grandi ghiacciatori dell’alpinismo occidentale. Più ancora di Armand Charlet, egli seppe perfezionare al massimo la tecnica dell’uso dei ramponi e la portò ad un livello tale da permettergli di superare pareti eccezionalmente ripide senza tagliare un solo gradino e senza neppure piantare chiodi da ghiaccio per assicurazione. La figura di Jacques Lagarde è stata molto discussa: era un uomo molto severo con se stesso, piuttosto incline alla tristezza, si può dire anche non molto fortunato nella vita. Egli travasò forse nell’alpinismo tutto il bagaglio delle sue contraddizioni ed arrivò a fare della montagna quasi una necessità di vita. Piuttosto misogino, ancora giovane fu colpito da una gravissima malattia che lo paralizzò per tutto il resto della sua esistenza.

Suo compagno nelle grandi realizzazioni fu un altro personaggio cardine dell’alpinismo francese, Lucien Devies, che ritroveremo anche a fianco di Giusto Gervasutti in alcune imprese compiute in Delfinato. Sicuramente la più spettacolare realizzazione della cordata Lagarde-Devies è la via aperta sulla parete est del Monte Rosa, direttamente alla Punta Gnifetti. Ma dal punto di vista tecnico Lagarde espresse il meglio di se stesso il 31 luglio 1930, vincendo con Bobi Arsandaux il fantastico «couloir» nord-est delle Droites, la prima via aperta su questo formidabile versante glaciale, forse il più ripido e difficile di quelli presenti nel Monte Bianco e sull’intera catena alpina.

La rivoluzione tecnica nel mondo dell’alpinismo francese, come si è detto, fu creata soprattutto dal parigino Pierre Allain, ma ancor prima da Alfred Couttet, vero cultore dell’arrampicata su roccia, il quale, a seguito di alcune campagne compiute sulle Dolomiti, introdusse a Chamonix l’uso di tutta la tecnica orientale: chiodi, moschettoni, staffe, pedule, ecc. Bisogna, per,ò dire che l’ambiente locale rappresentato dalle guide di Chamonix si rivelò sempre molto restio ad accettare queste innovazioni e proseguì nello stile classico dettato da Armand Charlet. Saranno invece i cittadini (specialmente marsigliesi e parigini) ad accogliere con entusiasmo la nuova tecnica e ad impadronirsene, raggiungendo risultati di assoluto prestigio. Assisteremo poi, ma molto dopo, al fenomeno delle guide cittadine (Rébuffat, Terray) che, trasferitesi a Chamonix, riuscirono a diffondere questi sistemi anche tra gli ambienti valligiani più conservatori. Vedremo poi come sarà soprattutto la scuola marsigliese a specializzarsi al massimo nell’arrampicata artificiale, raggiungendo un livello tecnico tale da permetterle di affrontare e superare sulle Dolomiti dei problemi che non erano stati risolti neppure dagli alpinisti locali.

Francesco Ravelli
Ricollegandoci a quanto esposto precedentemente, si ricorderà che, già prima del conflitto, sulle Alpi Occidentali piemontesi e milanesi avevano realizzato il distacco dalla figura della guida ed avevano dato inizio all’alpinismo cittadino senza guida, caratterizzato dalla fondazione del Club Alpino Accademico Italiano.

In questo senso la figura del valsesiano Francesco Ravelli (1885-1985) si inserisce come ponte tra due generazioni, ossia tra quella dei fratelli Gugliermina e l’altra di Gabriele Boccalatte e Renato Chabod, che fu illuminata dall’arrivo di Giusto Gervasutti.

Francesco Cichin Ravelli al cospetto del Monte Rosa

Ravelli, anche se poco conosciuto proprio per la sua modestia proverbiale, è certamente una delle figure più simpatiche dell’alpinismo italiano. Non ha certo mai avuto la durezza eroica dei tedeschi, ma quando era ora di lottare non si è mai tirato indietro e la pelle l’ha sempre portata a casa, tanto che quasi ottantenne si permetteva ancora di girovagare per il Rosa e per il Cervino (1).

Il suo spirito ricorda quello di un Mummery, infatti ne possiede la stessa ironia e lo stesso garbo sottile nello sdrammatizzare ogni situazione, ma in più vi è in lui una freschezza e un entusiasmo che vanno ben al di là di ogni limite rappresentato dal tempo e dagli anni. «… Ravelli va in montagna con la freschezza di sensibilità poetica d’un Guido Rey e con la lucida strategia alpina d’un Duca degli Abruzzi. L’insieme delle sue grandi ascensioni denota un piano preciso d’applicazione d’un certo livello tecnico, raggiunto dall’alpinista, al settore delle Alpi Occidentali: tutte le imprese che cadono sotto quel livello tecnico sono individuate con sicurezza, affrontate e condotte a termine. Nello stesso tempo sono innumerevoli le piccole vie nuove, per così dire marginali, da lui raccolte in ogni angolo delle Occidentali, forse con particolare abbondanza nel versante meridionale del Gran Paradiso: perché Ravelli è l’uomo che non disdegna affatto di vagabondare in piccole valli dimenticate del Canavese, magari pochi giorni dopo aver aperto grandi itinerari sul Monte Bianco, e la passeggiata turistica solitaria in un bel paesaggio alpino non ha per lui minor pregio che la grande impresa al limite delle forze. Limite che, sia detto per inciso, non si sa se Ravelli abbia mai voluto toccare, tanta è la sicurezza che caratterizza la sua lunga carriera alpina (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)”.

Ravelli inizia dunque sui monti della sua Valsesia, poi si unisce ai Gugliermina, ai quali sa portare un soffio rinnovatore che li sprona verso imprese di assoluto valore sul versante meridionale del Monte Bianco.

Ed è proprio con i Gugliermina che per un soffio viene mancato il successo sulla lunga e difficile Cresta dell’Innominata, dopo averne esplorato la parte più complessa ed impegnativa.

Ravelli pratica l’alpinismo senza guida, infatti i suoi notevoli mezzi tecnici e morali gli permettono di superare qualsiasi ostacolo, ma realizza anche molte ascensioni con la grande guida di Courmayeur Adolphe Rey, non tanto per un bisogno reale, ma certamente per un rapporto di amicizia e simpatia. Suo compagno preferito di ascensione è il biellese Guido Alberto Rivetti: molti successi sono infatti siglati dai nomi Ravelli-Rivetti-Rey-Chenoz. Ravelli non si accontenta certo di ripetere i grandi itinerari di chi lo ha preceduto, ma ama il “nuovo” e riesce a scoprire ciò che ancora non è stato intuito e scoperto. Le sue attenzioni sono rivolte soprattutto al versante meridionale delle Grandes Jorasses, caratterizzato da lunghe creste turrite e selvagge, e dalla formidabile parete sud del Monte Bianco. Più che le scalate spettacolari e brevi, egli ama la grande salita che isola dal mondo, il grande ambiente occidentale. Eppure egli è alpinista completo in ogni senso, capace di aprire anche difficili itinerari di arrampicata pura oppure percorsi di solo ghiaccio.

Il 23 e 24 luglio 1923, con Rivetti ed Evaristo Croux, percorre la lunga e difficile Cresta di Pra Sec alle Grandes Jorasses, una via che dovrebbe essere assai più conosciuta per la sua notevole bellezza. L’elenco dell’attività è veramente impressionante, ma comunque non può non essere citata la conquista della Cresta des Hirondelles alle Grandes Jorasses, compiuta il 31 luglio 1927 con Rivetti, Sergio Matteoda, Gustavo Gaja e le guide Adolphe Rey e Alfonso Chenoz.

La cresta all’epoca era il «grande problema» del Bianco e sappiamo che nomi famosi si erano arrestati di fronte all’intaglio a «V»: Mummery, Knubel, Young, il Duca degli Abruzzi. Quella fessura di trenta metri fu certamente il capolavoro del piccolo (di statura) e grande Adolphe Rey, che vi salì aiutandosi solo con tre chiodi e destando l’incredulità di molti alpinisti del tempo, i quali erano stati battuti dalle difficoltà.

Spigolando qua e là, troviamo la salita della splendida cresta nord dell’Aiguille de Leschaux (31 luglio 1927); la difficile e complessa via aperta sul versante sud-est dell’Aiguille de Rochefort, con Mario De Benedetti (16 luglio 1934); la prima salita del ripidissimo canalone nord-est del Mont Blanc du Tacul, oggi chiamato couloir Gervasutti, ma che più giustamente bisognerebbe forse chiamare “canalone Ravelli” (1 settembre 1929, con Piero Ghiglione e Piero Filippi).

Ma ciò è veramente nulla di fronte alla mole di ascensioni realizzate su tutto l’arco alpino occidentale: prime ascensioni assolute, prime ripetizioni, prime italiane e prime senza guida. E vi è un altro particolare da segnalare: Ravelli rappresenta nell’alpinismo occidentale qualcosa di nuovo e di innovativo. In un’epoca in cui l’alpinismo piemontese è appannaggio di un certo ceto sociale ben definito, Ravelli giunge a spezzare questa egemonia. Egli non è un aristocratico e quindi riesce ad aprire la spirale verso altri ceti sociali ai quali l’alpinismo giungerà più innanzi. Ma, sia chiaro, in Ravelli non vi è alcuna pretesa di rivalsa, non esiste alcun aspetto rabbioso, anzi, Ravelli in montagna si accompagna a chiunque: guide, nobili, valligiani. Ed è per questo che ancora oggi, novantenne (2), ama discutere serenamente con i giovanissimi dei loro problemi e segue appassionatamente i fatti dell’alpinismo di oggi, riconoscendo ai giovani i loro giusti meriti e non cadendo mai nella trappola di chi, non avendo accettato il tempo e la vecchiaia, continua a ripetere: “Ma ai miei tempi…».

Abbiamo parlato di Adolphe Rey. Dopo la guerra la dinastia di guide di Courmayeur vive ancora giorni di gloria, realizzando la prima ascensione della Cresta dell’Innominata al Bianco (Stephen Lewis Courtauld ed Edmund Gifford Oliver con Adolf Aufdenblatten e Adolphe e Henry Rey il 19 e 20 agosto 1919).

Ormai l’epoca d’oro delle guide sta tramontando sotto l’incalzare dei cittadini e questi sono forse gli ultimi sprazzi: poi, salvo rare eccezioni (leggi Arturo Ottoz), l’alpinismo cittadino avrà definitivamente il sopravvento.

Nel 1924 i due fratelli Rey conquistarono il Grand Capucin (24 luglio, con Enrico Augusto e Louis Lanier), splendido obelisco di rosso protogino inattaccabile in arrampicata libera da ogni versante. Per realizzare quest’impresa l’ingegno montanaro si scatena nel vero senso della parola: il piccolo Adolphe più volte si innalza su una pertica sorretta in precaria posizione dai compagni (era un tronco che serviva da steccato in un prato…! e che essi avevano portato fin lassù), poi addirittura perfora la roccia con degli aghi da mina per superare una placca assolutamente levigata.

I critici inglesi, che sovente risentono un po’ troppo della loro tradizione rigorosa e puritana, hanno sempre criticato in modo durissimo questa salita, accusando i salitori di abuso di mezzi artificiali e via dicendo. In realtà in questo caso sono proprio essi a mancare di «humour», in quanto non riescono ad isolare l’episodio ed i sistemi impiegati (che infatti non ebbero alcun seguito) e non sanno sorridere di un’impresa che costituisce un fatto a sé. Essi dicono che una squadra di carpentieri e di operai avrebbe fatto un lavoro migliore. E chi lo nega? Ma la cecità moralista impedisce loro di scorgere il lato simpatico di quest’impresa, dove l’astuzia e l’ingegno montanaro cercano di aver ragione di ostacoli insormontabili in arrampicata libera. D’altronde nessuno si sognerebbe oggi di superare dei passaggi con una pertica! E poi anche se così fosse, non si riesce bene a capire in virtù di quale comandamento ciò deve essere proibito. Vi è però da dire che la pertica più volte fece la sua apparizione sul Bianco e soprattutto tra le guide di Courmayeur: così nei tentativi alla cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey, oppure per vincere il Père Éternel, un sottile ago di granito che si alza a fianco dell’Aiguille de la Brenva. Ma non si riesce a capire lo “scandalo” in tutto ciò: il Grand Capucin sarà salito con mezzi tradizionali da Giusto Gervasutti, la cresta sud della Noire da Brendel e Schaller, il Père Éternel da Arturo Ottoz.

In fin dei conti l’immagine di Adolphe che si inerpica sulla pertica che traballa paurosamente, perché sorretta dai compagni ancorati ai chiodi in posizione precaria, più che scandalosa è un po’ comica e fa quasi tenerezza, ricordando le scene di certe comiche del muto dove il protagonista appeso all’asta della bandiera rischia ogni volta di precipitare, salvandosi poi in extremis aggrappandosi al cornicione del palazzo…!

Comunque, il piccolo Adolphe come arrampicatore su roccia aveva certo le carte in regola ed era uno dei migliori del suo tempo. Non per nulla, ormai cinquantenne, riuscì a superare la famosa fessura dell’intaglio a “V” sulla Cresta des Hirondelles alle Grandes Jorasses, dove tutti gli altri erano stati respinti. Forse la sua impresa più ardua e difficile, però, è quella del 1928, quando con Guido Alberto Rivetti vinse la parete nord dell’Aiguille Noire de Peutérey.

Accanto ai Rey, tra le guide di Courmayeur di questo periodo, vanno anche ricordati i Croux, soprattutto Evaristo, che fu accanto a Ravelli nella prima salita della Cresta di Pra Sec alle Jorasses, ed Eliseo, che invece si assicurò il successo sull’altra grande cresta meridionale delle Grandes Jorasses, quella di Tronchey (1936), caratterizzata da alcune splendide torri di granito compatto e rossastro. E non va dimenticato pure Alfonso Chenoz, fido compagno di Ravelli e di Rivetti in numerosissime ascensioni.

Note
(1) Francesco Ravelli si è spento a cent’anni di età nel maggio del 1985.
(2) Vedi nota precedente.

Le Alpi Occidentali tra le due guerre – 1 ultima modifica: 2024-05-15T05:50:00+02:00 da GognaBlog

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7 pensieri su “Le Alpi Occidentali tra le due guerre – 1”

  1. I racconti di Motti si bevono d’un sorso: anche se non ho il piacere di conoscere la sua voce, mi sembra sempre di stare ascoltando una cronaca in tempo reale.
    Mi è piaciuto leggere il passaggio riportato da Marcello.

  2. E come spesso accade l’errore metodologico lo commetti tu, che non riesci a resistere alla tentazione di voler far dire agli altri quello che pensi tu, perchhé in nessun punto dello scritto di Motti appare anche lontanamente una distinzione tra alpinismo di vertice e alpinismo di massa, ma semmai il contrario.
    Sembra scritta per te la sua frase:
     
    “Come sempre a volte gli uomini calano nella farsa o meglio nel grottesco del melodramma senza neppure accorgersene, perdendo completamente ogni possibilità di autocritica.”

  3. Le prese di posizioni vanno sempre contestualizzate nello scenario storico in cui sono state formulate. Il linguaggio è i termini della frase riportata sono tipici degli Anni Settanta, risvolto molto interessante da analizzare sul piano storico, meno in termini di dibattito sulla realtà odierna. L’acqua passa inevitabilmente sotto i ponti e affermazioni di molti decenni fa non sono necessariamente applicabili tout court alla realtà che ci circonda.
     
    A ciò va aggiunta la (già citata) differenziazione fra alpinismo di vertice o quanto meno “impegnato”, da un lato, e, dall’altro, l’alpinismo di massa, cioè la frequentazione della montagna da parte della moltitudine di appassionati “medi”.  La valutazioni citate, al di la del timing storico, vanno circoscritte al primo mondo e non necessariamente (neppure allora) applicabili al secondo.
    I due contenitori non vanno mai mescolati: farlo è un errore metodologico. Estendere valutazioni sull’alpinismo di vertice anche a quello di massa è come affermare che i normali automobilisti (magari mentre vanno al mare con la famiglia in auto e la roulotte al traino) dovrebbero emulare Gilles Villenueve.
     

  4. So già che verrò accusato di non avere “letto bene”, di non aver “focalizzato” e di avere il gusto per la polemica aprioristica fine a se stessa.
    Ma per me il bianco è bianco e il nero è nero, sempre, senza cambiargli colore asseconda di quello che conviene al momento. 
    E semmai lo facessi o l’ho fatto, l’ho sempre dichiarato chiaramente. 
    E lo scrivo anche alla faccia di chi non sopporta queste frecciate. 

  5. Sempre interessante rileggere Motti e la sua storia dell’alpinismo.

    Mi chiedo, essendo stato Motti istruttore della scuola torinese Gervasutti, cosa penserà Crovella di pensieri come questo: Ma per fortuna vi sono dei giovani, che, con il loro magnifico spirito anarchico, comunitario ed individualista (può sembrare una contraddizione, ma non lo è affatto), volano abbastanza alti su queste cose che sempre più apparterranno ad un passato da inserire nel filone dell’operetta.

  6. Leggere Motti è, per me, un piacere grandissimo. Invidia per una “penna” che ha pochi uguali in tutto il settore dello scrivere.
    Grazie al Blog.

  7. Charlet lasciò le sue memorie nel libro Vocation Alpine, mai tradotto in italiano 

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