Le carceri del Sudan
(Khartoum, Sudan, gennaio 1989)
di Raffaele Lele Dinoia
Eravamo arrivati a Khartoum, la capitale del Sudan, al primissimo mattino del giorno di Natale e già ci era sembrato strano trovare un aeroporto privo di bar e ristoranti.
Dopo esserci sistemati in albergo, un giro per la città ci aveva portato indietro a quello che io immagino possa essere stato l’aspetto di un paese coloniale di inizio Novecento. Pochissime facce di turisti in giro, solo i locali intabarrati nei loro caratteristici abiti e copricapi e poi tanta sabbia per le strade, animali condotti a mano, il tutto immerso in un vento di sabbia, che impediva al sole di farsi vedere e creava un paesaggio surreale, caratterizzato dalla stessa colorazione uniforme tendente al grigio-arancione spento e dalla costante uniforme sensazione di calma e inerzia intrise di fatalismo.
La prima settimana è stata dedicata ad un bellissimo giro nel deserto nubiano, noi sei scarrozzati da un camion/pullman intero tutto per noi, con un autista che parlava solo arabo e che spegneva le luci di notte per seguire la direzione indicata dalle stelle. La comunicazione tra noi e lui era resa possibile dalla presenza di un cosiddetto interprete che altro non era se non un gioielliere che avevamo ingaggiato in città e che non aveva avuto dubbi a chiudere il negozio per una settimana per accompagnarci.
Terminato il giro, eccoci di ritorno a Khartoum, indaffarati per l’ottenimento di una serie infinita di permessi, necessari per arrivare a Port Sudan, sulla selvaggia costa del Mar Rosso.
Questa sera, alla vigilia della partenza per il Mar Rosso, sono uscito da solo dall’albergo, perché ho appuntamento con un ragazzo etiope che ho conosciuto questa mattina e con cui sono rimasto d’accordo di scambiare 100 dollari in nero, che non avevo appositamente dichiarato al momento dell’ingresso nel Paese.
In realtà, non credo che questo cambio mi farà guadagnare più di tanto, ma comunque ho l’idea e la sensazione di vivere di più l’avventura condividendo questa piccola azione illegale con il mio nuovo amico.
Siamo rimasti d’accordo di incontrarci lungo la via principale: sono da poco passate le 17, i negozi hanno appena aperto, ma è inverno e la luce è già calata.
Il ragazzo non si fa aspettare all’appuntamento, anzi, arriva prima lui di me e assieme ci dirigiamo verso una specie di piccola galleria di negozi illuminati per compiere l’operazione.
Ovviamente già stamane gli ho precisato che prima volevo vedere i soldi e avere la possibilità di contarli e solo allora avrei estratto la banconota americana. Mi guardo attorno e mi sembra tutto tranquillo e normale, in effetti c’è solo un ragazzo seduto su un gradino; ci volge le spalle e non si muove, ha un cappuccio calato sulla fronte e non sembra interessato a quello che facciamo.
Il ragazzo etiope mi mostra i soldi che ha portato, mi fa vedere le banconote di taglio maggiore in modo che possa valutare l’importo complessivo del denaro che ha portato. Mi pare che ci sia tutto, comunque mi attardo ancora un po’, quindi mi decido, tiro fuori il biglietto verde e ci scambiamo i soldi.
È con vera sorpresa che mi accorgo in quel momento che il ragazzo col cappuccio si gira, si alza e mostrandomi una tessera si dichiara agente della polizia; ritira i soldi, prende l’etiope per un braccio e si incammina invitandomi a seguirlo.
Abbandoniamo la strada principale dirigendoci verso la periferia completamente buia, in breve siamo in una via deserta, allora l’agente estrae la pistola e mentre tiene me per un braccio comincia a urlare in arabo e a battere il ragazzo col calcio dell’arma.
Non capisco cosa voglia fare, ma in breve mi divincolo dalla presa e retrocedo di qualche passo; stranamente l’agente non fa nulla per fermarmi, continuo a camminare all’indietro e dopo poco mi allontano senza difficoltà.
Sono sconvolto, ma fortunatamente mi viene in mente di passare dalla banca per cambiare un po’ di dollari. La banca è aperta e posso effettuare un cambio regolare, con ricevuta, ed è questa la mossa che mi salverà.
Rientro in albergo e racconto tutto agli altri, ci chiudiamo concitati nella stanza, mettiamo tutti i soldi sul letto e li contiamo, controllando che le ricevute dei cambi siamo congruenti con le banconote rimaste e con la dichiarazione di valuta fatta alla frontiera 10 giorni prima. Poi andiamo a tavola perché è ora di cena e intanto parliamo di quanto sono stato stupido e ingenuo a farmi beccare, ma tutto è andato bene e se Dio vuole domattina si parte per il mare.
Quando, appena terminata la cena, siamo nella Hall dell’albergo a consultare le cartine della prossima meta e vedo apparire sulla porta l’agente con il cappuccio mi sento morire; non riesco a dire una sola parola, ho già capito.
Non viene da noi, va direttamente da Georges, il padrone dell’albergo, che è un greco di una gentilezza infinita e che ci ha preso in simpatia sin dal primo giorno in cui siamo arrivati, forse anche perché eravamo gli unici europei in circolazione.
È la prima volta che cambia atteggiamento, lo vedo irritato, mi apostrofa deciso, mi dice che in Sudan il cambio al mercato nero è un reato grave, che a questo punto lui non può più fare niente e mi invita a seguire l’agente. Decidiamo che le tre ragazze rimarranno in albergo, mentre gli altri due mi accompagneranno alla Centrale di Polizia.
Ci fanno entrare in un ufficio squallido e poco illuminato, qui ci sono altri agenti che mi fanno lasciare cintura, documenti e portafogli e mi ordinano di seguirli. Così faccio, mentre gli altri due si avviano verso l’uscita, per poi andare in albergo a relazionare le ragazze e a far passare alla Telli una delle notti più brutte della sua vita.
Io vengo portato in cella, qui la luce è già spenta ma nella penombra vedo che in uno spazio ristrettissimo sono ammassati almeno una ventina di arabi vestiti nelle loro lunghe tuniche e copricapi. La guardia apre con le chiavi la porta, mi fa entrare e chiude la inferriata dietro di sé.
Trovo un piccolissimo spazio libero, mi siedo, non so cosa pensare, mi prendo la testa tra le mani e rifletto sulla mia situazione, che in questo momento vedo nera, anche più disperata di quando mi sono perso nel deserto; penso che non potrò tornare in Italia assieme agli altri, che perderò il lavoro, che non ho la minima idea di quello che mi capiterà in questo strano paese, che sono stato un vero cretino e che non ci sono vie di uscita.
Gli altri arrestati sono indifferenti alla presenza del nuovo venuto, qualcuno è gentile, mi offre qualcosa da mangiare, qualcuno canta sommessamente una litania araba, qualcuno parla un po’ in inglese e questo mi rincuora, poi tutti tacciono e iniziano a dormire.
Anch’io mi allungo sul posticino libero dove mi sono sistemato, non ho altro che una felpa di cotone e fa freddo, ma è così diverso dai tanti bivacchi che ho passato in piena libertà in montagna; metto un braccio piegato sotto la testa a mo’ di cuscino, mi rannicchio per non disperdere calore e cerco di prendere sonno. Però mi riesce difficile perché oltre alle preoccupazioni c’è un arabo che continua a urlare nella sua lingua, credo sia un pazzo perché nessuno gli dice niente, poi a un certo punto si alza, si avvicina alle sbarre della cella sovraffollata e comincia a pisciare.
Ne deriva un odore insopportabile, un misto di orina e di odori africani; in compenso, sembra che dopo la minzione l’arabo si sia tranquillizzato, invece passano pochi minuti e si alza di nuovo e poi urla, urla ancora, in questa lingua dura e gutturale, che mi aveva affascinato ma che ora sento nemica ed estranea.
Alla fine, non so come, mi addormento, di un sonno pesante e senza pensieri.
La mattina arriva, indifferente e senza spirito, come tutto in questo posto, dalla faccia inespressiva delle persone arrestate, all’arrivo lento ed indolente dei secondini; aprono le celle e ci radunano, poi ci portano tutti assieme in un cortile all’aperto e con il filo spinato ben teso sopra le nostre teste.
Siamo in coda, ma non capisco come mai: quando si avvicina il mio turno, vedo che uno alla volta possiamo fare i nostri bisogni corporali in una turca, ovviamente all’aperto ed al cospetto di tutti.
Poi ci fanno rientrare in cella ma io vengo fermato, mi portano nell’ufficio dove sono stato ieri sera e mi interrogano, io continuo a ripetere la stessa penosa versione dei fatti, ma essendo stato preso in flagrante non riesco a sostenere una storia veramente sensata. Alla fine mi fanno sedere su un gradino e mi dicono di aspettare.
D’improvviso vedo Georges dall’altra parte del bancone e con lui c’è la Telli.
Mi emoziono, faccio un cenno di saluto, poi mi rimetto seduto e raggomitolato ad aspettare. Vedo che Georges parla fitto fitto coi poliziotti, poi finalmente mi chiamano e mi fanno uscire. Allora è vero, Georges ha fatto il miracolo, ha garantito per me depositando i suoi propri documenti ed ora sono fuori, anche se senza passaporto e in libertà vigilata.
Inizia una settimana fatta d’angoscia, andiamo all’Ambasciata Italiana, ma qui non ci sono di grande aiuto.
Poi Georges mi mette in contatto con un avvocato del posto. Intanto siamo bloccati in città, giriamo fino alla periferia dove si stendono tristissimi campi nomadi ma, dovunque vada, mi accorgo di sguardi puntati su di me.
C’è sempre almeno un agente in borghese che mi controlla a vista, e dopo poco imparo a riconoscerli. Uno di loro un giorno capisce che l’ho identificato e mi si avvicina. “You have a big problem” è l’unica cosa che mi dice.
Sono angosciato, non posso fare niente. Mi sento talmente senza speranza che anche se sogno religiosamente agnostico, decido di fare un voto e di non toccare più una sigaretta per il resto della mia vita.
Intanto i giorni passano, le vacanze stanno finendo, il volo di rientro è fissato e oltre a tutto c’è in corso uno sciopero degli avvocati che potrebbe durare addirittura un mese e questo non facilita la soluzione della questione.
Arriva il giorno della partenza e io sono sempre senza passaporto e non so ancora nulla; assieme all’avvocato vado con la Telli nell’Ufficio del Capo della Polizia. L’ufficio è grande, è lussuoso e contrasta con l’estrema povertà di tutto quello che si vede a Khartoum.
Io rimango seduto su un divano senza dire e fare niente, mentre l’avvocato e il poliziotto parlano a lungo e vedo che l’avvocato mostra le ricevute con i cambi di valuta fatti regolarmente alla banca.
Sono preoccupato ma adesso non provo angoscia, sento una strana sensazione di calma e di fiducia, come se il finale fosse già scritto e tutto dovesse finire bene.
Difatti è così, saldo il mio debito con la giustizia sudanese pagando una sanzione pecuniaria e pago anche la ridicola parcella dell’avvocato. Finalmente mi ridanno i documenti per uscire dal paese e adesso mi sento finalmente libero mentre mancano solo poche ore al rientro in Italia.
Arriva presto sera e noi siamo già in aeroporto, in anticipo, ma anche dopo aver superato il check-in non riesco ad esser del tutto rilassato; per esserlo, dovrei aver già abbandonato definitivamente il Paese.
Neanche a dirlo, stiamo per entrare su un pulmino che conduce dalla sala d’imbarco all’aereo e vengo chiamato per nome e bloccato, mi sento gelare dentro e penso che non è ancora finita. Fortunatamente invece è una banalità, hanno solo rilevato la presenza di un coltellino svizzero nel mio tascapane che non può essere portato in volo e che mi viene sequestrato: devo firmare un altro documento.
Riprendo il pullman, salgo le scale ed entro in aereo; ci sediamo ai posti assegnati, io e la Telli siamo vicini, ci leghiamo con le cinture di sicurezza, mentre gli inservienti illustrano il protocollo che regola le procedure di sicurezza, con la solita esasperante lentezza che è innata nella mentalità araba ma che a me questa sera sembra assurda e insopportabile. Alla fine gli inservienti si siedono, una voce annuncia la fase del decollo e ci fa capire che, Inshallah, finalmente si parte.
In silenzio e tenendoci per mano, ci scambiamo un sorriso quando sentiamo che le ruote dell’aeromobile si staccano definitivamente dal suolo sudanese.
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Forse i miei amici sono solo stato sfigati. Ma comunque cacciarsi in situazioni pericolose ci sta, a patto di non farne un dramma o ricamarci sopra dopo…
Vegetti, ho continuato a fare la guida in Nepal anche durante la rivolta maoista. I terroristi maoisti erano abbastanza corretti con gli stranieri. Ti chiedevano un obolo obbligatorio che, ti spiegavano serviva a finanziare la rivoluzione, e ti rilasciavano regolare ricevuta, che io mettevo in nota spese. Il mio commercialista se l’è incorniciata.
A parte questo, credo che in Sudan la situazione fosse più cazzuta.
Concordo con Fabio. In più: in quegli anni in Sudan era in corso una guerra civile, la seconda. Proprio a giugno del 1989, un altro colpo di Stato, ovviamente partito da Khartoum.. Quindi la situazione probabilmente era peggio che se non ci fosse stata. Ma spesso noi occidentali caschiamo dalle nuvole o vogliamo credere che a noi non succederà nulla… Ho degli amici che sono stati in Nepal durante la guerra civile e sono stati prima in mezzo alle sparatorie e poi ostaggi dei guerriglieri (poi liberati). Tornati, si meravigliavano di come potesse essere successo a loro, italiani…
Il Sudan dell’89 non aveva nulla a che vedere con Algeria ed Egitto,dove il cambio si faceva alla luce del sole. Solo per ottenere il visto d’ingresso avevamo dovuto aspettare 2 mesi. Era un paese dove il turismo era praticamente inesistente e ci siamo andati forse non consapevoli dei rischi di chi non rispetta appieno le regole.
Un atto istintivo. La vocina che viene da dentro che bisogna ascoltare, ci salva la pelle.
Gli eventi qui narrati risalgono al 1989 e a quell’ epoca effettuare il cambio in nero in Algeria, Egitto, Libia e altri paesi arabi era la norma: io stesso vi ho fatto ricorso anche se, entrando via terra, la manovra avveniva in posti come distributori di benzina o officine meccaniche, dove la presenza di un poliziotto in borghese non sarebbe passata inosservata. Se le cose hanno preso una brutta piega è stato perché qualcuno aveva preparato una trappola per dimostrare quanto efficiente fosse: forse un agente neo promosso o un nuovo comandante della zona: la mossa di cambiare subito un po’ di valuta in banca ha sicuramente giovato alla rapida soluzione, immagino che la notte in cella avrà fatto sembrare il più spaventoso bivacco con -30 e tempesta di vento come una simpatica gitarella.
Questa storia è emblematica di come la giustizia intrappola il piccolo moscerino inerme e da il verde al calabrone impunito …con quello che succede in quella terra tormentata da eterne carestie ,guerre tribali e non , massacri etnici a Raffaele quella “vacanza” è andata ancora di lusso!
“[…] ho l’idea e la sensazione di vivere di più l’avventura condividendo questa piccola azione illegale con il mio nuovo amico.”
Hai voluto la bicicletta?
Del Sudan si raccontano violenze raccapriccianti per opera delle bande mussulmane che infestano il paese da molti anni. Come a Gaza anche in questo caso non è una questione di razza, ma di cultura e di tradizioni.