Riccardo Cassin, il Risolutore – 1

Riccardo Cassin, il Risolutore – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-25)

Il gruppo dei lecchesi
Parlando di Emilie Comici, già si è sottolineata l’importanza della palestra di roccia nell’evoluzione dell’alpinismo cittadino. Se per i triestini la Val Rosandra è «la palestra» per definizione, per i lecchesi invece è la Grigna il piccolo mondo dolomitico dove ogni domenica gli arrampicatori locali (ed anche non locali) si ritrovano in gruppo per affinare il loro grado d’allenamento. La Grigna copre un territorio molto esteso ed offre all’arrampicatore una gamma infinita di possibilità, sia in arrampicata libera che in artificiale. Caratteristica di questo gruppo sono le piccole guglie ardite e slanciate, i «campaniletti», i «funghi», «le lance», i «sigari», ed altri mille nomi che la fantasia degli arrampicatori ha attribuito alle conformazioni rocciose bizzarre. Alcune pareti, come quella della Corna di Medale, si elevano addirittura sopra l’abitato di Lecco e permettono di arrampicare anche nei pochi ritagli di tempo libero pomeridiani. Anche se i «paracarri» della Grigna a lungo fecero sorridere gli austeri ambienti occidentali ancorati ai concetti di «grande montagna», da questa palestra invece si formò rapidamente il più forte nucleo di arrampicatori italiani, i quali ben presto dettero dimostrazione del loro valore e della loro preparazione su ogni terreno, risolvendo quelli che al tempo erano definiti come gli ultimi problemi della catena alpina.

Riccardo Cassin e Mary Varale dopo la salita della parete est della Guglia Angelina (Grignetta)

È nota, e già se ne è discusso, la polemica tra occidentalisti ed orientalisti: si può dire con certezza che furono gli occidentalisti a doversi adeguare agli orientalisti, e non viceversa. Con Giusto Gervasutti e soprattutto con Riccardo Cassin, la dimostrazione della superiorità della scuola orientale fu schiacciante e palese su tutti i terreni: roccia, misto ed anche ghiaccio. Dunque si era dimostrato che era più semplice per un forte arrampicatore su roccia divenire un esperto ghiacciatore, che non il contrario.

Il Gruppo delle Grigne da tempo era frequentato dagli arrampicatori, ancor prima degli anni Trenta, ma si era giunti ad una specie di «impasse», soprattutto perché non si era a conoscenza delle tecniche del chiodo e del moschettone e quindi si osava senza l’ausilio dei mezzi artificiali. Subito dopo la Prima guerra mondiale, proprio a Lecco si era formato un gruppo di forti arrampicatori, di estrazione tipicamente proletaria: erano in genere operai, garzoni di fabbrica, manovali, tutti ragazzi che avevano una dura realtà esistenziale, pochissimo tempo libero ed ancor meno soldi nelle loro tasche. Non per nulla al loro gruppo dettero nome «Gruppo sempre al verde» (che solo in seguito, sotto la spinta del formidabile arrampicatore Gigi Vitali si chiamerà «Gruppo Ragni di Lecco»). Per questi ragazzi arrampicare era uno dei pochi modi di affermarsi, di trovare una rivalsa, una autostima perduta nella morsa spersonalizzante delle città industriali. Per questi ragazzi la Grigna era tutto: le Dolomiti, il Monte Bianco, l’Himalaya. Su queste paretine dettero il meglio di loro stessi e, quasi senza rendersene conto, raggiunsero un livello ed una capacità tecnica in arrampicata, tali da metterli in condizione di affrontare poi qualunque parete sulla catena alpina.

I nomi più famosi sono quelli del Boga (Mario Dell’Oro), arrampicatore elegantissimo, dotato di uno stile eccezionale, forse il più forte arrampicatore libero del gruppo; di Gigi Vitali, di cui già si è detto; di Vittorio Ratti, atleta magnifico, arrampicatore dotato di una forza fisica non comune; di Ercole Esposito, il leggendario Ruchin, artista dell’arrampicata sulla roccia marcia; di Vittorio Panzeri, di Antonio Piloni, di Augusto Corti e soprattutto di Riccardo Cassin.

Molto si è detto e molto si è scritto su Riccardo Cassin (1909-2009). Certamente Cassin è stato uno dei più grandi protagonisti di tutta la storia dell’alpinismo: un uomo d’azione, diretto, sbrigativo, di un’intelligenza chiara e risolutrice, un uomo a torto definito come un «semplice» da molti critici d’alpinismo. Certo Cassin non può essere affiancato ad un Comici o a un Gervasutti, personalità più complesse, caratteri più nevrotici, inclini alla malinconia e a rinchiudersi in se stessi. Cassin ha la tempra del lottatore, è l’uomo che non vuole arrendersi mai, che costantemente vuole restare nella realtà, che vive soprattutto di «pratica» e forse detesta la «teoria». Non è che Cassin non pensi, anzi, però più che perdersi in giri metafisici, egli ama agire, ama dar concretezza ai suoi sogni. È per realizzare i suoi sogni ha a disposizione una tenacia, una volontà ed una «grinta» assolutamente al di fuori del comune. Così nell’alpinismo, come anche nella vita, Cassin è un uomo che si è costruito da solo, che forse non ha mai servito nessun padrone. Ha cominciato come fabbro con una piccola bottega e a poco a poco è divenuto il titolare di una grande e rinomata azienda che produce articoli per alpinismo apprezzati in tutto il mondo.

Forse all’epoca vi erano anche arrampicatori stilisticamente più dotati di Cassin (vedi il Boga), ma Cassin seppe risolvere in pochi anni i problemi che nessuno aveva risolto su ogni terreno: dolomia, granito e misto occidentale. A differenza di Gervasutti, di cui parleremo più innanzi, per il quale l’alpinismo era l’unico mezzo di sublimazione e di elevazione dal «mortale» che egli disprezzava e compativa (alpinismo di cui inevitabilmente divenne schiavo fino all’infelicità), Cassin è sempre riuscito ad inserire l’alpinismo nel suo contesto esistenziale ed è per questo che forse egli dà ad ogni persona l’impressione di essere un uomo sereno ed allegro. Non per nulla Cassin ha sempre ripudiato forme di alpinismo troppo rischiose (come quello solitario) o altre che forse vanno alla ricerca della lotta sofferente (come l’alpinismo invernale). I maligni dicono che riesce a vivere così perché «non pensa» o forse perché riesce a non pensare. Comunque resta il fatto che a più di sessant’anni Riccardo Cassin continua a frequentare assiduamente le sue montagne e arrampica ancora da far invidia a certi ventenni (1). Se il suo contesto esistenziale gli ha permesso di trovare una condizione serena e gratificante, non si riesce a capire in virtù di quale principio egli dovrebbe mettersi in croce e cercare di distruggere ciò che ha costruito. È vero, l’alpinismo nasconde dei grossi inganni e copre degli squarci abissali della personalità individuale, ma fin quando non è l’individuo ad accorgersene è inutile continuare a soffiargli nelle orecchie il solito ritornello.

Dunque, intorno agli anni Trenta Riccardo Cassin è già una personalità che spicca nel gruppo lecchese. Molti hanno voluto sottolineare il fatto che questi ragazzi fossero strumentalizzati dal regime fascista per scopi di propaganda nazionale. Ma bisogna essere molto cauti nei giudizi: erano ragazzi cresciuti nell’ambiente del regime ed il regime li appoggiava apertamente in ogni caso, li valorizzava come uomini e come sportivi. Il regime attraverso le sue manifestazioni locali organizzava campeggi estivi e «raduni» sulle Dolomiti, sulle Alpi Centrali e nel Gruppo del Monte Bianco. In quelle occasioni questi ragazzi potevano finalmente impegnarsi sulla «grande montagna» e dar concretezza ai loro sogni cullati durante tutto l’anno sulle rocce delle Grigne. Chiedere a loro in quel periodo una presa di coscienza politica e una posizione antifascista, era per lo meno assurdo: arrampicare per essi era tutto, non esisteva nulla al di fuori dell’alpinismo. Un giorno Riccardo Cassin disse: «Ma noi allora andavamo ad arrampicare, non ci interessava la politica… » e la stessa cosa confessò anche Renato Chabod, parlando di quegli anni e della sua amicizia con Gervasutti e con Crétier: «A noi importava arrampicare, non ce ne fregava niente del fascismo e della politica!».

Ma quando più tardi, durante la guerra e subito dopo la guerra, essi avranno la chiara dimostrazione del tragico errore fascista, allora con lo stesso coraggio, con la stessa dedizione (e con la stessa semplicità), sapranno abbandonare (e non senza sacrificio) le amatissime pareti e sapranno combattere la loro lotta di liberazione fino in fondo, lasciandoci anche la pelle, come occorse a Vittorio Ratti combattendo gli ultimi giorni della lotta partigiana nelle strade di Lecco. A differenza di altri, che anche dopo la guerra continueranno a rimestare con le mani nel pasticcio politico, molti arrampicatori quasi stanchi e disgustati, come tanti Cincinnato, ritorneranno alle loro pareti con lo stesso amore di prima. Oggi (2) la critica di sinistra si scaglia contro l’alpinismo, accusandolo di distogliere gli occhi dalla realtà, accusandolo di fare il gioco del sistema.

Diciamo piuttosto che le ideologie dei sistemi (di qualunque parte e colore) hanno contaminato a fondo l’alpinismo e purtroppo stanno portandolo sugli stessi schemi alienati e competitivi. L’alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche che esistano sul pianeta e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall’alto, senza padroni e senza padreterni. Sarà merito degli alpinisti di oggi e di domani, combattere una lotta accanita contro ogni forma di strumentalizzazione, sia che venga dall’interessatissima industria, sia che venga dai confini politici di destra e di sinistra. I caratteri più belli e genuini dell’alpinismo sono la ricerca appassionata e forse disperata di libertà, l’insofferenza per ogni regola umana e per ogni legge che non sia dettata dalle forze supreme della Natura, la ricerca di spazio e di infinito, il desiderio di entrare in armonia con le forze cosmiche e terrestri. La vita di oggi cammina verso una pianificazione che porta all’esatto contrario. Ma su questo discorso, che forse dispiacerà a coloro che combattono la ricerca della propria e vera individualità perduta, ritorneremo al termine della nostra trattazione.

Le imprese di Cassin sulle Dolomiti
Ritornando a Riccardo Cassin, è necessario citare un episodio che ebbe un’importanza determinante ai fini dell’evolversi dell’alpinismo lecchese. Nel 1933 Emilio Comici, invitato da Mary Varale che sovente arrampicava con il gruppo dei lecchesi, si reca in Grigna ed apre una via di elevata difficoltà su un sassone alto una novantina di metri: il Corno del Nibbio. Comici in tale occasione illustra ai lecchesi le nuove tecniche della corda e del chiodo e permette loro di superare quell’«impasse» in cui si erano venuti a trovare. D’altronde i lecchesi si dimostrano subito allievi degni del maestro, tanto che nel giro di pochi giorni Cassin apre un’altra via di difficoltà analoga sul Corno del Nibbio, che diverrà poi la palestra preferita dei Ragni di Lecco, che vi hanno aperto un gran numero di vie di difficoltà veramente sostenute.

In questa sede parleremo unicamente dell’attività dolomitica di Riccardo Cassin, riservando al capitolo dedicato alle Alpi Occidentali l’analisi della formidabile attività svolta nelle Alpi Centrali e sul massiccio del Bianco.

Dunque, la venuta di Comici in Grigna aveva aperto nuovi orizzonti al forte gruppo lecchese, che applicò i nuovi sistemi appresi sulle pareti della Grigna. Ma ciò non era sufficiente: a poco a poco la «macchina per arrampicare» grignaiola portò la sua azione in Dolomiti, raccogliendo una serie di successi che testimoniavano ampiamente il notevole livello tecnico acquisito.

Durante un campeggio estivo effettuato alle Tre Cime di Lavaredo, Cassin coglie il suo primo grande successo, vincendo con Vitali e Pozzi la difficilissima parete sud est della Piccolissima di Lavaredo, una via dove la «libera» gioca ancora un ruolo di primo piano rispetto all’«artificiale», ma dove tuttavia alcuni passaggi si risolvono solo con l’impiego sistematico dei chiodi.

Poi nel 1935, con l’amico Dell’Oro, ripete la via Comici sul Civetta, rettificando il tracciato originale nella parte terminale. Ed è proprio il 1935 l’anno delle grandi realizzazioni. Dapprima cade il fantastico spigolo sud est della Torre Trieste, vinto con Vittorio Ratti, alto 700 metri, una delle scalate più pure e più affascinanti della catena alpina. Poi Cassin porta la sua azione ancora nel Gruppo delle Lavaredo, intenzionato a vincere la parete nord della Cima Ovest, allora il problema più ambito di tutte le Dolomiti.

La parete nord della Cima Ovest di Lavaredo è forse l’architettura rocciosa più «impossibile» di tutta la catena alpina. Se la Nord della Grande sconcerta per la sua uniforme compattezza e per la sua verticalità assoluta, dove l’occhio vanamente va alla ricerca di una fessura, di una rottura orizzontale o di una cengia, la Nord della Cima Ovest è disumana, stranamente irregolare, quasi mostruosa e poco elegante nella sua struttura rovesciata. La metà inferiore si presenta come una muraglia giallastra che sale strapiombando fin sotto una volta di tetti immensi, che sembrano scoraggiare ogni tentativo di salita. Sopra i tetti, come per incanto, tutto diviene assai più semplice, la parete ritrova la sua verticalità, le fessure, i camini; la roccia diviene grigia e permette di arrampicare con i propri mezzi naturali. A quei tempi pensare di attaccare la parete al centro e di superare direttamente i tetti era inconcepibile: solo più tardi, quando la tecnica artificiale si farà raffinatissima e quando il chiodo ad espansione abbatterà ogni angoscia ed ogni paura dell’ignoto, dando all’arrampicatore la certezza di salire ovunque, allora saranno vinti anche i tetti, raggiungendo una fase della storia dell’alpinismo dove il «lavoro» a poco a poco va a sovrapporsi all’arte di arrampicare.

Numerosi tentativi (si dice più di 40) erano già stati portati nel settore destro della parete (più abbordabile) ma tutti si erano infranti ai piedi di una muraglia giallastra e strapiombante, che dava poi accesso ad una esile fessura orizzontale, che attraversava in fantastica esposizione a sinistra, insinuandosi fra i giganteschi tetti e permettendo di raggiungere poi il colatoio centrale che iniziava proprio sopra i tetti. Anche Emilio Comici aveva tentato, anzi era stato proprio lui a raggiungere il punto più alto, alzandosi sulla parete gialla fino ad un minuscolo gradino. Ma Comici dava alle pareti un assalto metodico e prolungato, era come un amante un po’ timido e riservato, che necessitava di molti appuntamenti e di numerosi approcci per sedurre poi la sua amata. Cassin invece era tutto il contrario: arrivava, guardava dal basso, saliva e non tornava mai indietro, impegnandosi in lotte accanite e furibonde dove volontà e tenacia si esprimevano a livelli eruttivi. Quando Cassin arriva a Lavaredo, vi sono già due tedeschi, Joseph Meindl e Hans Hintermeier, che fanno la corte alla parete e che hanno piazzato una tenda poco lontano dall’attacco. Cassin comprende subito che i due sono concorrenti pericolosi e che sicuramente sono in grado di vincere la parete: allora decide di giocare d’astuzia. Con il fortissimo Ratti, compagno ideale e dotato di forza fisica leggendaria, Cassin approfitta della nebbia e della semioscurità per portarsi all’attacco della parete senza essere visto. Velocemente sale fino ai piedi della placca gialla, proprio quando la nebbia si dirada. I tedeschi allora sentono colpi di martello e senza difficoltà scorgono i due in parete. Partono all’inseguimento, ma ben presto forse comprendono l’inutilità del loro gesto e desistono: dovranno accontentarsi pochi giorni dopo della prima ripetizione.

Cassin ha attaccato il 28 agosto, rapidamente si è portato al balconcino raggiunto da Comici, poi per superare la placca gialla alta 30 metri ha lottato per sette ore, è volato tre volte per piantare un chiodo: Cassin non è di alta statura, è piccolo e tarchiato. Chi oggi ripete la via e si stupisce di quanto i chiodi siano infissi lontani in questo tratto, pensi alla prima salita, pensi ai ferracci rudimentali di allora, alle corde di canapa, ai moschettoni di ferro, alle asole di cordino che segavano i piedi. Lo stesso Cassin più volte ha detto che il ricordo della Cima Ovest sovente rivive in lui, come un’immagine irripetibile: la parete strapiombante, il vuoto assoluto, la ricerca estenuante di un buco per infiggervi un chiodo. Certo oggi, con tutti i chiodi infissi (e con tanti altri aggiunti e di troppo!), con le comode staffe a gradini, è un’altra cosa… Ma più volte abbiamo già detto che l’avventura ed il valore delle arrampicate artificiali sussistono unicamente nella prima ascensione.

Il giorno dopo Cassin si impegna nel «traversone», seguendo per 50 metri la fessurine orizzontale che si insinua sotto i tetti. È una marcia verso l’ignoto: strapiombi di sotto e di sopra. È un passaggio che preclude ogni possibilità di ritirata, difatti discendere in corda doppia lungo i tetti è impossibile. Ma è il genere di imprese che esaltano Cassin, il tipo di lotta che egli ama di più, la scalata dove il ritorno è impossibile, dove ogni debolezza deve essere duramente rimossa, in quanto l’uscita è solo verso l’alto. Durante le notti dei due bivacchi in parete la natura si scatena: pioggia, grandine, fulmini. Ma Cassin non si scompone, anzi i due sembrano quasi apprezzare il «concerto» naturale che ha come palcoscenico le pareti delle Lavaredo.

Dopo il traversone, le difficoltà vanno a mano a mano diminuendo, poi nel colatoio tutto diviene più facile fino alla vetta. Di tutte le imprese realizzate da Cassin, la Nord della Cima Ovest fu forse quella che più di ogni altra infranse un «tabù» ed aprì la strada a realizzazioni ancora più spettacolari. Non per nulla a lungo fu considerata come la più difficile scalata di roccia delle Alpi, ma forse questo giudizio era molto influenzato dal carattere impressionante dei passaggi superati.

Alcuni dicono che Cassin fu soprattutto un risolutore di rara potenza e non uno scopritore di itinerari dotato di intuito creativo. L’appunto può anche essere giustificato: in tutte le sue imprese, Cassin riuscì a realizzare itinerari dove già altri avevano tentato senza successo, ma forse non si impegnò mai in una salita che ancora non era stata oggetto di tentativi. Come vedremo in seguito, Gervasutti invece fu l’uomo della creazione, l’alpinista che in una parete vergine e remota, mai tentata da altri, sapeva scorgere un itinerario, sognarlo, viverlo e poi materializzarlo nella prima salita. Ma Gervasutti era un melanconico, e sovente lasciava i suoi sogni allo stato puro, lacerato dalle sue contraddizioni. Non che fosse uomo incapace di lottare: anzi, una forza titanica ed un furore mistico lo spronavano nella lotta, ma a differenza di Cassin, per il quale tutto era più semplice dal punto di vista psicologico, per Gervasutti trovare il «momento» di agire era laborioso e difficile e d’altronde egli solo in quei momenti «magici» sapeva esprimersi al meglio di se stesso.

Cassin è l’uomo della realtà e come tale va interpretato nella storia dell’alpinismo. È inutile disquisire se egli avesse o no l’intuito creativo, quando si sa che il suo merito più grande fu il coraggio di osare dove tutti a quell’epoca avevano dovuto desistere.

Gino Soldà, un uomo vissuto per la montagna
L’analisi di questo periodo dell’alpinismo dolomitico, dominato dall’iniziativa italiana, si chiude con la figura di Gino Soldà (1907-1989), che seppe portare ad un gradino ancora più elevato il livello tecnico raggiunto da Cassin. Soldà, nato a Valdagno nel 1907, è una delle figure più umane e simpatiche dell’alpinismo italiano, un uomo che è veramente vissuto per la montagna, ricavandone tra l’altro ben poche soddisfazioni dal punto di vista economico. Come Carlesso anche Soldà si è formato sulle guglie delle Piccole Dolomiti vicentine, dove ha aperto qualche via che ancora oggi i giovani definiscono come «allucinante». Soldà è un uomo delle Dolomiti, dove vi ha anche svolto l’attività come guida e come maestro di sci.

Malgrado l’età abbastanza avanzata e un incidente assai grave occorsogli in arrampicata, Soldà continua a frequentare i suoi monti (3).

Tra le numerosissime imprese compiute, ve ne sono due che bene caratterizzano l’alpinista Soldà: la prima è la parete nord del Sasso Lungo, alta 1000 metri, umida e compatta, dove l’arrampicata si svolge al fondo di camini impressionanti. È la dimostrazione di quanto egli fosse abile in arrampicata libera: la via anche oggi è assai temuta e conta ben poche ripetizioni. La seconda, realizzata poco tempo dopo (1936), è la via aperta sulla parete sud ovest della Marmolada (Punta Penia), con Umberto Conforto. Alta quasi 600 metri, fu il capolavoro di Soldà, ma fu anche la via più «artificiale» realizzata prima del secondo conflitto bellico, tanto che essa subito fu definita assai più difficile della via Cassin sulla Cima Ovest. Infatti su questa parete Soldà ricorse a tutti gli espedienti che la tecnica di allora gli metteva a disposizione: superò tetti, vinse strapiombi, attraversò a corda delle placche lisce insuperabili in arrampicata libera. Indiscutibilmente la sua via era la «più difficile», ma alla lunga, una volta che i chiodi rimasti in parete resero assai più facili i passaggi originali, altre vie, come la Vinatzer-Castiglioni sulla stessa parete, risultarono assai più dure in quanto i passaggi-chiave erano da vincere in arrampicata libera. Siamo comunque lontani dalla pioggia di chiodi con cui certe vie vennero vinte nel dopoguerra. I chiodi impiegati da Soldà, furono una settantina e ciò dimostra che allora si cercava ancora la via dove la logica dell’arrampicata libera suggeriva l’itinerario di salita: se si incontravano tratti veramente insuperabili, allora per forza si doveva chiodare.

Ma, sia ben chiaro, ancora non si andava alla ricerca della via da salire completamente in «artificiale».

Note
(1) Il 29 luglio 1987, a 78 anni d’età, Riccardo Cassin ha ripetuto la sua via sulla parete nord est del Pizzo Badile, cinquant’anni dopo la prima salita.

(2) Si tenga sempre presente che l’«oggi» di Motti è riferito al 1977.

(3) Gino Soldà è morto l’8 novembre 1989 nella sua casa di Recoaro, all’età di 82 anni.

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Riccardo Cassin, il Risolutore – 1 ultima modifica: 2024-03-15T05:06:00+01:00 da GognaBlog

26 pensieri su “Riccardo Cassin, il Risolutore – 1”

  1. 26
    ezio bonsignore says:

    @Expo:
    Eh, certo. Da giovane (che ahime’ è ben precedente al tuo “giovane”) io avevo pressoché tutto di Cassin: pantaloni al ginocchio, giacca a vento, piccozza, ramponi, martello, chiodi… non gli scarponi (credo non ne abbiano mai fatti) e lo zaino (avevo un Lafuma). Comunque la Camp ha rilevato il marchio Cassin, un po’ come la FIAT a suo tempo rilevo’ Lancia e Alfa Romeo, ed essenzialmente per gli stessi motivi.

  2. 25
    Expo says:

    @EzioDa giovane credevo che le aziende fossero destinate a perpetuarsi per sempre , in realtà non è così : cambiano i tempi , il talento imprenditoriale e la propensione al rischio delle persone , il mondo cambia ogni giorno sempre più velocemente , e l’impresa cammina sempre su un filo.Forse ho usato della componentistica Cassin , magari qualche casco , moschettoni o freni ; da consumatore ho sempre avuto la sensazione che Cassin , Kong e Camp fossero una stessa azienda , o perlomeno che condividessero parte dei prodotti , pur se marcati separatamente.

  3. 24
    ezio bonsignore says:

    Purtroppo il Cassin imprenditore ebbe una fine amara. Se non vado errato ad un certo punto per età lascio’ il timone ai figli, in modo da non costringerli ad aspettare che tirasse le cuoia, ma non fu una scelta felice.Forse per incapacità, forse per cause esterne, la ditta andò ben presto in malora. All’epoca, mi capitò di leggere degli amarissimi e durissimi commenti di Cassin in proposito, contro i suoi stessi figli.

  4. 23
    Ermanno Pizzoglio says:

    … l’ho incontrato alla Pietra di Bismantova, che aveva più di 80 anni, durante una gara di arrampicata, con il bottiglione di vino in una mano, che incitava i ragazzi…”forsa fioj che siete forti”. ….un Grande!
     

  5. 22
    marco vegetti says:

    Fabio, due punti e D maiuscola

  6. 21
    Claudio says:

     “È vero, l’alpinismo nasconde dei grossi inganni e copre degli squarci abissali della personalità individuale, ma fin quando non è l’individuo ad accorgersene è inutile continuare a soffiargli nelle orecchie il solito ritornello.” 
    Parole che mettono i brividi pensando a Motti alpinista suicida

  7. 20
    Matteo says:

    Bertoncelli, te lo avevo già detto, hai una certa età come me 🙁 dovresti ricordarti come si mettevano le emoticon negli sms dei primi cellulari: fai lo stesso 🙂

  8. 19
    Fabio Bertoncelli says:

    Expo, ti do dieci euro se mi spieghi come fai a inserire ‘sti ca**i di faccine.
    ???????????? 

  9. 18
    Expo says:

    🙂

  10. 17
    Fabio Bertoncelli says:

    @ 16 e 14
    No, no! Risuolatore!
     
    Dovete sapere che, come secondo lavoro, il nostro Riccardo per arrotondare lo stipendio faceva pure il ciabattino.
    Sullo Sperone Walker, in quei fatidici giorni, stava per perdere una suola sbrindellata sulle Placche Nere. Cosí, con pochi colpi ben assestati di martello, sistemò la faccenda.
    Da allora Cassin è il Risuolatore.
     
     

  11. 16
    marco vegetti says:

    15 RISOLUTORE

  12. 15
    Alberto Benassi says:

    Bisogna dire che bonatti diventò famoso e questi ragazzi sono rimasti purtroppo nell’ ombra . 

    direi che la risposta è semplice: Capucin, Pilier D’Angle, Brenva, Maudit, Dru, Walker, Whimper, pilastro Rosso Brouillard

  13. 14
    Pierlorenzo Bagnasco says:

    Si, ma non capisco perché Risuolatore…!?

  14. 13
    Alberto Benassi says:

    “CASSIN c’era una volta il sesto grado”  di Georges Livanos, anche il Greco gli ha dedicato un libro.  

  15. 12
    Claudine J. says:

    CASSIN un grand ! qui a eu la chance et le bonheur de profiter longtemps de la vie.

  16. 11
    AndreaD says:

    Bene ha fatto Gian Piero Motti a ricordare che Cassin è riuscito a emergere anche come imprenditore e non soltanto come alpinista. Fare ad alto livello entrambe le attività è per pochi.

  17. 10

    L’analisi e il raccontare di Motti, raggiungono in questi capitoli della sua Storia dell’alpinismo che ho in biblioteca da quando fu pubblicata, l’apice massimo dell’obiettività.
    I grandi protagonisti diventano una seconda volta tali, perché analizzati a fondo,  con pregi e difetti. In una parola: con umanità. 
    E poi si tratta di chi ha fatto una storia irripetibile che forse è finita con Messner. Il resto, pur di elevatissimo livello, è atletismo applicato alla verticalità. 

  18. 9
    Renato Brandolese says:

    Durante la mia attività di medico ospedaliero ebbi modo di entrare in contratto con Stella di asiago famoso olimpionico 15 km fondo. bene chiesi di Bonatti quanto fosse grande: mi rispose che a Courmayeur c erano dei giovani 20enni che davano la birra a bonatti . Bisogna dire che bonatti diventò famoso e questi ragazzi sono rimasti purtroppo nell’ ombra . Così va il mondo e nell’ alpinismo spesso vi è una celebrativa retorica ben condita

  19. 8
    Libera says:

    Bellissimo articolo l ‘ho letto e riletto. 

  20. 7
    Luciano Regattin says:

    Un breve appunto: Cassin non era lecchese, come appare dallo scritto, era friulano, dovette emigrare per lavoro perché era rimasto orfano del padre a 4 anni e all’epoca la miseria imperversava.
     

  21. 6
    Expo says:

    @ Fabio
    🙂 Non avevo visto sue foto da giovane , qui ricorda il ritratto che Lucio Dalla fa di Tazio Nuvolari.

  22. 5
    Fabio Bertoncelli says:

    “Minchia che grinta il Cassin! […] In questa foto esprime determinazione al 101%.”
     
    Insomma, Cassin la “Belva umana”!
    Io, se l’avessi incontrato su un sentiero, l’avrei salutato cosí, scappellandomi in segno di deferenza: “I miei omaggi, signor Belva”.
     
    Sto scherzando.

  23. 4
    Expo says:

    Minchia che grinta il Cassin !L’avrò visto in tutto 3 volte da vecchio  , se di “vecchio” si può parlare per uno come lui ; l’ultima volta era poco sopra i Resinelli con in mano una fascina , credo sistemasse un sentiero.In questa foto esprime determinazione al 101%.

  24. 3
    Alberto Benassi says:

    Forse all’epoca vi erano anche arrampicatori stilisticamente più dotati di Cassin (vedi il Boga)

    Questi commenti mi fanno un pò sorridere: “si ma c’era gente più forte, più dotata” . Lo si dice anche di Bonatti,  di Livanos, ect. Poi però alla fine quello che conta è quello che è stato fatto e chi l’ha fatto.
     
     
     
     
     
     
     
     

  25. 2
    Cristina says:

    Che belle pagine che scrivete vorrei sapere come leggere o abbonarmi a voi
     
     
     

  26. 1
    Giovanni battista Raffo says:

     Da ueste utili informazioni  si deduce chiaramente che le capacità , le doti ,in questo caso apinistiche, di ciascuno non dipendono tanto dalla  durata dell’e sistenza umana, qunto da quello che si è potuto realizzare durante il suo breve percorso.Le prestazioni  effetuate  a tarda età sono solo  il frutto di quello   che è insito nel nostro patrimonio genetico..

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