Dal 13 al 15 settembre 2019 si è tenuto l’annuale Festival della Filosofia nelle sedi di Modena, Carpi e Sassuolo. E si è interrogato sul legame tra fede e laicità.
Le carte dell’identità
(i populisti e i simboli cristiani: storia di un fraintendimento)
di Olivier Roy
(pubblicato su Corriere della Sera, 10 settembre 2019)
L’Europa non si comprende senza il cristianesimo nel suo rapporto con la cultura, la politica, il diritto e le istituzioni. Certo, la frattura tra cattolicesimo e ortodossia, e in seguito tra cattolicesimo e protestantesimo, ha creato nuove frontiere e nuovi rapporti tra religione e cultura in Europa.
L’illuminismo ha avviato il fenomeno della secolarizzazione in profondità. Ma non si trattava davvero di un rifiuto della religione: Cartesio e Kant si proclamavano cristiani e credenti. Il tratto proprio dell’illuminismo è l’affermazione dell’autonomia della ragione e del soggetto: la fede diviene facoltativa e la salvezza è prima di tutto terrena (giustizia, libertà, emancipazione). Tuttavia, fino agli anni Sessanta, i valori morali secolari sono valori cristiani secolarizzati. Ciò è vero in particolare per l’antropologia della famiglia: il divorzio resta ovunque difficile, l’omosessualità viene criminalizzata, le mogli sono sottomesse ai mariti e la donna viene definita prima di tutto come madre.

Tuttavia, dappertutto, la pratica religiosa cala, ma a ritmi molto diversi: si comincia a farlo in Francia nel Settecento, mentre in Irlanda solo negli anni Ottanta. Ma, a partire dagli anni Sessanta, il fenomeno è generale: la frequenza alla messa e le vocazioni al sacerdozio diminuiscono ovunque, compresi i Paesi a forte tradizione cattolica.
Soprattutto gli anni Sessanta sviluppano un nuovo paradigma antropologico della sessualità e della famiglia: il desiderio non è più associato all’idea del peccato, l’individuo desiderante si situa al cuore della nuova antropologia, la procreazione e la sessualità vengono scisse. Quando Paolo VI firma l’enciclica Humane Vitae (luglio 1968), che appare alla grande maggioranza dei cattolici come ingiustamente dogmatica e normativa, egli sottolinea con chiarezza la nuova separazione: i valori dominanti della società europea non sono più valori cristiani secolarizzati.
La cultura europea non è più semplicemente secolare o profana, è divenuta pagana, tema che sarà ripreso con insistenza da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i quali parlano entrambi di una «cultura di morte». La Chiesa cattolica si batte ormai per difendere «princìpi non negoziabili»: contro l’aborto, il matrimonio omosessuale, la procreazione medicalmente assistita, il diritto a morire.
Questo nuovo divario ha per causa e per conseguenza la frattura culturale tra il cristianesimo come religione e la cultura europea contemporanea. È proprio nel momento in cui l’Europa cessa di essere cristiana che numerosi attori politici si lanciano nella difesa dell’«identità cristiana europea», contro i migranti in generale e contro l’Islam in particolare. Tuttavia il problema è che questo nuovo militantismo, lungi dal contribuire a restaurare il cristianesimo, contribuisce di fatto a secolarizzare ancor di più ciò che nel cristianesimo restava di veramente religioso.

La posta in gioco in questo dibattito è ciò che viene definita «identità cristiana dell’Europa». I populisti utilizzano dei marcatori culturali cristiani come il crocifisso e il presepe per mostrare ciò che, per loro, non è Europa, ossia l’Islam (e spesso, ma senza dirlo troppo, l’ebraismo). Per i cattolici conservatori che vivono male la volontà di ricacciare la fede nel privato, la riabilitazione dei simboli culturali cristiani nello spazio pubblico sembra un primo passo verso la riabilitazione della religione cristiana. Dal loro punto di vista, il voto populista appare dunque come il male minore, a tal punto una parte di questo elettorato si turba di fronte a ciò che alcuni chiamano «islamizzazione» della società.
Questa alleanza tra cattolicesimo e populismo comporta nondimeno degli effetti perversi, anche dal punto di vista dei cattolici. La difesa dell’identità cristiana portata avanti dai populisti ha una conseguenza paradossale: essa accentua la secolarizzazione delle nostre società, sia perché la limitazione delle pratiche religiose musulmane si applica a tutte le religioni (è il caso del divieto di simboli religiosi nelle istituzioni scolastiche in Francia), sia perché la valorizzazione dei simboli cristiani (come il crocifisso negli edifici pubblici italiani o bavaresi) li trasforma in particolarismo locale, non in segno di appartenenza a una comunità universale di fede.
In Francia come in tutta l’Europa occidentale, i populisti sono in fondo più laici che cristiani, mentre non sono un vettore per un ritorno alle norme cristiane, come si augurerebbero i cattolici conservatori. Lo si è visto con la scelta di François-Xavier Bellamy, un cattolico praticante che non nasconde la sua fede, a capolista dei Repubblicani in Francia in occasione delle elezioni europee: è contrario all’aborto, ma evita l’argomento nel suo programma politico. Viceversa Matteo Salvini, che esibisce in continuazione il rosario e invoca la Vergine Maria nei suoi raduni politici, respinge il messaggio della Chiesa sulla carità e insulta i vescovi ma, ospite d’onore al Congresso mondiale della famiglia che si è tenuto a Verona a fine marzo 2019, ha immediatamente scartato ogni rimessa in discussione dell’aborto. L’alleanza tra cattolici conservatori e populisti secolarizzati giova dunque unicamente ai secondi.
Al contempo tuttavia i nuovi valori edonisti dell’Europa (che sono del resto quelli che essa contrappone ai musulmani: diritti dei gay, femminismo, libertà sessuale, diritto alla blasfemia) sono lungi dal costituire le basi necessarie per dare un’«anima» all’Europa. Si inscrivono in una logica di diritti individuali più che nella ricerca di una cultura collettiva. La dimensione puramente burocratica e normativa del governo dell’Europa non apporta neanch’essa una risposta culturale, e tanto meno spirituale, alla grande questione dell’identità europea. La Chiesa stessa oscilla tra un approccio puramente normativo (divieto dell’aborto, del matrimonio omosessuale, della procreazione assistita) e un appello alla carità e all’amore che rimane molto astratto.

Lungi dall’essere qualcosa da difendere, l’identità europea è in primo luogo da costruire.
La vera questione è quella della definizione di una cultura europea che non sia semplicemente nostalgia di un passato che non si incontra altro che nei musei e tra le rovine.
Olivier Roy (1949), islamista e politologo, è l’autore di questo testo (tradotto da Daniele Francesconi), un estratto dalla lectio dal titolo Identità europea. Quanto sono cristiani i valori europei? che il professore francese ha tenuto a Sassuolo, in Piazza Garibaldi, venerdì 13 settembre alle 16.30.
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“Di sicuro c’è, nonostante le innumerevoli e giuste critiche, che in Europa non ci fa guerra in maniera totale dal 1945 e questo non mi pare poco.”
bè, certo, sono la nostra miglior merce da esportazione…(e ovviamente non considerando Ungheria, Cecoslovacchia,Bosnia e Ucraina come Europa)
Non è che una cultura si formi nel giro di una o due generazioni, nemmeno se viene imposta dall’alto.
Esistevano già due culture ben definite nell’Europa precristiana, la cultura ellenistica, che non poco influenzò i Romani, e la cultura celtica.
I retaggi di queste due culture sono ancora estremamente evidenti, il cristianesimo non le ha di certo azzerate.
Di sicuro c’è, nonostante le innumerevoli e giuste critiche, che in Europa non ci fa guerra in maniera totale dal 1945 e questo non mi pare poco.
Benché le tue parole, Matteo, siano schiette e ciniche, sono pienamente d’accordo. La cultura europea attualmente è un dictat molto freddo e orientato a beni, consumi e profitti, anche culturali. E se a ciò aggiungiamo un mondo che procede a rotta di collo, con cambiamenti continui, senza che ci sia mai tempo di metabolizzare culturalmente ed eticamente queste spinte, il disagio esistenziale (oltre che sociale) aumenta la percezione di una risposta individuale, invece che collettiva. Con tutto ciò che ne consegue.
“Lungi dall’essere qualcosa da difendere, l’identità europea è in primo luogo da costruire. La vera questione è quella della definizione di una cultura europea”
Non credo di essere d’accordo con l’articolista: secondo me la cultura europea è chiaramente definita e fortissima.
Si basa sugli imperativi produci, consuma, crepa che in Europa si sono affermati e radicalizzati e stanno colonizzando tutto il mondo. Distruggendolo.
Il problema semmai sarebbe fermare o almeno rifondare la cultura europea
E tutto ciò fin dalla nascita. Votiamo pure, ancora. I capitani della democrazia ce lo chiedono.
Penso che nella società attuale le persone siano “pilotate” a consumare ciò che viene loro presentato e perdano gradualmente qualsiasi sicurezza e convinzione personale.
Allora si raccolgono in gruppi chiusi dove si possono identificare facilmente, all’esterno non si confrontano, non discutono, di solito si oppongono chiudendosi ed ergendo barriere.
Gli individui solitari di solito vengono ignorati e più spesso osteggiati.
Tutti parlano di democrazia e criticano le altre forme sociali che sono cresciute nei secoli, ma non si rendono conto che vengono sempre più isolati e costretti a raggrupparsi, pensando così di difendersi, ma riducendo sempre di più la propria possibilità di autonomia.
Le forme di aggregazione politica e religiosa sono ormai solo slogan per acquisire potere personale o di gruppo ristretto, hanno poche differenza fra di loro, diversità solo dovute a “storie immaginarie”, e i leader più o meno riconosciuti si spostano facilmente dall’una all’altra.
Mi sembra che si stia tornando a società di tipo tribale, credo si stia regredendo come intelligenza e cultura sociale.
Che sia l’unico modo per gestire l’uomo diventato massa ondivaga ?
La certezza è che tutti vogliono consumare di tutto e sempre di più e bisogna far spendere le loro risorse senza lasciarli pensare.
Le urla che emergono dal sociale sono raccolte dagli intellettuali.
Questi le traducono in principi, vizi e virtù.
Anche tra loro e il popolo c’è forse la medesima distanza che osserviamo tra classe politica e elettori.
Ogni tanto qualcuno – Salvini per esempio – scende dagli scranni, si toglie la divisa elitaria e cammina in mezzo agli umori della vulgata.
Usa il suo linguaggio, alimenta le sue emozioni, sventola simboli a lei cari.
E viene osannato.
Se è vero che la comunicazione si incarna nelle emozioni, ovvero che tutto il resto non va oltre la superficiale e volatile dimensione intellettuale; se è vero che solo le emozioni – come da sua etimo – muovono, tutta la narrazione intellettuale, tutta la sfera razionale resta solo un pallido tentativo di arginare con piccoli muri ideologici la grande orda inferocita.
La domanda: per merito di chi siamo a questo punto? a molti intellettuali non interessa e anche a molti politici.
I populisti sanno la risposta, ma non vengono consultati.
Solo colpevolizzati, strumentalizzati, aizzati.