L’esercito colorato degli ometti
di Stefano Ardito
(già pubblicato su In Movimento, settembre 2017
Lettura: spessore-weight*, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
Una volta c’erano solo gli ometti di pietra. Solidi e a basso impatto sull’ambiente, anche se questo dettaglio non doveva importare molto agli antichi. Faticosi da costruire, certo, ma per i montanari del passato la fatica era il pane quotidiano.
Non che ne servissero molti, di ometti. Gli allevatori diretti ai pascoli d’altura percorrevano ogni anno la stessa via. Lo stesso valeva per i contadini che salivano a raccogliere la segale ad alta quota, per i pastori transumanti, per gli eremiti.
Altre categorie di montanari gli ometti non li volevano proprio, perché i loro percorsi dovevano restare segreti. E’ il caso dei raccoglitori di cristalli del Monte Bianco, dalle cui fila sarebbero usciti le prime guide del massiccio, in competizione tra loro per raccogliere i cristalli di quarzo da vendere a caro prezzo ai turisti.
Lapponia, vista del Lyngfjorden. Foto di Franco Michieli. Apertura dell’articolo su In Movimento.
Valeva lo stesso per i briganti della Calabria e d’Abruzzo. E per i contrabbandieri delle valli del Sempione, capaci di percorrere con trenta chili sulle spalle dei sentieri che includono passaggi di arrampicata impegnativi. Dei percorsi troppo evidenti, per loro, avrebbero potuto significare una fucilata o l’arresto da parte delle guardie di confine.
A essere indicati da ometti, per secoli, sono stati quasi solo i sentieri che conducevano a valichi come il Piccolo e il Gran San Bernardo, il Monginevro o il Maloja, che nonostante la quota venivano traversati anche d’inverno. Per essere visti anche con due metri di neve, gli ometti dovevano essere enormi, e piazzati in maniera strategica.
A metà dell’Ottocento l’alpinismo diventa un’attività organizzata, e dalle Alpi si estende ai Pirenei, all’Appennino e alle altre catene. Di strumenti per segnalare i sentieri, però, non sembra esserci ancora bisogno.
I clienti arrivati dalle città compiono traversate e ascensioni con le guide valligiane, e queste la strada giusta la sanno. Le mulattiere che collegano tra loro le valli sono molto più frequentate di oggi, e l’orientamento diventa raramente un problema.
Sembra strano, ma tra gli «attrezzi» inventati dall’uomo per percorrere più facilmente e in sicurezza la montagna, i segnavia e i cartelli che oggi vediamo dappertutto sono tra gli ultimi ad affacciarsi sulla scena.
Prima di loro diventano di uso comune i rifugi, le piccozze, le guide cartacee, le tessere dei club alpini, i primi chiodi da roccia. E perfino le corde fisse, che vengono sistemate sul Dente del Gigante e il Cervino negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Non sono riuscito a scoprire in quale valle delle Alpi e in che anno (se qualcuno lo sa me lo dica!), un gestore di rifugio o un albergatore abbia impugnato per la prima volta un pennello per dipingere un segnavia o una freccia su un masso.
Negli anni tra le due guerre mondiali, qualche segnavia inizia a comparire sulle Alpi, e a essere registrato sulle guide. Di solito in quegli anni si usa la vernice al minio, dal colore rosso-ruggine, visibile nella nebbia e resistente alle intemperie.
Negli anni Cinquanta i segnavia esistono ormai quasi ovunque, ma hanno colori diversi. Al bianco-rosso diffuso in buona parte delle Alpi si affiancano il giallo-rosso del Gran Sasso e degli altri massicci d’Abruzzo, e i bizzarri segnavia multi-colori (due croci gialle, tre cerchi rossi…) dipinti con fatica e dedizione, in Liguria, dai soci della Federazione Italiana Escursionismo.
Segnaletica a Kalymnos (Grecia). Foto: Francesca Colesanti.
I segnavia diversi dalla norma, com’è logico, aumentano se ci si allontana dalle vette e dalle valli più note. I sentieri del Parco d’Abruzzo vengono segnati per decenni in rosso-arancio, quelli per le vette delle Apuane in blu. Le maioliche dei sentieri di Capri sono un capolavoro di eleganza.
I primi parchi regionali del Lazio, negli anni Ottanta, snobbano le regole CAI per utilizzare dei paletti colorati, forse ispirati alle aree protette degli USA. Pioggia e neve, assieme alla mancanza di manutenzione, li fanno sparire in pochi anni.
La Valle d’Aosta, per sottolineare la sua autonomia, sostituisce le vecchie pennellate al minio con dei segnavia gialli, ben visibili nelle giornate dì nebbia. E accetta il bianco-rosso solo dove questo indica il Giro del Monte Bianco, il Tour des Combins e altri trekking transfrontalieri. Oggi, chi percorre i sentieri delle montagne italiane è abituato a seguire una segnaletica abbondante, quasi sempre ben realizzata, spesso verificata ogni anno. Gli alpinisti seguono i segnavia fino ai rifugi e spesso agli attacchi, e trovano ometti e segni di vario colore in discesa.
Agli incroci, se non ci sono stati vandalismi, si incontrano cartelli ricchi di indicazioni. Le sezioni e gli organismi regionali del CAI pubblicano online o su carta manuali su come e dove segnare.
Oggi sappiamo che il segnavia perfetto misura otto centimetri per quindici e viene impresso su roccia scartavetrata o spazzolata. E che i numeri a tre cifre dei percorsi vengono assegnati su scala nazionale o regionale, secondo criteri precisi. Guide, carte e siti ci danno tutte le informazioni necessarie.
Oggi, però, chi camminando non incontra un segnavia ogni almeno due minuti inizia subito ad agitarsi. Forse ha sbagliato via, forse c’è stato un vandalismo, magari la colpa è di una slavina o di una frana. Occorre segnalare la mancanza, mobilitarsi perché venga colmata, bombardare di e-mail e tweet le associazioni o le autorità competenti, affinché nuovi pennelli risolvano in fretta il problema.
Forse, almeno in qualche zona, è giusta una soluzione diversa. Trent’anni fa, durante le manifestazioni contro lo scempio della Laga (i monti di Amatrice,
sul confine tra Lazio e Abruzzo) ho proposto in vari incontri che queste montagne selvagge fossero lasciate senza segnavia, o che fosse segnato il minimo indispensabile dei sentieri.
Sono stato applaudito nei convegni, ma poi nessuno ha rispettato le mie idee. Il CAI, sul versante abruzzese, ha iniziato a segnare a tappeto, salvo poi non riuscire a effettuare la manutenzione, creando seri problemi di orientamento a chi cammina.
Altrove, decenni di segnaletica perfetta, ormai presente quasi ovunque, hanno creato un’esagerata dipendenza da quei simpatici e utilissimi segni di vernice bianca e rossa. Credo che i sentieri segnati siano importanti, ma non debbano arrivare ovunque.
Penso che sia giusto lasciare, in qualche massiccio e in qualche valle d’Italia, dei percorsi dove i segni di vernice non ci sono, e dove chi cammina debba ancora (com’era normale venti o trent’anni fa!) seguire la logica del terreno e cercare le tracce migliori, o tutt’al più gli ometti di pietra. Nei tratti più complicati, non fa male dedicare del tempo a cercare qual è il sentiero giusto per proseguire.
La segnaletica serve, esserne schiavi è sbagliato. Più di trent’anni fa, quando ho percorso per la prima volta i sentieri del Supramonte, in Sardegna, ho avuto una guida eccezionale come Vincenzo Tupponi detto Murena, speleologo e camminatore di Oliena.
Assieme a lui, con altri escursionisti, mi è sembrato di vagare per altopiani carsici e boschi di leccio privi della minima traccia di sentiero.
Ogni tanto, invece, Murena mi indicava dei sassi incastrati tra i rami, o delle incisioni fatte con un coltello sul tronco. “E’ tutto perfettamente segnato – rideva – fin dal tempo in cui costruivano i nuraghe!”.
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Dopo tanto leggerne e discuterne mi sono convinto che non se ne uscirà mai: l’istinto di “segnare il territorio” ci appartiene in quanto animali, sia pur evoluti (?). E’ più forte di noi…
Da un lato sembrerebbe auspicabile che degli “enti” dotati di autorità -legale e/o morale- (il CAI? le Province? le Comunità Montane?) stabilissero degli standard ragionati in modo da moderare e regolamentare eventuali eccessi di verniciature o “omettature”; d’altro lato vorrei tanto che almeno la montagna potesse restare un pezzetto di mondo immune da standardizzazioni, certificazioni ISO e regolamenti asfissianti.
L’ometto (di piccole dimensioni e non verniciato) in sé è il male minore tra tutti i possibili segnali, bolli, strisce, cartelli, numeri. L’ometto è ecologico, facilmente smontabile, costo zero, invasività visiva poca o nulla. E’ all’estremo opposto delle verniciature selvagge (che da eliminare sono ben dure come sa qualche “bocciardatore” che legge e scrive su queste pagine… ciao Luca!) . A me è capitato spesso di costruire piccolissimi ometti, giusto tre sassi uno sopra l’altro, in zone non segnalate e poco frequentate, quando temevo di non azzeccare poi in discesa il passaggio giusto, ma son certo di non avere deturpato nulla e che nel giro di poco quei tre sassi in bilico siano rotolati al loro posto.
Assolverei quindi gli ometti (ripeto: purché radi, piccoli, e senza aggiunte di vernice).
Si sta esagerando ormai anche con gli ometti. Non si riesce proprio a lasciare la montagna, dopo il nostro passaggio, come l’abbiamo trovata.
Moriremo di narcisismo?
La costruzione di “ometti” ha assunto in alcuni casi un aspetto ludico, decorativo, artistico. Mi sono imbattuto in un sito con immagini mirabolanti di ometti di grande complessità costruttiva. Mi pare si trattasse di una gara, addirittura. La forra quasi verticale in cui si sviluppa la “Ferrata di Camino” presso S. Michele all’Adige/Mezzocorona è costellata di un numero incredibile di ometti, di sicuro non per segnare la via, forzatamente obbligata. Altrettanto è stato fatto su un piccolo rilievo sulla cresta di confine tra Italia e Slovenia, a est dell’abitato di Zolla (TS), presso la Cima dell’Orso. Cima carsica molto sgretolata, per cui il materiale per la costruzione è decisamente abbondante. Il pendio per raggiungere la cima è completamente tappezzato da ometti di ogni forma e dimensione.