Makalu 1993
(diario della spedizione alla parete nord-ovest)
di Salvatore Panzeri
16 marzo 1993
Partenza da Linate con volo Lufthansa alle ore 14.40, Francoforte e Kathmandu. C’è molta gente sull’aereo e senza troppo rumore Oreste, Slauco ed io ci buttiamo in questa nuova grande avventura.
17 marzo 1993
Dopo un breve scalo a Karachi arriviamo finalmente a Kathmandu. Il tempo è stupendo, il clima mite, sullo sfondo le bianche montagne dell’Himalaya ci invitano a correre da loro. Ci sono 4 ore e 45 minuti di differenza con l’orario solare italiano. Ben accolti dagli sherpa della nuova agenzia In Wilderness Agency, ci rechiamo nel lussuoso albergo Summit per riposare e lavarci un po’.
20 marzo 1993
Dopo i soliti preparativi un poco stressanti riusciamo finalmente a partire per Hile. Alle 16 saliamo sul pullman stracarico di tutto il nostro materiale, accompagnati da 8 sherpa, da 2 autisti e da 3 ragazzi factotum. Una bella compagnia rallegrata dall’assordante musica nepalese che fuoriesce dagli stonati altoparlanti del pullman.
21 marzo 1993
Venticinque ore seduti sul pullman ti fanno diventare pazzo, non riesci più a trovare una posizione comoda. Hile sembra vicina, ma ancora una lunga tremenda salita ce ne divide. Finalmente nel tardo pomeriggio possiamo dire fine al nostro viaggio lungo le tortuose strade nepalesi. Con piacere vedo facce conosciute tra la gente del villaggio. Birra e tongba, con il dal bhat, ci accompagnano fino a notte fonda.
22 marzo 1993
Ha inizio il nostro trekking verso il Makalu. Come in un sogno fantastico, ripercorro nuovamente queste stupende vallate riscoprendo qua e là questi angoli di mondo già visti. Con noi ci sono 95 portatori e 8 sherpa tra i quali i vecchi amici Ang Pasang, Phurba, Dawa, Tek. Il tempo non è dei migliori, infatti una fastidiosa cappa copre l’azzurro di questo fantastico cielo. Circondato da gente, bambini, portatori, donne incuriosite che seguono attentamente lo scorrere della penna sul foglio, non posso fare altro che aspettare l’arrivo degli sherpa per sapere dove andremo questa notte.
23 marzo 1993
Tumlingtar. Per l’ennesima volta il sogno si avvera… tante facce già viste… tante facce nuove… una cosa sola sembra non sia mai cambiata, l’aereo che non arriva mai e tutta la gente che lo aspetta chissà da quanto. Bruciando una tappa abbiamo preferito arrivare direttamente qui a Tumlingtar. Non mi ricordavo un percorso così lungo e dopo qualche ora anche lo zaino si fa sentire. Dopo 7 ore finalmente compare la torre dell’aeroporto, sembra un miraggio. Siamo distrutti nonostante poco prima ci siamo concessi un riposo con il bagno nel fiume. Una delle poche volte, se non l’unica, che potremo lavarci completamente. Ora tutto il resto della spedizione sta partendo dall’Italia, non li invidio pensando allo sbattimento del viaggio.
25 marzo 1993
Manebhanjyang. È un piccolo villaggio arroccato sulla cresta che sale dolcemente da Tumlingtar verso le prime montagne dell’Himalaya. Fa parte del distretto di Kandbari, un grosso villaggio pieno di negozi, banche, scuole, polizia dove si convergono tutte le attività dell’Arun Valley. Dopo esserci goduti un’ottima birra (probabilmente l’ultima) ed esserci permesso il lusso di tagliare la barba dal barbiere, ci incamminiamo sul grande sentiero che, seguendo il filo di cresta, ci conduce a Manebhanjyang. Il tempo non è per niente bello, piove e soffia vento, il cielo è saturo di nubi minacciose, speriamo che cambi altrimenti è un vero stress. Questo pomeriggio dovrebbero arrivare tutti gli altri a Tumlingtar e quindi raggiungerci domani mattina. Per lo meno avremo più compagnia. Passare tante ore a non far niente e a scambiare solo due parole con Slauco è abbastanza noioso. Questa volta ci siamo fermati in un Lodge, così che non dobbiamo piantare le tende sotto l’acqua. Proprio qui dietro c’è il prato della scuola dove ci eravamo fermati la scorsa volta (1991), ricordo la partita a pallone con i ragazzini del villaggio, molto divertente. Spero che domani ci sia una bella giornata, così che si possa veder da Chichira il Makalu per la prima volta, non per altro ma per sentirsi un po’ più presi dalla storia. Comunque, avrò tanto di quel tempo per vederlo che mi stancherò.
28 marzo 1993
Sedua school. Me la ricordavo molto bene per le grosse vasche di un gelido torrente dove ci facciamo l’ultimo bagno. Sembra tutto diverso ora dopo essermi lavato ed aver lavato gli indumenti puzzolenti, ora si sta veramente meglio. Oggi Wolf ha iniziato a girare qualche ripresa sul ponte dell’Arun River e lungo il ripido sentiero che, tra capanne di paglia e banani, sale a Sedua School. Qui la vita sembra non essere mai cambiata nonostante il continuo andirivieni di portatori, pastori, bambini e donne. I bambini sono ancora lì, in cerchio davanti alla scuola, seduti sul prato con gli occhi protesi e attenti verso il maestro e verso l’immensa natura che li circonda, la loro vera maestra di vita.
4 aprile 1993
5000 metri. L’abbagliante riflesso del sole sui ghiacciai himalayani sembra stordirti ogni volta che entri o esci dalla tenda. Unico rumore, oltre allo sbattere dei teli delle tende, il gracchiare dei neri corvi sempre attenti alla ricerca di cibo. Loro sanno dove trovarlo, le spedizioni significano nutrimento. Giochi d’ali, picchiate, stalli, cabrate sfruttando la dinamica del vento su questi salti di morena a ridosso delle alte montagne, a ridosso del Re dei venti, il colosso, l’infinito, la piramide di granito, il Makalu. La testa, ancora un po’ frastornata dalla quota, è sempre rivolta verso l’alto, alla ricerca di chissà cosa tra quegli spigoli, quei pilastri, quelle pareti, quei seracchi che continuano a cambiare aspetto, così come cambia il colore di tutto ciò che ci circonda con il girovagare del sole. Un arcobaleno di colori che appare e scompare con le nuvole, con il sole, con il vento che sbattendo ferocemente contro le montagne lancia urla, gemiti, suoni a volte non naturali.
Dei suoni, delle voci sembrano nascere da dietro la morena, sono i portatori che tornano dopo una lunga camminata al campo base, il loro duro lavoro per oggi è finito; alcuni resteranno e altri scenderanno a riposarsi 3000 metri più in basso in mezzo al verde dei boschi, all’azzurro dei torrenti, al giallo del grano. Anche loro sono affascinati da questo ambiente, anche loro guardano stupefatti gli elementi naturali che li circondano. Loro vivono in queste zone, sono nati in queste zone, devono lavorare in queste zone, soffrono in queste zone, ma il loro perenne sorriso sulle labbra, la loro perenne allegria che sprizza dagli occhi scuri mi fa pensare che amano queste zone, che gioiscono nel vedere questi colossi naturali anche con una gerla di 30 chili sulle spalle. Sono rimasto impressionato proprio ieri da un portatore che, mentre mostrava al dottore un piede semi congelato, riusciva a far uscire dagli occhi una forza gioiosa di volontà di vivere, di convivere con la natura, cosa che noi oramai nella nostra civiltà abbiamo perso. Questo è Hillary Base camp, la nostra ultima tappa prima del campo base, questo posto dove la gioia e la felicità dei portatori è un tutt’uno con il gracchiare dei corvi, con il soffio del vento, con lo sbattere delle tende, con il rincorrersi delle nuvole, con il girovagare del sole, con il brillare della neve, con il veleggiare degli uccelli, con il dominare del Makalu.
Oltre allo Shipton La abbiamo trovato solo brutto tempo ed un mare di neve da battere. Una dura prova per noi, ma soprattutto per i portatori e gli sherpa. Grosso disagio anche per Ang Pasang, il cuoco, che nonostante tutto è sempre riuscito a fare da mangiare decentemente. Una sosta forzata di due giorni l’abbiamo fatta in fondo alla valle di Kharka, sotto una neve mai vista in queste zone in questa stagione. Una seconda sosta, in attesa dei portatori rimasti indietro, la stiamo facendo anche qui all’Hillary Base Camp, per fortuna sotto un cielo stupendo. Sosta che fa molto bene anche a noi per l’acclimatamento. Qui è nevicato molto meno che nella valle e ci rallegra il fatto che anche il Makalu è bello pulito. Domani finalmente il nostro campo base e la nostra parete ci aspettano. Il morale è molto alto, anche se gli effetti dell’alta quota colpiscono qualcuno.
7 aprile 1993
Un po’ di relax pomeridiano non fa mai male, soprattutto in questi primi giorni in quota. Riepilogo le date perché ho perso il senso del calendario.
5 aprile. Arriviamo al campo base a 5300 metri con un sole stupendo. La testa batte un po’, ma è più che normale. Riccardo ne risente molto, forse per la sua prima esperienza in quota, ed averlo aiutato a portare lo zaino gli ultimi metri prima del campo base mi fa sentire bene. Il Makalu mi appare sempre più imponente, ma i ricordi nella mia mente incominciano a riemergere come se lo avessi lasciato ieri.
6 aprile. La testa a momenti picchia forte, non ricordavo sensazioni così, comunque non mi preoccupo più di tanto. Una bella sistemata alle tende mi distrae e non mi fa pensare ai dolori. Ricomincia il tran tran del campo base; sveglia con il tè, asciugare il sacco a pelo ed il materassino al sole, ricca colazione, quattro chiacchere, ricerca di aria da respirare, pranzo e così via. Oggi svuotiamo i bidoni e selezioniamo tutto il materiale ed il cibo; un lavoro importante al quale partecipano tutti i componenti della spedizione. La serata è molto fredda e mi basta una tazza di brodo per cena, poi a nanna nel caldo saccopiuma con coperta trapuntata nepalese.
Ed infine eccoci ai giorni nostri. Giornata molto ventosa piena di avvenimenti. Di prima mattina, sferzati da un vento assistiamo alla cerimonia propiziatoria degli sherpa. Un portatore Lama conduce magistralmente la cerimonia facendoci sentire realmente in un altro mondo. Un suono strano, misterioso, orientale esce dalla sua bocca mentre il palo delle preghiere si innalza al cielo e un velo di fumo e profumo di incenso rende ancor più mistica l’aria. Sullo sfondo l’immensa parete ovest con i suoi mille colori e riflessi, teatro ideale per le riprese di Wolf, che lottando contro il freddo maneggia stupendamente l’ingombrante telecamera. La consegna del filo di cotone rosso benedetto da mettere al collo e la consumazione delle cibarie messe in offerta conclude la lunga cerimonia. Un abbondante colazione, poi via, è venuto il momento di muoversi per quelli che se la sentono. Così prepariamo un po’ di materiale da portare sul ghiacciaio. Dopo poco Floriano, Dario, Fabio, Fabrizio, Slauco ed io stiamo già inciampando tra i sassi della morena alla ricerca dei vecchi ometti lasciati la scorsa volta. A parte il raffreddore che assilla Dario e Flo, stiamo tutti bene e un ometto via l’altro raggiungiamo il ghiacciaio. E’ tutto completamente cambiato, il ghiacciaio si è ritirato di parecchi metri in soli due anni costringendoci a cambiare zona di accesso. Troviamo così uno scivolo tra i seracchi apparentemente sicuro e proprio lì, tra alcuni stupendi laghetti glaciali, costruiamo un riparo dove lasciare il materiale e gli scarponi. Relax, quattro chiacchere guardando la parete che ci attende e stiamo già correndo verso il campo base; qualcosa da mandare giù ed un tè caldo ci attende. Basta poco per sentirmi su di morale ed in perfetta forma.
Pasqua
Dopo 3 giorni di duro lavoro capita a proposito la Pasqua per un meritato riposo. Tre giorni fa siamo saliti Slauco, Fabrizio, Fabio ed io ad attrezzare il percorso labirintico tra i seracchi che porta al ghiacciaio sotto la parete ed abbiamo qui piantato le due grosse tende Vertical 3 del campo 1. Dopo una lunga notte insonne, forse perché non ben acclimatati, abbiamo atteso tutta la mattina l’arrivo degli sherpa con parte dell’attrezzatura necessaria per attrezzare le fisse per il campo 2. Nel pomeriggio ci siamo così avventurati tra i ghiacci del Makalu, riuscendo, dopo una lunga traversata su misto, a raggiungere l’uscita del canalino con i vecchi chiodi da noi lasciati due anni fa. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, di rivivere. Seconda notte insonne ed ecco l’alba. Partenza presto dal campo 1 e via in su verso la seraccata del campo 2. Attrezziamo circa 500 metri di parete senza, però, arrivare a toccare il seracco sovrastante perché finiamo le corde che abbiamo con noi. Mancano pochi metri, ci penseranno domani Dario, Flo e Leo. Sapendo di dover tornare al campo base, facciamo scivolare velocemente l’otto nella corda pensando ad una bella dormita. Incontriamo, scendendo, l’altro gruppo che ci darà il cambio e con loro Graziano e Bruno che tornano al campo base dopo aver portato attrezzatura al campo 1.
Sono molto soddisfatto del lavoro di questi giorni e mi sento in forma. Oggi è stata una giornata di vero relax, è molto utile specialmente dopo le prime salite. Giornata calda, 13 gradi, senza vento; nel pomeriggio il luccichio dei raggi del sole si è trasformato in bianchi fiocchi di neve. Oggi anche i francesi hanno incominciato la loro eterna marcia di avvicinamento sulla ripida morena che porta al Pilastro Ovest. Ed ancora oggi Flo, Leo, Dario e Wolfi stanno passando la giornata sulle fisse che portano al campo 2, penso per girare qualche scena del film. Non mi sembra una cosa tanto intelligente, ma bisogna saper convivere con le idee altrui. Per concludere, sembra che tutto proceda bene o perlomeno senza intoppi. In una spedizione non si deve aver premura perché si finirebbe per scoppiare, ma… chi non vorrebbe arrivare in cima e tornare al più presto a casa dove tante cose belle ci attendono? Cerchiamo di fare del nostro meglio ed intanto fuori nevica alla grande. Lo stare qui sdraiato, sopra la trapunta nepalese ad ascoltare la neve che picchietta sul telo della tenda per poi scivolare giù, mi dà un grande senso di serenità e di pace.
Sabato 17 aprile 1993
È giusto un mese che siamo arrivati in Nepal, un mese per raggiungere i 6800 metri sul Makalu, un mese a rincorrere chissà quale successo, un mese di vita selvaggia, un mese lontano dalle proprie abitudini, un mese lontano dalle persone care, un mese con le cuffie nelle orecchie cercando una distrazione, un conforto, un relax, un’emozione e chissà quante altre mille cose ti può dare la musica in cuffia. Dopo 4 giorni siamo finalmente tornati al campo base, stanchi, con voglia di “comodità”, con le facce bruciate dal sole, le gambe stanche, con la voglia di una sedia dove appoggiare comodamente il culo; eppure con lo sguardo rivolto verso l’alto alla ricerca di chissà cosa in quell’immenso muro rosso chiazzato di bianco e azzurro. Con grande sollievo salutiamo i nostri amici che salgono a darci il cambio, ma nello stesso tempo un po’ di invidia ci assale, lassù c’è molto di nostro, mi raccomando trattatelo bene… ed infine la stanchezza prevale. Dobbiamo pensare solo a rilassarci.
Qualche giorno poi ritoccherà a noi, speriamo non per molto, il fisico si riposa ma la mente un po’ meno. Ogni volta che si rientra al campo base sembra tutto diverso, incominciando dal lungo percorso che ci conduce qui. Oggi incrociamo anche quel “pazzo” di Jeff Lowe che si avventura verso il campo 2 da solo alla ricerca di una nuova linea di salita per un solitario come lui. Purtroppo oggi Riccardo scende verso la civiltà alla ricerca di se stesso e della forza fisica necessaria per restare qui. Purtroppo il suo fisico non si è ancora adattato alla vita dura della quota, lesionando così anche la psiche. Unica soluzione è abbassarsi cercando di rendersi utile come postino. Speriamo che risalga presto. Sì, può essere bello scrivere delle pagine di un diario quando si sta via così tanto tempo, ma talvolta mi pongo, anzi ci poniamo delle domande stupide, ma che se vogliono colpiscono nel segno… perché così tanto tempo? Perché così tanti soldi? E dopo tutto ciò che succede? Il Makalu è bello, imponente, unico, alto, dolce e aggressivo… il Makalu è una montagna… il Makalu ti conquista, ti affascina, ti avvolge in se stesso… il Makalu è una montagna.
Domenica 18 aprile 1993
Siamo nella prima parte più critica della salita. Attrezzare nella giusta direzione, senza perdere tempo prezioso, lo scivolone di ghiaccio e roccia che ci porterà al passaggio chiave. Tutto ciò è molto duro, se si devono fare i conti anche con il freddo del mattino che ti gela anche la più piccola voglia di fare e con il tempo che, con le sporadiche spruzzate di neve quotidiane, non si vuole aggiustare. Nel complesso un pizzico di nervosismo, cambiamenti di programma, parole interpretate male al campo base. Non è voglia di sfuggire da tutto ciò, forse si sta meglio dal di fuori, probabilmente non aiuta, sicuramente siamo tutti sulla stessa barca in mezzo agli iceberg. Comunque una passeggiata è la miglior cosa: così, appena digerita la colazione, con Graziano e Fabrizio seguiamo i bolli e gli ometti che conducono alla via normale del Makalu.
Mi attira molto questa via normale e appena mi si presenta l’occasione vorrei tentarla, anche solo. Il sentiero sale pochissimo, in un’ora guadagniamo poco più di 200 metri di quota girando intorno alla nostra parete, che si presenta con sempre più nuove ed interessanti prospettive. Gli ometti e le tracce dei passaggi terminano su di un isolotto roccioso proprio nel centro della seraccata di accesso al primo ghiacciaio. Resti di campi base, probabilmente campi avanzati e ceppi di preghiera con bandierine sventolanti nel cielo, danno un immenso senso di pace e tranquillità, tutto sembra cambiare quassù, eppure la montagna è sempre quella. Ci soffermiamo un bel po’ prima di tornare sui nostri passi, ci scambiamo solo due o tre parole di ammirazione per il luogo e poi come tre anime in paradiso girovaghiamo incantati dal silenzio di quelle rocce, dallo stridere di quei ghiacci, dallo sbattere di quelle bandierine inneggianti canti sacri. Solo il colore sgargiante delle nostre tende ed il rumoreggiare degli sherpa ci riportano al nostro tempo e alla dura realtà della spedizione. Tra due giorni toccherà a noi salire. Vorremmo risolvere tutto al più presto, ma nello stesso tempo vorremmo che non arrivasse mai il nostro turno. E poi ancora tutti ‘sti problemi, quasi quasi me ne torno in quel paradiso solo 200 metri sopra di noi.
19 aprile 1993
Le bandierine di preghiera sventolano tra le rocce del campo base in questo moscio pomeriggio; i nostri amici stanno faticando da stamattina per guadagnare, metro dopo metro, il duro e impervio ghiaccio del primo lungo scivolo della parete nord-ovest. Siamo solo in cinque al campo base senza contare gli sherpa ed il cuoco, siamo ognuno nella propria tenda a leggere, a scrivere, ad ascoltare musica, a dormicchiare. Solo ogni tanto il rumore di una zip rompe il silenzio dell’aria, una testa fa capolino dalla tenda e due occhi guardano in su per poi riabbassarsi subito nelle solite faccende di riposo. Una deliziosa musica reggae mi accompagna in queste righe mentre i disturbi di pancia, con i quali convivo da ieri sera, continuano a darmi fastidio.
Così non è il massimo ed il morale cade un po’ giù; è facile perdere il feeling con quello che si sta facendo in queste condizioni, ma la spedizione è un enorme sacrificio (nessuno ci crede) e si sopporterà anche tutto questo. Non ho ancora capito perfettamente i programmi per i prossimi giorni, sempre che ci siano programmi, e tutto ciò contribuisce a buttarti in uno stato di pausa, di quiete che ti porta in tutti i posti del mondo tranne che quaggiù, anzi quassù. Ed intanto Peter Tosh e la sua musica mi accompagna tra queste righe. Sarebbe bello ora avere notizie da casa, cose nuove da leggere, abbiamo bisogno di novità, la routine del campo base ci affligge. Le bandierine di preghiera continuano a sventolare tra le rocce, nel cielo ora un po’ offuscato dalle nuvole, sembrano voler urlare che tutto va avanti, che nulla si ferma mai, né giorno né notte, né con il sole, né con la luna e che non sarà sicuramente la nostra pausa a rallentare tutto.
22 aprile 1993
7000 metri. Una piccola tenda, cosiddetta da bivacco, montata male di fretta e furia sotto una fitta nevicata. Sotto di noi un grande salto che finisce centinaia di metri più in basso sugli scivoli di ghiaccio tagliati dalle nostre corde fisse. Una slavina dietro l’altra ci piomba addosso; la neve ci penetra ovunque, sembra voler toglierci la forza di respirare. Poco più in là, nel centro della parete, è un via vai di slavine più grosse che, rumoreggiando, percorrono tutto il versante. Ha più l’aspetto di una stazione ferroviaria che del campo 3. Le mani fanno male dal freddo ed alcune dita sono oramai blu. È venuto il momento di entrare in questa specie di riparo che sarà il nostro tetto per questa eterna notte. Tremendo. La tendina, posta in questo angusto terrazzino scavato nel ghiaccio, resiste all’attacco delle slavine e solo uno strappo creatosi nel telo vicino all’ingresso rovina l’atmosfera di protezione. Purtroppo lo strappo è dal mio lato…
Le ore passano così come il tempo non passa mai. Tutto è complicato all’interno. Seduti o semi sdraiati come su una poltrona di un pullman, ci sistemiamo alla meglio mentre badilate di neve ci vengono spinte dentro dalle slavine che cadono incessantemente. Bestemmie al tempo che non ci permette di lavorare e stare meglio, anche far sciogliere la neve è un grosso impegno qui dentro. Due buste liofilizzate ci riempiono lo stomaco ed una buona camomilla accompagnata da una sigaretta e dalla indispensabile aspirina ci danno la buona notte. Un po’ su un fianco, un po’ sull’altro, passa così lentamente la notte. Fanno male le gambe per la posizione scomoda, ma per fortuna non veniamo attaccati dal freddo e ciò vuol dire tanto. Se la notte riesce più o meno a passare, la mattina sembra essere più lunga. Alle prime luci del giorno facciamo sciogliere altra neve per il caffè e poi non ci resta altro che aspettare l’arrivo del sole, mentre continuano a scendere slavine facendoci pensare all’impossibilità di lavorare.
Siamo sul versante ovest ed il sole arriva alle 11.15. I primi raggi sembrano portare vita, colore, speranza, ma le slavine non ci danno pace per cui poco dopo l’otto scorre veloce sulle fisse mitragliate dalle scariche di neve. Campo2, campo1, campo base. Sfinimento, delusione, dolce tazza di tè, dolce sedia, comodo tavolo, possibilità di distendere le gambe nel saccopiuma. Tutto è piacevole quaggiù e pensare che poche ore fa eravamo lassù, dominavamo tutto, il campo base sembrava così piccolo e senza importanza. Ed invece eccoci qua; dopo qualche ora le voci dei compagni danno quasi fastidio, sembrano rovinare la pace che si era creata a 7000 metri. Con l’aiuto del raksi (distillato di riso), trangugiato tra una sigaretta e l’altra nella cucina in compagnia di Slauco e degli sherpa, iniziamo a fantasticare e a programmare una salita in stile alpino. A volte la fantasia può diventare realtà.
24 aprile 1993
Un altro sabato corre via veloce sul calendario, soffiato via dal vento di alta montagna, sepolto dalla neve che puntualmente ogni giorno imbianca le tende. Puntualmente, come ogni giorno della settimana al campo base, siamo svegliati da una tazza di tè con latte servitaci gentilmente dal kitchen-boy attraverso la zip della tenda. Con il tè la giornata ci offre i primi caldi raggi del sole. E’ un momento molto bello, nella tranquillità del mattino inizia a muoversi qualcosa che si svilupperà per tutto il giorno. Oggi alcuni di noi sono andati al campo1 a portare i vari pezzi della piattaforma che cercheremo di montare al campo3. Siamo rimasti al campo base in sette, forse i più affiatati, forse quelli più in forma, forse quelli che sono un po’ stanchi di questa storia. Forse noi preferiamo le cose più sbrigative. Siamo stati proprio in tranquillità oggi, ci siamo fatti una stupenda polenta con il formaggio e gli affettati, ci siamo gustati un ottimo caffe della moka, abbiamo parlato di montagna e fotografia in inglese, così che nessuno restasse tagliato fuori, ed infatti né Leo, né Slauco si sono alzati dal tavolo come al solito.
Continuiamo a sognare sulla West Face, i nostri progetti sono giusti, ma il tempo puntualmente nel pomeriggio si guasta e le grosse nuvole che coprono tutto lasciano cadere bianchi cristalli. Il morale non si può più dire che sia alto. Tutti vorrebbero avere notizie da casa, tutti vorrebbero leggere dei giornali, delle riviste, tutti parlano sempre più spesso di Kathmandu, di come sarà il ritorno; tutti hanno queste sensazioni, segno di stanchezza di questa dura vita. Dobbiamo fare alla svelta, se vogliamo risultati, queste crisi portano solo sconfitte. So già che percorrerò le morene, risalirò i seracchi, arrampicherò fino al campo2 e ancora più su con il cuore in gola alla ricerca di una fuga verso l’alto. So già che bivaccherò con gli occhi fissi sulle lancette dell’orologio, battendo i piedi e le mani contro il freddo, e so già che ritornerò al campo base distrutto, disidratato con la faccia piena di croste e le labbra gonfie di dolore ed infine so già che ricomincerò a scrivere che ne ho pieni i coglioni. Bisognerebbe fermarsi prima di tutto questo tran tran, ma è difficile, continuiamo a rotolarci come biglie dentro un cesto.
25 aprile 1993
Una domenica cosiddetta di merda. Durante la notte, come oramai abitudine, ha nevicato molto imbiancando completamente la parete ed il campo base e tutto ciò che ci sta attorno. Bruno ed il dottore si sono cagati addosso per questi 20 centimetri di neve al campo1 e sono tornati al campo base senza seguire il programma, che era di portare i pezzi della piattaforma al campo2. Per fortuna che Dario, Leo, Fabio e Fabrizio, accompagnati da due sherpa, non si sono persi d’animo e sono partiti per il campo 2. Dovranno, però, sopportare il peso di tutto il necessario per montare campo 3. Avremo loro notizie stasera alle 19. Dopo una breve schiarita in mattinata con uno strano sole fin troppo caldo (il termometro sul telo della tenda segna 37°C) si ricopre tutto e ricomincia a nevicare. Si incomincia già a parlare di continuo brutto tempo, le possibilità di riuscita sembrano sfuggirci di mano.
Comunque una domenica terribile al campo base; mattinata in tenda a leggere bestemmiando di tanto in tanto per la neve che picchietta continuamente sul telo, piccola chiacchierata prima di pranzo, piccolo torneo di scopa e poi ancora tenda a leggere, scrivere e bestemmiare. Tutto sembra caderti addosso, sembra che non ti interessi più nulla; poi pensi alla fatica degli allenamenti, allo stress dei preparativi, alle rinunce per arrivare qui, alla lunga marcia per il campo base, alla fatica per arrivare a 7000 metri, all’ultimo bivacco… e forse non sai ancora se ti interessa andare avanti. Sono crisi passeggere che possono diventare durature, sono crisi che possono essere sfogate, senza risultato, solo scrivendo e talvolta mi chiedo se non è proprio lo scrivere che va a scavare e scavare nel mio io questa crisi. Ed allora fanculo la neve, fanculo il quaderno e fanculo tutto; prendo la giacca, il cappello e il walkman e vado a fare due passi nel piano che c’è qui sotto, chissà che non passi.
26 aprile 1993
Continua a nevicare. Sono diversi giorni che il meteo ci illude di un miglioramento al mattino per poi richiudersi con grosse nubi che avvolgono tutte le valli e fanno cadere una neve gelata. La parete è molto carica oggi e così la squadra che sta lavorando è costretta a rientrare al campo 2. Per radio alle 13 ci hanno detto che c’è un grosso pericolo di valanghe. Inoltre, Fabio ha qualche problema di salute ed è meglio che scenda accompagnato da Fabrizio. Dario e Leo attenderanno un altro giorno, ma, a loro parere ed anche mio, inutilmente. Penso che toccherà a Slauco e a me la prossima volta, tempo permettendo. Intanto al campo base ci si annoia da matti. La mattinata passa tra chiacchere e racconti di viaggi del simpatico Wolfy, ma dal pranzo in poi è dura far passare il tempo. Da ieri pomeriggio ho incominciato a correre nel grosso piano poco sotto il campo base. Lunghi giri intorno ai massi e alle rovine dei vecchi campi base. Inizialmente pensavo fosse impossibile correre a queste quote (5300 metri), poi ho notato che non è per niente male, anzi ti dà molta carica.
27 aprile 1993
Uno stupendo sole ci fa uscire dalle tende ancor prima che ci venga portato il tè. Tutto è bianco intorno a noi ed il sole accecante ci obbliga a metter gli occhiali. Ieri sera, prima di cena, sono rientrati anche Leo e Dario e i due sherpa per le condizioni dei versanti molto pericolose. Oggi anche i due francesi hanno fatto ritorno dal loro campo 2 sul Pilastro Ovest. Nonostante le prime nubi facciano capolino dalle varie valli attraverso i passi, la mattinata è abbastanza euforica e passa bene. Avvistiamo un grifone o forse è un gipeto che con la sua andatura maestosa vola in perlustrazione sopra il campo base per poi scendere a valle. Avvistiamo poi Doma, il mail runner, e tre portatori che salgono verso il campo base. Sogniamo subito lettere e posta, ma arrivano solamente due casse di birra e del raksi. Delusione. Nella delusione ci scoliamo sei birre a pranzo, più per la novità che per la bontà. Io ne approfitto per comprare un litro di raksi per il costo di 100 rupie. Prima di pranzo una mezz’ora di corsa mi aiuta a stendere i nervi e a mantenermi in forma. Le foto di gruppo con le giacche della Geo conclude l’euforia della giornata, tutto cade in letargo, non si vede più nessuno nel campo mentre le nubi coprono il cielo.
4 maggio 1993
Dopo 5 giorni di duro lavoro torniamo finalmente al campo base. E’ la cosa migliore che una persona si può aspettare dopo aver passato 3 giorni sopra quota 7000 metri a lavorare come un cane. Dicono che scendere scendono anche i sassi, ma la fatica per spingerli giù nessuno la conta. Un’acqua biancastra mi scende dal naso, la gola in fiamme, le gambe che vorrebbero scioperare e gli occhi fissi verso qualcosa che non c’è. Campo base-campo 2 sotto un sole cocente, campo 2 campo 3 sotto uno zaino pazzesco: piattaforma, sacco a pelo, viveri, materiale, abbigliamento. 12 ore di lavoro da schiavi lungo quelle dannate interminabili fisse. Campo 3-up su ghiaccio duro come il vetro, senza punti di sosta per i nostri poveri polpacci. Notte al campo 3, sempre stretti, per fortuna non molto freddo. Vento, bufera, slavine che sembrano toglierti il respiro. Poi si rientra al base, un amico che ti porge la borraccia quando meno te lo aspetti, altri amici pieni di attenzioni per te, ti danno da bere e da mangiare e ti parlano, questo è il bello delle cose.
6 maggio 1993
Ciao Wolfy. Stamattina, prima dell’arrivo del solito tè del buongiorno, si sentivano già rumori di bidoni e sacchi poco lontano dalla mia tenda. Sapevo della partenza di Wolfy, così ho preferito uscire subito dalla tenda. Accendo uno stick di incenso e lo metto davanti alla mia tenda in modo che il profumo avvolga il campo base, è come augurare a Wolfy tutto il bene possibile nel suo viaggio di ritorno, sapevo che gli piaceva tanto e farlo è stato automatico e istintivo. La nostra piccola chiacchierata mattutina come se niente fosse diverso dagli altri giorni, ed invece c’era una tenda che si svuotava da una persona molto cara, saggia e simpaticissima. Ho conosciuto Wolfy solo pochi mesi prima, ma ha saputo dare, a chi sapeva cogliere, tantissime cose belle. La consegna delle lettere per l’Italia, una veloce colazione e già la folta barba rossa corre veloce, tenendo il passo dei portatori, sulla morena verso l’Hillary Base Camp e verso quel magico intaglio che porta nella valle della civiltà. Due figure siedono mogie sui sassi vicino alle bandiere di preghiera, ogni tanto si alzano contemporaneamente con uno scatto di felicità per gridare e fischiare il proprio saluto a Wolfy e poi risedersi pensierosi con lo sguardo fisso a valle e chissà quali pensieri in testa.
Sono stato troppo preso per scrivere ieri. Prima il coma che mi avvolgeva dopo tutto il lavoro, poi l’arrivo di tre amici italiani con il pacco delle poste, poi la partenza di Wolfy, troppe cose in breve tempo per il mio debole sistema nervoso. Ci voleva proprio la cassetta dei Pittura Freska per tirarmi su. Dunque, la situazione in parete non è male, ma nemmeno delle migliori. Dario e Leo, dopo averci dato il cambio, hanno attrezzato tutto il secondo nevaio fino alle rocce dove hanno trovato delle difficoltà, Fabrizio e Fabio sono oggi al campo 3 per dare il cambio. Le corde ed i moschettoni sono quasi finiti e c’è ancora molto da salire. Io mi sto riprendendo con gli antibiotici e Slauco è ancora alle prese con un dolore a un dente. Fabio al campo 3 non è nelle migliori condizioni, ma speriamo anche in lui, la quota è una brutta bestia. Riccardo, dopo che è tornato, è scazzato e vuole andarsene; il dottore gli consiglia di farlo, mentre il capo spedizione ed il suo braccio destro continuano a vedere tutto facile e a spingere verso la cima. C’è, per fortuna, un po’ di allegria in Flo e i tre nuovi arrivati. Il tempo non è per niente bello, solo al mattino splende il sole. Mi sono cacciato proprio in una bella avventura…
8 maggio 1993
Dopo il rombo del tuono la neve copre uniformemente tutto il campo base. Come funghi, le tende spuntano su questa distesa bianca; la neve è bella, compatta, bella a vedersi e a toccarsi. Nel cielo grosse nuvole nere sovrastano le montagne, mentre veloci nebbie giocano con creste e costoni nascondendoli alla nostra vista. Talvolta arrivano a giocare con le nostre tende creando nel campo base un’atmosfera triste ed invernale. Incomincia a girovagare del nervosismo tra le tende, non da parte mia per ora, ma entrare nel giro ci vuole poco. Dovrei avere ancora un giorno di riposo prima di salire. Inizialmente pensavo fosse una cazzata aspettare tutto questo tempo, ma visto che oggi è il primo giorno senza tosse e mi sto rimettendo in forma ho fatto la scelta giusta. Dovrei riuscire a concentrarmi un po’ di più per affrontare qualche giorno sulla parete. Sto sognando da qualche giorno l’arrivo in vetta e lo spero tanto, ci tengo da matti dopo tutto il lavoro.
9 maggio 1993
Un caldo sole, intiepidito dall’aria fredda del temporale della notte scorsa, scioglie la neve intorno al campo dando una sensazione di primavera. Si sta bene sdraiati nelle tende con la zip aperta, infonde gioia quel tiepido venticello che entra. Oggi, secondo i programmi, è l’ultimo giorno di riposo per Slauco e me. Da domani deve incominciare la salita alla vetta, è giunta l’ora. Domani campo 2, dopodomani il campo 3, il giorno 12 cercheremo di posizionare la tenda da bivacco del campo 4 e il giorno 13 di superare la fascia di roccia che ci divide dallo Sperone Ovest dei Francesi e magari la cima, altrimenti un altro bivacco sulla cresta. Queste sono le nostre ottimistiche intenzioni. Altrimenti sarà un disastro, basta un cambiamento del tempo per far saltare tutti i piani, anche perché dovremmo essere seguiti con un ritardo di due giorni da Dario e Leo e da Fabrizio e Fabio. Oggi sono partiti gli sherpa per portare il più in alto possibile l’attrezzatura, almeno fino alla fine delle fisse, in modo che non dovremmo salire carichi come asini come la scorsa volta.
10 maggio 1993
Oggi parto verso la cima. Spero vada tutto bene e spero in un felice ritorno tra più o meno una settimana. Oggi è anche il compleanno di mio fratello Mario, auguri dall’Himalaya.
18 maggio 1993
Due lacrime scendono calde dagli occhi fermandosi sul bordo degli occhiali a maschera. Un brivido percorre tutto il corpo e una gran voglia di urlare viene fermata solo da un po’ di vergogna che provo verso i miei due compagni. Poco dopo, però, sentendo parlare Dario alla radio, capisco che non sono il solo a provare questa sensazione e riesco così ad esprimermi con un grosso nodo alla gola che mi spezza la voce. Siamo a 7500 metri alla fine dell’ultimo ghiacciaio pensile e all’inizio di una difficile zona rocciosa. Ci saranno 30° sotto zero, i piedi non li sentiamo più da ore oramai ed ogni tentativo di scaldarli risulta inutile. Un centinaio di metri sotto di noi resta solo la piazzola del campo 4 ed un saccone con delle cose. Per radio: “5 metri in 1 ora con 4 chiodi, molto difficile, molto freddo, per superare questa fascia occorrono altre squadre per potersi dare il cambio frequentemente, noi rinunciamo”. Il singhiozzare della nostra voce fa capire lo stress al quale siamo stati sottoposti fino a qui per poi rinunciare. Piango.
Tutto ciò ieri, 17 maggio, dopo 44 giorni dall’arrivo al campo base e dopo, per me, 8 giorni passati nei campi alti nel tentativo di raggiungere la cima. Ieri sera eravamo già tutti al campo base dopo una lunga discesa e sembrava non fosse accaduto nulla di importante. Solo Dario, Leo ed io potevamo sapere cosa abbiamo lasciato lassù e dopo quante fatiche abbiamo dovuto dire no. Solo noi sappiamo cosa vuol dire piangere per qualcosa in cui credevamo veramente. E così anche questa volta la West Face del Makalu ci ha respinto. Dopo il duro lavoro per attrezzare la seraccata del campo 1, dopo le fatiche per attrezzare il primo balzo di 500 metri che porta al campo 2, dopo i ripidi e duri pendii di ghiaccio che ci portavano sempre più in alto, dopo il posizionamento della piattaforma al campo 3, dopo gli ultimi duri pendii prima del salto roccioso, dopo l’ultima notte al campo 4 al gelo e sotto le slavine; dobbiamo dire basta e tornare con le lacrime agli occhi al campo base.
Riassumendo:
10/5 campo 2 con Slauco e Flo
11/5 campo 2 per vento forte
12/5 campo 3 con Slauco
13/5 campo 3 con Slauco per vento forte
14/5 verso il campo 4 solo, Slauco scende al base per malessere
15/5 campo 3 arrivano Dario e Leo
16/5 campo 4 con Dario e Leo
17/5 tentativo, rinuncia e rientro al base
Tutto ciò riassunto in due lacrime di rabbia che appannano gli occhiali e ti lasciano dentro l’amaro della rinuncia.
Ora ci restano pochi giorni prima di tornare nella civiltà. Secondo i programmi, per il 25 maggio dovrebbero arrivare i portatori. Con grande gioia siamo tutti d’accordo per tentare la salita lungo la cosiddetta via normale. Partono, quindi, domani Bruno e Flo e dopodomani li seguiremo Dario, Leo, Fabio, Fabrizio Slauco ed io. Tenteremo in stile alpino, naturalmente, con due squadre da tre ed una da due. Programmati due campi e tre giorni per la salita, speriamo almeno in questa.
19 maggio 1993
Giornata di preparativi per domani. Cerchiamo di fare i sacchi più leggeri possibile senza rinunciare a tutto ciò che può essere indispensabile su un Ottomila. Dopo una mattinata passata a selezionare attrezzature possiamo preparare lo zaino, ne esce un peso di 15 chili, soddisfatti o meno, non si può fare di meglio. Discutiamo molto riguardo la salita, mentre Flo e Bruno sono già al campo 1. Ci avvisano per radio che la neve è ottima, il tempo è bello, dobbiamo prestare attenzione ai crepacci nel pianoro del ghiacciaio. Con nostra felicità a nostra richiesta, si uniscono a noi anche tre sherpa che, con loro grande contentezza, tenteranno la salita alla vetta non per lavoro, ma per passione come noi. Domani mattina partenza presto e speriamo sia la volta buona per raggiungere quelle quote che fino ad ora mi sono state negate.
20 maggio 1993
Partenza la mattina moto presto con zaini stracarichi. Lo stile alpino comporta il dover avere tutto con sé nello zaino. Lasciamo così il campo base alla volta del campo 1 che installeremo il più in alto possibile. Morale alto e fatica tanta.
21 maggio 1993
Dopo aver dormito sotto il canalone che porta al Makalu La, dove abbiamo raggiunto Flo e Bruno, smontiamo il campo alla volta del campo 2 che piazzeremo il più in alto possibile. Sono in ottima forma e batto tutta la traccia fino al passo del Makalu La, dove mi attende un forte vento e tanta immondizia delle precedenti spedizioni (bombole di ossigeno, tende, ecc.). Una lunga traversata, sferzati dal vento, ci porta sotto il canale, che tra i seracchi, conduce al nevaio sotto la vetta. Dopo le 8 ore di cammino di ieri e le 8 ore di oggi siamo un po’ stanchi, ma con una carica bestiale che non ci fa mollare.
22 maggio 1993
Il giorno più lungo della mia vita ed anche il più bello. Parto verso le tre del mattino con Dario e Leo, siamo i primi e non ci chiediamo nulla degli altri, siamo determinati a salire in vetta. Saliamo con la luce delle frontali il ripido e stretto canale che, tra rocce e seracchi, sale al pianoro sottostante la vetta. L’alba alle 5 è stupenda e ci carica ancor di più. Sullo sfondo spadroneggia il Kangchenjunga. Intanto siamo raggiunti da Tirta e Mingmar, due sherpa fortissimi che tentano la vetta con noi. Come sospettavo, gli altri hanno rinunciato: solo Fabrizio con una grande forza di volontà ed un po’ di incoscienza si è avventurato sulle nostre tracce. Sapevamo che era una normale difficile, ma non pensavamo così impegnativa. Da un colle arrampichiamo su una cresta dove le difficoltà aumentano, pensiamo così di scendere e tentare da un’altra parte. Siamo sopra gli 8000 metri, la vetta è lì che ci guarda mentre cerchiamo la via migliore per salire. Un canale di neve ci porta di nuovo in cresta e dopo dei passaggi difficili tra ghiaccio e roccia raggiungiamo le rocce sommitali. Pochi passi e sosta alla ricerca di ossigeno, Leo mi precede di pochi passi mentre io mi metto comodo a fare i miei bisogni: sembra strano a 8400 metri… ma quando scappa scappa.
Arrivano poi Dario, Tirta, Mingmar e Fabrizio. La vetta è piccolissima, ci stanno solo due persone per volta, così a turno facciamo le foto e ci scambiamo i complimenti. Fabrizio, piangendo dall’emozione, chiama il campo base. La radio è piena di gioia ed a turno ognuno dice la sua. È ora di scendere, è più di un ora che siamo qui, sono passate le 15 e la discesa non la conosciamo. Seguiamo una cresta affilata per poi trovarci in piena parete che scendiamo con 5 doppie per trovarci nel buio della sera sul plateau. Trovare le nostre tracce risulta inutile e così anche per il canalone. Alle 9 decidiamo di bivaccare vicino ad un buco, dove si infila solo Fabrizio che ha una brutta botta alla gamba. Dal campo 2 ci fanno segnali di luce, ma non c’è nulla da fare, dobbiamo aspettare le luci dell’alba. Bivaccare a 8000 metri senza nulla non è molto bello. La notte più lunga e fredda della mia vita passata a fumare sigarette e a fregarsi mani e piedi.
23 maggio 1993
L’alba ci dà la direzione per scendere. Sembriamo usciti da una cella frigorifera. Io tremo ancora dal freddo, Dario ha delle visioni strane con disturbi agli occhi, Fabrizio è in piena catalessi, solo Leo sembra aver ben resistito alla notte. Il campo 2 non è lontano, decidiamo così di passare la mattina per riprenderci prima di scendere. La discesa verso quello che sarà il campo 1 è infinita, soprattutto perché siamo rimasti in pochi in forma. Fabrizio soffre ad una gamba colpita da un masso ed è sfinito, i due sherpa sono sofferenti di vomito e congelamenti.
24 maggio 1993
Finalmente l’ultimo giorno di questa avventura bella, ma dura. Raggiungere il campo base è una cosa stupenda, il piacere ed il rilassamento sono immensi. La stanchezza può ora dominarci. Con Leo e Dario ci stringiamo la mano.
Ciao Makalu
E’ giunta così l’ora di salutarci, dopo tanti giorni passati a guardarti. Sembra che per l’occasione ti sei vestito di bianco ed hai invitato il primo quarto di luna augurandoci, così, buona fortuna. La fortuna l’abbiamo già avuta dalla nostra parte, comunque grazie e tante belle cose anche a te. In serate come questa non ci vorrebbero addii, ma dopo due mesi penso proprio sia giunta l’ora di lasciarci. Tanta altra gente verrà a trovarti e forse qualcuno riuscirà a scalarti, mi raccomando. Ti vedremo ancora, per qualche giorno, nel scendere, spero ci sia sempre la magica luna a tenerti compagnia, guardandola ti penserò sempre. Addio Makalu, resterai sempre nel mio cuore dopo la grande lezione di vita che mi hai dato.
27 maggio 1993
E’ oramai un giorno che abbiamo lasciato il campo base ed il nostro ritmo di vita è completamente cambiato. Sveglia prestissimo la mattina, colazione all’aperto tra il verde dei prati, nonostante il freddo sia ancora pungente, smontare le tende poi ore e ore di marcia. Ora siamo poco sotto i passi dello Shipton La, in un piccolo spazio tra i rododendri in fiore, chiusi nelle nostre tende al riparo dalla grandine e dal temporale. Domani è l’ultimo giorno lontano dalla civiltà, raggiungeremo Tashigaon che, per noi, dopo due lunghi mesi significa birra, coca cola, rum, cibo, acqua per lavarsi. Stiamo facendo tappe molto lunghe per raggiungere Tumlingtar per il 31 maggio e spero ci sia subito l’aereo.
31 maggio 1993
Vola così il secondo mese mentre aspettiamo fiduciosi l’aereo per Kathmandu. La partenza oggi è stata sospesa per motivi tecnici. Il caldo e il sole di Tumlingtar sono veramente pazzeschi. Dal gelo del bivacco a 8000 metri al caldo dell’Hotel Makalu, non male come sbalzo. Le mani, reduci da principio di congelamento, fanno abbastanza male ed ogni cosa che tocco sembra percorsa da elettricità. Da domani alcuni portatori partiranno con i nostri bidoni per Hile per rientrare in pullman.
Componenti della spedizione
Oreste Forno: capospedizione
Graziano Bianchi
Floriano Castelnuovo
Fabio Iacchini
Fabrizio Manoni
Riccardo Milani
Salvatore Tore Panzeri
Bruno Pennati
Antonio Prestini (medico)
Dario Spreafico
Leopold Sulovský
Miroslav Slavko-Slauco Svetičič
Wolfgang Thomaseth (cineoperatore)
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Grazie per questo racconto. Letto tutto d’un fiato dallo scomodo letto dell’ennesima Guest house. Forse leggerlo proprio da qui e poter collegare parole e immagini ha dato quel tot di emozione in più. Impensabile che nel 93 si vedesse l Himalaya da kathmandu, ora solo polvere e smog. Saluti dal Nepal (three passes trek)
T
grazie a chi è interessato a queste storielle e mi permetto di anticipare che ho già pronti altri articoli del genere che proporrò ad Alessandro e ne farà quello che vorrà
ringrazio per l’attenzione di chi gli interessa e anticipo che ho già pronte altre storielle come questa, poi deciderà Alessandro se e come e quando pubblicarle.
buone letture
1) Ho letto il racconto con interesse.
2) Quando sono pubblicati articoli che non mi interessano, allora non li leggo.
3) Quando in Totem & Tabú compaiono articoli farneticanti smetto di leggere non appena me ne accorgo.
4) Quando nel forum di Totem & Tabú appaiono sproloqui, mi sforzo di ignorarli.
5) Però quando lo sproloquio assume toni da delirio o scade addirittura nella falsità o nella mistificazione, allora spesso non riesco a tacere.
5 e 6 esatto!Avercene di domeniche Makalusiane nel proprio diario mnemonico!
Dice bene Tore Panzeri: “nessuno è obbligato a leggere i testi pubblicati dal blog”. Fortuna che c’è chi racconta le proprie esperienze, idee, storie altrimenti non esisterebbe il blog che io sfoglio ogni mattina appena sveglio e leggo prevalentemente i pezzi di mio interesse. C’è chi invece di pubblicare qualche cosa evidentemente si realizza buttando un po’ di “cacca” su chi ha voglia di esporsi. Del resto credo che il fenomeno sia presente su tutti i social, molto di più che sul gogna blog. Vorrei tranquillizzare chi contribuisce al gogna blog, esiste un vecchio detto torinese << parole d’i asu van nen n’ ciel >> con tutto il rispetto per gli asini che sono animali simpatici ed intelligenti.
tecnicamente…pilone del freney…asiatici…ma sai cosa voleva dire e cosa, secondo me, vuol dire affrontare la parete ovest di una montagna come il Makalu?
certo da anni ci si muove diversamente in Himalaya, infatti c’è scritto 1993.
nessuno obbliga a leggere gli articoli e visto che si parla di retorica a quintali si può allontanare lo sguardo dopo le prime righe.
la cronaca è noiosa come possono essere tutte le cronache, non è un romanzo da recensire.
poi se qualcuno non ha proprio nulla di meglio da fare nella sua vita lo legge e tace.
manetta sempre grande ed oltretutto sempre attivo nell’alpinismo.
Nonostante la lunghezza e la monotonia delle giornate in quota (abbiamo letto numerosi diari come questi, compresi quelli del Gogna), il racconto mi è piaciuto e l’ho trovato denso in molti aspetti, per nulla banali.
Pierlorenzo, dire che la domenica appaiono sul Blog solo articoli meno interessanti che in settimana può essere solo giustificato dal fatto che sei un frequentatore saltuario ed hai certamente una visione parziale.
Fabrizio Manoni, detto Manetta. Sicuramente il più forte di tutti.
Noiosa cronaca. Come guardare l’album fotografico del matrimonio di sconosciuti.
Sembra un resoconto degli anni ’50. Retorica a quintali.
Per carità, ognuno fa l’alpinismo che vuole, ma questo non lascia spazio a nessun piacere. Almeno in racconti come questo.
Tecnicamente sarebbe come se degli asiatici avessero voluto scalare il pilone centrale del Freney e poi avessero ripiegato sulla normale dal Gonnella.
Tutto lecito, ma propinarcelo è giustificato solo dal fatto che gli articoli della domenica sono dei riempitivi per il gognablog.
Poi a qualcuno piacera6di sicuro, ma a me proprio no.