A Wimbledon il tennista italiano è stato l’emblema dello stile british, a Wembley i calciatori inglesi che si tolgono la medaglia d’argento sono l’emblema del contrario.
Matteo Berrettini e la nazionale inglese
(le due reazioni alla sconfitta e l’arte di saper perdere, o di non rosicare, o almeno di non farlo notare)
di Andrea Romano
(pubblicato su ilfattoquotidiano.it il 12 luglio 2021)
Sfilano per primi, lungo quel palchetto bianco e turchese che qualcuno ha spinto in mezzo al prato. Avanzano uno dopo l’altro. Con lo sguardo basso e la faccia seria. Stringono mani, stirano labbra in sorrisi di circostanza. Poi stendono il collo in favore del padrone del vapore, il presidente dell’Uefa Aleksander Ceferin. La medaglia d’argento non fa in tempo a toccare il loro sterno che se la sono già sfilata. Via. Dal collo, dalla mente, dalla memoria. Giù, nel fondo di qualche cassetto, alla fine di qualche album di ricordi che nessuno vorrà più aprire. È un movimento che ripetono quasi tutti i giocatori della Nazionale dei Tre Leoni. Ancora. E ancora. E ancora. Sempre più velocemente, sempre con maggior fastidio. Ma è anche un gesto che racconta molto di come l’Inghilterra ha accolto la sconfitta contro l’Italia nella finale di Euro 2020. E non in senso positivo.
Perché è il frutto di un errore di valutazione, di un eccesso di confidenza, di giornate intere trascorse a cantare “It’s coming home” (diventato poi, genialmente, It’s coming Rome, NdR), la coppa sta tornando a casa. Fino all’autoconvincimento collettivo, alla certezza condivisa che quella vittoria fosse in qualche modo dovuta, dote di un destino ineluttabile più per gli altri che per sé stessi.
La vittoria azzurra invece ha portato quell’anarchia nel Regno Unito che vagheggiavano i Sex Pistols. Ha sbriciolato certezze, infranto una narrazione già preconfezionata. E per questo è stata rifiutata dai calciatori inglesi. In quello sfilarsi la medaglia c’è molto di un’era dove non c’è spazio per i secondi, dove la vittoria deve essere sempre sfavillante, dove i successi valgono solo se accumulati. È un gesto che denota sopportazione per il verdetto del campo, che si traduce in sguaiato nervosismo.
Ed è proprio questo il punto. Ieri a Londra gli italiani si sono scoperti più british degli inglesi. Almeno nello sport. Qualche ora prima, a venti chilometri di distanza, Matteo Berrettini aveva perso la finale di Wimbledon contro Novak Djokovic. La fredda realtà l’aveva travolto dopo il calore di un primo set vittorioso. La verità d’altra parte era difficile da rifiutare. Anche perché era sotto gli occhi di tutti: il serbo era stato semplicemente più forte. Un concetto non facile da mandare giù per un ragazzo che a venticinque anni si trovava proiettato nella storia del suo Paese. Solo che a fine partita Berrettini si è fermato davanti alle telecamere con il sorriso sulle labbra e la faccia rilassata di chi è consapevole di aver portato a casa un risultato comunque straordinario. “Sono sensazioni incredibili, forse troppe da poter gestire. Anche in questo Novak è stato più bravo di me – ha detto – lui sta scrivendo la storia di questo sport e merita tutto. È stato bellissimo essere qui. Ci voleva solo quel passo in più che è mancato. Mi congratulo con il team di Novak, in bocca al lupo per tutto”. Un altro ace. Solo che stavolta a schizzare via a velocità incredibile non è una pallina, ma le parole non banali di un ragazzo che sa di avere comunque un grande futuro davanti.
A Wembley è avvenuto l’esatto contrario. L’Italia ha alzato al cielo la coppa in uno stadio vuoto, dove il vincitore non è stato riconosciuto come il più forte (o quantomeno il più meritevole), ma come guastafeste, intruso. Per una serata gli inglesi hanno preso il posto dei francesi che si incazzano della famosa canzone di Paolo Conte. Quello sfilarsi via la medaglia significa non legittimare la vittoria altrui, ma anche in qualche modo non dare il giusto peso al proprio cammino. È un passo indietro. Perché in queste ultime settimane avevamo avuto almeno due grandi lezioni di sconfitta.
La prima con il bacio di Pep Guardiola alla medaglia d’argento dopo aver perso la finale di Champions League contro il Chelsea. Un gesto spontaneo per i suoi simpatizzanti e artificiale per i suoi detrattori, che aveva diviso ma che aveva avuto il merito di aprire un dibattito sulla relativizzazione del successo.
La seconda era arrivata qualche giorno fa, da un altro spagnolo. Dopo aver perso ai rigori una semifinale che forse meritava di vincere Luis Enrique non solo aveva fatto i complimenti all’Italia. Ma aveva pubblicamente annunciato che in finale avrebbe fatto il tifo per i suoi carnefici. Tutto questo si è perso ieri sera sull’erba verde di Wembley. Anzi, si è riaffermato un concetto piuttosto conosciuto che a queste latitudini è stato condensato nella frase: “Vincere è l’unica cosa che conta”. Per assurdo il gesto degli inglesi ci ha ricordato che non è così, che l’argento può essere prezioso tanto quanto l’oro se trasformato in punto di partenza per la vittoria futura, se si gettano le basi per una cultura capace di andare oltre l’immediato, più in là del risultato di una partita. Una volta sir Winston Churchill disse: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”. Giustamente non aveva ancora visto la Nazionale di Gareth Southgate.
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Vero quello che dici, Fabio. Per fortuna ho imparato negli anni a comprendere che la morte è la fine di ognuno di noi, per quanto amato. E il dolore e lo sconforto con papà sono passati veloci, perché era per lui la miglior fine che potesse fare, senza agonizzare soffrendo per troppo tempo. Ero lì quando è morto, la mamma e mia sorella erano in bagno e, credimi, mi son trovato a guardarlo (incosciente e sotto morfina) e a dirgli “Basta babbo, siamo qui, ti vogliamo bene, sappiamo che tu ne vuoi a noi, è ora che tu finalmente ti riposi”. Si è spento pochi minuti dopo, con il volto sereno, nonostante tutto. Certo, mi manca, ma porto dentro di me tutto quello che mi ha dato, a modo suo, in 65 anni. E, davvero, gli sono grato. Ecco.
Marcello, nonostante discussioni e diatribe, sì, ho sempre pensato che qui fossimo tra amici. Forse, anche per questo son tornato: per ri-sentirvi e farmi ri-sentire.
Uno vede il titolo dell’articolo e tanti commenti. Pensa che si stia parlando di calcio e tennis e poi scopre uno scambio di messaggi tra vecchi amici. Bello.
Caro Marco, i nostri anziani genitori, con le loro malattie e poi con la morte, ci causano tristezza e dolore.
Non male Lorenzo. 😀
Bello essere ancora vivi?
Lo sapevo, la cultura popolare imperversa: “Chi non muori si rivede”… ogni tanto mi prendo delle pause. In più, era morto papà, la mamma ha 90 anni, ecc. ecc. Insomma, la vita mi ha portato a pensare ad altro. Però, eccomi qui di nuovo: contenti?
Come l’araba fenice, Marco Vegetti risorge dalle sue ceneri. Dove eri finito? A Kabul?
Bentornato!
credevo fossi morto
Credo che a questo punto, invece delle chiacchiere dalle nostre sedie, valga il commento che oggi De Rossi (sulla GdS): “Non facciamo lezioni di morale a nessuno, che anche noi non scherziamo”. Detto da chi il calcio di alto livello, di club e nazionale, l’ha praticato per 25 anni dovrebbe servire a tutti coloro che si son sentiti così tanto offesi, dal campo agli spalti, a alle sedi TV, ai nostri bei divani.
Non capisco l’indignazione per il comportamento dei giocatori di calcio. Calciatori intelligenti è una contraddizione in termini. Qualcuno c’è stato, ma la nazionale inglese mi sembra abbia tenuto fede alla media del quoziente intellettivo.
In quell’occasione è stato apprezzabile il comportamento di Berettini, ma avrei voluto vederlo a parti invertiti. Cioè lui il n.1 al mondo o cmq il gran favorito del match (magari giocato in casa) che perde da un altro… avrebbe reagito alla sconfitta con lo stesso fair play? Lo aspetto a nuovi episodi della sua carriera, che gli auguro lunga e felice.
Secondo me chiama gli spazi aperti come alpinisti ed escursionisti e sciatori&alpinisti( o costretti per la pagnotta ad aule, uffici, fabbriche elaboratori) non dovrebbe neppure occuparsi nei dettagli di sport che si svolgono in spazi rettangolari di dimensioni codificate e certificate e dominio dell’angolo retto..e caterve di regole, giudici, guadialinee , cronometristi, punteggi .Poi le cronache in diretta usano terminologia da specialisti che allontana ancor di piu’chi non e’ della casta. Non le spieganoquasi mai, neppure alle Olimpiadi
Al massimo chi rifugge ambienti chiusi e limitati oha poco tempo un uso palestra quando fa cattivo tempo in vista di uscite in spazi anarchici a 3 dimensioni … meglio con aria che circola e non porte e finestre a chiusura stagna. Strane le gare di canoa in corsi d’acqua artificiali con getti e onde sempre uguali ,computerizzati.
“Quello sfilarsi via la medaglia significa non legittimare la vittoria altrui.”
Sbagliato! Sfilarsi la medaglia significa essere antisportivi, maleducati e arroganti (forse incivili?), per di piú mostrando al mondo intero che si è antisportivi, maleducati e arroganti (forse incivili?).
Su questa vicenda è stato scritto di tutto e di più, strumentalizzandola, come sempre, a piacimento.
Chi ne ha voglia può andare a leggere cosa successe nel 1950 al Maracanà al termine della partita decisiva fra Brasile ed Uruguay per l’assegnazione della coppa Rimet. Meglio leggere il racconto dello stesso Jules Rimet che si trovò a consegnare la coppa quasi di nascosto al capitano uruguagio.
Fu un evento che coinvolse una nazione intera con tanto di suicidi al seguito.
Il problema non va ricercato tanto nella nazionalità degli atleti e dei tifosi quanto nel calcio, nella sua storia, nel suo impatto a livello emotivo sulle masse, nel giro di denaro che lo accompagna e in tanto altro ancora.
Il paragone con il tennis non esiste, trovve diversità storiche e socioculturali.
La medaglia di secondo classificato se la sono tolti tanti giocatori, compresi quelli di casa nostra, al termine di altrettante finali perse.
Non concordo nemmeno sul concetto non facile che Berretto avrebbe dovuto mandare giù. Non mi sembra uno stupido, se l’è giocata col numero 1 al mondo, proiettato verso un’impresa che non riesce a nessuno dal 1969 (il grande slam), e ha perso come da pronostico che chiunque s’intenda un minimo, ma veramente un minimo di tennis, avrebbe fatto.
Concludendo, perchè i 1500 caratteri incombono, gli inglesi hanno fatto una figura di merda? Certo che sì! Però queste strumentalizzazioni e improbabili paragoni con sport e atleti diversissimi fra di loro puzzano di retorica di bassa lega.