Non più di cinque

Non più di cinque
di Carlo Crovella
(pubblicato su Scandere 1990-1992)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)

Avevano l’appuntamento a Briançon. Lui e Monica giunsero in anticipo e aspettarono gli altri due passeggiando sulla piazza vicino al forte. Il sole brillava come capita solo in un mattino di fine giugno e l’aria tersa tagliava netti gli spigoli del forte.

Lui inspirò e sorrise: «Mi sento un altro». Monica era distratta dai suoi pensieri. Ripassava con la mente ciò che doveva ancora preparare prima di partire per gli Stati Uniti: aveva intenzione di arricchire la propria figura professionale con un’esperienza oltreoceano. Quando comunicò questa decisione agli amici, tutti l’avevano incoraggiata. Solo lui era rimasto un po’ perplesso e aveva reagito con freddo sorriso.

Sapeva che avrebbe avuto davanti un lungo periodo di solitudine. «Hai tanti amici…» commentò Monica. «Non è la stessa cosa». Da allora erano trascorse alcune settimane: si erano comportati come se nulla fosse, evitando di affrontare il problema, ma il problema c’era e prima o poi lo si doveva affrontare. Lei viveva con l’eccitazione della partenza e lui con la speranza che si presentasse qualche contrattempo all’ultimo minuto. Ora mancavano due giorni e avevano deciso di arrampicare insieme un’ultima volta. Monica era un po’ tesa e non voleva aspettare: «Ce ne andiamo?». «Ancora due minuti, dai…». Si udì un’automobile salire lungo la strada che arrivava da Embrun ed erano proprio gli altri due.

Tenailles de Montbrison, via Renaud

Gilda si sporse dal finestrino per salutarli. Monica l’abbracciò. «Allora, com’è questo Verdon?», «Fantastico!».
«Duro…» precisò Marco, mostrando le dita consumate dall’arrampicata. I loro visi riflettevano la gioia di chi è stato per quattro giorni in Verdon. Quando arrampichi da quelle parti, la tua vita si confonde con l’arrampicata, finché diventa l’arrampicata stessa.

Quattro giorni così fanno bene a chiunque. Lui li invidiò un poco, ma ciò che desiderava di più era la mancanza di quella partenza imminente.
Per tagliare corto si rivolse a Marco: «Andiamo alle Tenailles?».
«Sul Renaud?». «Sul Renaud!».

Non restava che salire in macchina e imboccare la strada tortuosa che conduce nel vallone delle Tenailles.

«Pare che sia tutto spittato» osservò lui, risalendo la pietraia che conduce all’attacco della parete.
«Una volta era l’itinerario più difficile della zona, ora è la più facile della vie alla moda!» sottolineò Marco.
«Comunque fa curriculum» concluse lui. Si fermò un attimo, poi disse: «Giugno è un mese stupendo per il Briançonnais». «Giugno è stupendo dappertutto!» ribatté Monica.
«Anche in America?» gli scappò un sorrisetto sarcastico.

Tenailles de Montbrison, via Renaud

Ma non voleva dirlo e l’occhiata furente fu una punizione fin troppo severa. Le aveva promesso di non pensarci per quel giorno, ma ci sono cose più forti di noi e dobbiamo arrenderci prima o poi. Monica si fermò per riempire la borraccia al ruscello e restò distanziata. Lui si trovò a camminare a fianco di Marco e Gilda. «Allora, parte?» lo inquisirono. «Sembra che non ne possa fare a meno…».
«Ti dispiace?».
«Non so. Non la capisco: qui ha tutto, che cosa vuole di più?».
«Forse desidera realizzarsi professionalmente» intervenne Marco. «Anche tu coltivi ambizioni di lavoro, o sbaglio?».
«Ma che bisogno ha di andarsene per due anni…» sussurrò dispiaciuto. «Rinviate tutto?» incalzò Gilda.
«Certamente. Che senso avrebbe sposarsi e vivere a migliaia di chilometri l’uno dall’altra?».
«Ti costa?» Gilda corrucciò le ciglia preoccupata.
«Mah… Tanto, cosa cambierebbe?». Il discorso si interruppe poiché Monica li stava raggiungendo.

«Pensavo ci fosse ancora neve sulla pietraia» confessò Marco. Nonostante l’ora mattutina, il sole picchiava già e asciugava la tristezza. Alla base della parete, fu contento di dover arrampicare.

Agganciandosi l’imbragatura, guardò in su. Quando attacchi una via, sai che più in alto c’è il passaggio chiave e, se vuoi uscire dalla via, dovrai superarlo. Volle iniziare con la variante, un diedro atletico e ancora freddo, e se ne pentì, perché ebbe paura.

Ma già durante il tiro successivo, immerso in un bagno di sole, ritrovò la solita armonia. Tutto avveniva quasi meccanicamente: le mani andavano a pinzare gli appigli giusti, senza che dovesse sceglierli con gli occhi; i piedi, imprigionati in scarpette due numeri più strette, si fidavano degli appoggi senza esitazioni; il corpo, ben allungato sulla parete, si muoveva con balda eleganza. Alla sosta un lieve venticello gli rinfrescò le idee.

«Ti piace?» chiese a Marco.
«Difficoltà classiche» gli sorrise l’amico.
«Non è un disonore!».
«Non è più da curriculum!» ribatté l’altro.
– Che me ne faccio, oggi, del mio curriculum – pensò – Che mi servirà dopodomani, quando lei sarà partita?
Pensava questo e si distrasse un poco nel ricuperare la corda.

«Tieni bene!» lo rimproverò Monica dal basso. A metà del tiro successivo, lui sbagliò strada e Marco lo raggiunse. Arrampicarono paralleli per un po’.

«Così, niente matrimonio?» l’amico riprese il discorso.
«Niente matrimonio e niente bambini, visto che se ne va per due anni».
«A volte invidio mio padre» continuò Marco «Lui si è fatto la guerra, poi ha dedicato tutta la vita al lavoro. Pochi svaghi, molti sacrifici per tirare su i figli. Però sapeva in ogni istante che mia madre era a casa e lo stava aspettando». Agganciò un rinvio allo spit luccicante nel sole.

Tenailles de Montbrison, via Renaud , arrivo in vetta

«Noi viviamo nel consumismo, sprechiamo tempo e denaro per divertirci, ma abbiamo continuamente le spalle scoperte».
«Forse era più facile una volta» osservò lui. «Un uomo aveva solo l’obbligo di mantenere la famiglia. LA sua realizzazione professionale era sostenuta dall’impegno della moglie nella gestione familiare».

Attrezzando la sosta, Marco gli disse: «Oggi non è più così. Una ragazza vuole giocarsi le sue chanches anche nel lavoro: in termini di diritti personali, questo fenomeno è indiscutibile, ma sta disintegrando l’equilibrio precedente».
«Cosa possiamo farci?» rispose lui, ricuperando al corda «Anche se volessi impedirle di andar via, riuscirei ad impormi?».
«Non credere che sia facile per chi è sposato» confidò Marco «Quante volte torno dall’ufficio e trovo la casa vuota, perché lei lavora ancora! E a volte me ne esco a fare la spesa!». Poi urlò verso il basso: «Molla tuttooo!».
«Anch’io mollerei tutto!» sorrise amaro lui. Gli scappò a voce alta un pensiero: «Ormai ho capito che non bisogna dipendere da niente e da nessuno!».
Marco si sentì imbarazzato e pregò che Gilda arrivasse in fretta per poter ripartire. Così, senza neppure accorgersene, si trovarono in cima al primo torrione e, con una breve corda doppia, atterrarono sulla forcella.

«Lì a sinistra ci sono le doppie attrezzate per scendere all’attacco».
Ma il loro desiderio per quel giorno era di uscire in vetta.
«Me l’aspettavo più dura» confidò Monica alla base del secondo risalto. «Adesso viene il bello!».
«È questo l’ex tiro di artificiale?» si informò Gilda un po’ preoccupata.
«Non proprio questo: la fessura successiva. Vedi i chiodi?».
«Non tantissimi…».

Alla sosta sotto il tiro duro, scherzarono per allentare la tensione. Ma era inutile tergiversare, perché prima o poi di lì ci dovevano passare. Quando non si poteva più tardare, lui osservò: «I ragazzi devono fare certe cose, se vogliono crescere».
«Anche le ragazze!» commentò Monica con ironia.

Per non pensarci più, attaccò la fessura. Fu sorpreso dalla scarsità di spit: arrivò a un vecchio chiodo piantato male ed ebbe paura.
«Com’è?» gli chiese Marco dalla sosta.
«C’è un chiodo marcio. Terrà sì e no venti chili: non oso nemmeno appendermi!» Di colpo gli cadde addosso tutta la tensione delle ultime settimane: «ecco» si disse silenziosamente, «se io passassi qui senza esitazione, lei sarebbe orgogliosa di me e magari non sentirebbe la necessità di partire!» Era stupido pensare questo, ma lo pensò ugualmente. Per liberarsene, piazzò un buon eccentrico nella fessura e riprese ad arrampicare.

Il tiro è duro, soprattutto perché ci sono pochi spit e non si riesce a tirare da un chiodo all’altro. Ma è giusto così, perché se non riesci a passare con i tuoi mezzi, dovresti startene a casa. O andartene in America.

Uscì tutto sommato senza grossi problemi, ma fu sorpreso dalla facilità con la quale veniva su Marco. Si vedeva che aveva quattro giorni di Verdon nelle dita e, ancor di più, nella testa. «Il calcare è la roccia più bella che ci sia!» gli confidò l’amico.

«Un tempo preferivo il granito, con le sue lame affilate e i suoi diedri squadrati, ma adesso che sono allenato amo il calcare più di ogni altra cosa!».
«È la pietra più tecnica» osservò lui.
«È la pietra!» concluse Marco. Nonostante l’esaltazione, si fece sentire la stanchezza.

Nel tiro successivo c’era un passo corto, ma subdolo, e lui si appese ai chiodi: improvvisamente scoprì che la sua ferrea volontà poteva essere disintegrata da un piccolo problema. – Non deve capitare! – decise, e superò l’ostacolo.

Si ritrovarono tutti alla base del diedro fessurato. Il sole stava girando dietro lo spigolo e la parete si trovava già in ombra. Tuttavia l’atmosfera tersa della primavera faceva scintillare il calcare come fosse illuminato da mille bagliori.

Di colpo si sentì leggero e arrampicò senza paura lungo il diedro, afferrando con decisione la fessura di fondo.
Svoltando sullo spigolo, in uscita, si rituffò nel sole.
Guardò verso il basso: un corvo in stallo, le ali rigide come sciabole, si faceva trasportare dalla corrente d’aria.

Tutto gli apparve di una intensa immobilità: il blu profondo del cielo, il giallo accecante della nuova fioritura, il bianco abbagliante della roccia. Nulla si muoveva, finché Marco uscì dal diedro.
«Quante giornate così ci saranno in un anno?» gli chiese con affanno.
«Non più di cinque!» calcolò l’amico.
«E merita di vivere gli altri trecentosessanta giorni?» domandò lui con ansia crescente.
«Certamente, purché in quei cinque giorni ci sia sempre il calcare così bianco, il sole così caldo, l’aria così frizzante…».
«E la tua ragazza così bella» finì lui la frase. Ma improvvisamente scoprì che il calcare e il sole e l’aria frizzante valevano comunque. Non avrebbe senso starsene a casa. Raggiunse la vetta e fu contento: vide subito l’ancoraggio per la doppia e si assicurò. – Bene, è finita – pensò ricuperando la corda. Si guardò le mani. Non erano le stesse mani che avevano attaccato la via: stanche, sporche, doloranti, ma vive. Mani che avevano goduto del sole, del calcare, dell’aria frizzante. Mani dure, determinate, intense.

Eppure, alzando lo sguardo a catturare l’orizzonte, avvertì una sensazione di rammarico: era finita una via, ma soprattutto era finito un periodo e se ne apriva un altro. Non ci sarebbero più state le interminabili discussioni al telefono, ma neppure il piacere di arrampicare insieme.

D’ora in poi poteva disporre del suo tempo come meglio preferiva, senza lottare per tutelare i suoi spazi. Ma non c’era più nessuno cui appoggiarsi.

Non sapeva se i prossimi mesi sarebbero stati più duri o più sereni, ma sicuramente sarebbero stati diversi. E questo, in fondo, gli dispiaceva.

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Non più di cinque ultima modifica: 2019-06-12T05:43:49+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Non più di cinque”

  1. Davvero molto bello. Il dilemma esistenziale che segue la fatica dell’ascesa, i suoi anfratti, gli appigli che diventano pensieri, parole. Ma se la via alla fine si rivela e l’uomo la risolve, la cima la si raggiunge vuoti, perché la montagna ha una sua logica, ma i sogni degli altri sfuggono, senza appigli. 
    Tutti i miei complimenti. Sinceri.

  2. Questo racconto fa parte di una prima tornata di miei testi di fiction scritti nel periodo ’90-95 circa. Poi lavoro e figli piccoli mi hanno assorbito inaridendo anche la vena artistica. Quest’ultima é però riemersa verso il 2010: ho ripreso i racconti del ’90 e ne ho scritti di nuovi assemblando una raccolta pubblicata da Vivalda con il titolo La Mangiatrice di uomini (esaurito, mi han detto che si trova usato su internet). Seguiranno alcuni romanzi, sempre con lo sfondo della montagna. Fra questi il più noto si intitola Chiamami Jack e il Blog ha ospitato una sua recensione. Il denominatore comune dei miei testi di fiction è che ho prelevato episodi, emozioni, personaggi dalle mie giornate in montagna, ma li ho mescolati all’interno di trame completamente di fantasia con un tema ideologico che fa da architrave del testo. Non sono testi autobiografici in senso stretto. Non sarebbero fiction. Per cui non si sa com’è andata a finire la vicenda delle Tenailles. Quello che è storicamente rilevante è che già negli anni ’90 ero giunto ad affrontare temi in anticipo sulla loro successiva evoluzione sociologica. Qui si tratta dall’esigenza di indipendenza delle “nuove donne”, in altri testi ho previsto l’invasione dei telefonini anche nelle giornate in montagna oppute la difficoltà del maschio moderno a rapportarsi con i nuovi equilubri familiari, politici e sociali.

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