Paolo Rossi aveva 64 anni ed era uno dei calciatori italiani più famosi di sempre, campione del mondo, miglior marcatore dei Mondiali del 1982 e Pallone d’Oro nello stesso anno.
Pablito, il guizzo dei miei vent’anni
di Carlo Crovella
Tutto vola via. E’ l’inevitabilità della vita e, per quanto stia sotto gli occhi di ciascuno di noi, ogni volta che una farfalla viene ghermita dal vento, ci colpisce una stilettata al cuore. Neppure Pablito poteva durare per sempre. Lui che accompagnò i nostri sussulti sudati nell’estate torrida dell’82: le paure di inizio partita, la tensione, la liberazione finale. Perfino nell’austera Torino ci scatenammo in danze collettive. Anche un sabaudo come me fu travolto dall’entusiasmo collettivo a fare bagno vestito nella fontana di fronte alla stazione di Porta Nuova.
Era solo delirio calcistico? Evidentemente no. C’era, in tutti noi poco più che ventenni, l’affacciarsi alla vita, alla vita vera. Anche noi stavamo lasciando la panchina per scendere davvero in campo, giocarcela fino in fondo e poter gabbare i mostri sacri, calcisticamente rappresentati da brasiliani, argentini e tedeschi.
Pablito non era un centravanti muscolare, di stazza, alla Boninsegna: era un guizzo che si intrufolava fra i marcantoni delle difese avversarie e rapinava il gol con destrezza tipicamente italica. Era l’ambizione, in noi ventenni, di poterci mangiare in insalata i senatori che, nella vita vera (in ufficio, in famiglia, nelle istituzioni) occupavano le poltrone da decenni.
Questo fu Pablito: il soffio vitale, l’entusiasmo scatenato, l’illusione di poter cambiare il mondo. Che poi sia il mondo a cambiare gli uomini è legge altrettanto atavica. L’esistenza ti pialla, ti ingabbia, ti soffoca. Pablito, inutile negarlo, non fu più il guizzo del Mundial ’82: nella routine del campionato a squadre, hanno la meglio gli schemi, gli ordini di scuderia, le mansioni tattiche. Il genio, l’improvvisazione, l’istinto scivolano ai margini, partita dopo partita. Infatti la Juventus dei trionfi ’82-85 è nota come la squadra di Platini, non quella di Rossi.
Resta il mito di qualcosa che non si è mai più concretizzato, nell’esistenza generale come nella vita di chi, ai primi anni ottanta, aveva i famosi vent’anni che non tornano più. E’ questo che ci manca davvero.
Cerco di aggiungere due piccoli aneddoti alla mole di parole che si sprecheranno sui media nei prossimi giorni. Due episodi utili per collocare storicamente l’epopea del momento e anche per lasciarsi andare ad un lieve sorriso.
Nell’agosto successivo al Mundial spagnolo, alcuni amici realizzarono un viaggio molto avventuroso fra Cina e Mongolia. Erano tempi in cui non era facile muoversi da quelle parti. A bordo di fuoristrada stile deserto, un giorno giunsero al confine con la Mongolia: baracca in legno, sbarra abbassata, arcigni soldati in divisa con tanto di fucile spianato. Timorosi, gli amici consegnarono i passaporti italiani. Il viso della guardia si illuminò immediatamente:
“Italia? Paolo Rossi!”. La sbarra fu immediatamente alzata.
Non lo sapevamo ancora, ma era l’inizio della globalizzazione: un nome, un solo nome, girava per l’intero pianeta e sintetizzava l’Italia. Se eri connazionale di Pablito, non eri pericoloso: portavi allegria e talento.
Per comprendere appieno il secondo aneddoto, occorre ricordare che quelli erano gli anni delle barzellette a danno dei carabinieri: li si sfotteva facendo fare la figura dei salami, diciamo così.
Ma l’episodio pare esser accaduto davvero, è stato raccontato da un altro Paolo Rossi, l’attore cabarettista, all’anagrafe perfettamente omonimo con Pablito. Disse che nelle settimane successive al Mundial, correva a velocità folle in auto e in fu fermato da una pattuglia di carabinieri, fermi dietro a una curva.
Classica domanda: “Favorisca patente e libretto.”
Consegnò diligentemente i documenti e il militare, perplesso, spostò più volte lo sguardo dalla patente al viso dell’attore.
Infine chiese: “Ma… siete fratelli?”
Pablito, la tua sintesi era un guizzo: facci sognare ancora (Carlo Crovella).
E’ morto Paolo Rossi
Redazionale de ilpost.it del 10 dicembre 2020
Paolo Rossi, ex calciatore, campione del mondo nel 1982 e terzo Pallone d’Oro nella storia del calcio italiano, è morto mercoledì 9 dicembre a 64 anni. La notizia della morte è stata data dalla moglie, la giornalista Federica Cappelletti. Secondo la Gazzetta dello Sport, aveva un tumore ai polmoni. Nato a Prato nel 1956, Rossi si guadagnò notorietà e affetto dei tifosi italiani in special modo durante i Mondiali in Spagna del 1982 vinti con la Nazionale allenata da Enzo Bearzot. Pochi mesi dopo divenne inoltre il terzo italiano a vincere un Pallone d’Oro, dopo Gianni Rivera e Omar Sivori.Rossi iniziò a giocare a calcio nella squadra di una piccola frazione di Prato e nel 1972, dopo essersi fatto notare a livello locale, venne comprato dalla Juventus. Restò nelle giovanili della Juventus per due anni, poi andò in prestito per un breve periodo al Como. Nella stagione seguente venne comprato in compartecipazione (metà cartellino di una squadra, metà dell’altra) dal Lanerossi Vicenza: nelle quattro stagioni passate in Veneto si affermò come uno degli attaccanti italiani più forti della sua generazione.
Fu l’allenatore del Lanerossi, Giovanni Battista Fabbri, a cambiargli ruolo per sfruttare meglio le sue caratteristiche. Da ala — praticamente l’unico ruolo in cui venivano fatti giocare i più gracili — venne trasformato in attaccante, ruolo in cui riuscì a sopperire al suo fisico nella media con velocità e abilità nei movimenti senza palla. Segnò una sessantina di gol in poco più di novanta presenze, e nel suo secondo anno il Lanerossi arrivò secondo in campionato. Rossi fu quindi convocato dal commissario tecnico Bearzot per i Mondiali del 1978. Nei mesi successivi l’allora presidente del Vicenza, Giuseppe Farina, dovette sforzarsi per non farlo riprendere dalla Juventus: per la sua cessione chiese 2 miliardi e 600 milioni di lire, somma che creò un certo scalpore nell’opinione pubblica dell’epoca.
Al termine dei quattro anni passati a Vicenza, Rossi si trasferì al Perugia, il cui presidente, Franco D’Attoma, per attutire i 500 milioni a stagione pagati al Lanerossi per il suo prestito biennale, introdusse per la prima volta lo sponsor su una maglia di una squadra di calcio italiana. D’Attoma concesse al pastificio locale “Ponte” un rettangolo di una decina di centimetri di larghezza all’altezza del petto, per cui si fece pagare circa 400 milioni di lire. Rossi restò a Perugia per una stagione soltanto, in cui segnò tredici gol tra campionato e coppe.
Nel 1980 la carriera di Paolo Rossi si interruppe per due anni a causa dello scandalo del “Totonero”, per il quale non giocò l’Europeo del 1980: venne accusato di aver concordato il pareggio di Avellino-Perugia nella stagione 1979/1980 e fu successivamente squalificato per due anni, ma si dichiarò sempre innocente. Disse di aver incontrato due persone nell’hotel in cui si trovava in ritiro con il Perugia prima della partita contro l’Avellino, ma di averle lasciate subito dopo aver capito le loro intenzioni. Nonostante la squalifica, per volontà del presidente Giampiero Boniperti la Juventus lo acquistò comunque. Rossi si allenò con la squadra per due anni, senza giocare, in vista del ritorno in campo previsto per la fine di aprile del 1982, a pochi mesi dai Mondiali. Il 15 maggio 1981, tuttavia, Rossi si prese un altro mese di squalifica per aver definito il processo sportivo che l’aveva giudicato “una buffonata”.
La commissione d’appello federale accolse il ricorso di Rossi e lo fece tornare in campo alla fine della stagione 1981/82, in tempo per disputare le ultime partite di campionato. Nella sua prima partita dopo la squalifica, Rossi segnò subito contro l’Udinese e poi fece in tempo a giocarne altre due. Il commissario tecnico Enzo Bearzot decise comunque di convocarlo per i Mondiali del 1982, escludendo giocatori apparentemente più in forma come Roberto Pruzzo della Roma, che quell’anno aveva segnato quindici gol, nonostante Rossi non giocasse da due anni. Bearzot si attirò molte critiche, che aumentarono quando Rossi giocò male le prime tre partite. Nella seconda fase del torneo, però, le prestazioni di Rossi cambiarono completamente.
Rossi segnò addirittura una tripletta nell’ultima partita della seconda fase a gruppi contro il Brasile, che era favorito, giocava benissimo e aveva un centrocampo formato da campioni come Zico, Falcao e Socrates. L’Italia riuscì a batterlo in una delle partite più belle nella storia dei Mondiali di calcio, e Rossi dopo la partita contro il Brasile divenne noto come Pablito, soprannome che gli era stato dato ai Mondiali del 1978. Rossi segnò ancora due gol nella semifinale contro la Polonia e un gol nella finale di Madrid vinta contro la Germania Ovest. Finì il Mondiale da capocannoniere con sei reti.
Dopo tutto quello che successe agli inizi degli anni Ottanta, Rossi continuò a segnare e a vincere con la Juventus e nel 1983 gli fu assegnato il Pallone d’Oro. Si ritirò dal calcio nel 1987, dopo aver giocato un anno per il Milan — dove ritrovò il presidente Giuseppe Farina — e l’ultimo della sua carriera con l’Hellas Verona. Dopodiché fece televisione e recitò in diverse pubblicità. Divenne opinionista nei programmi sportivi tra Rai, Mediaset e Sky, frequentati fino a poco tempo fa. Scrisse due libri: un’autobiografia intitolata “Ho fatto piangere il Brasile” e “1982. Il mio mitico mondiale” scritto insieme alla seconda moglie.
Leggi anche: I gol di Rossi ai Mondiali di Spagna
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L’episodio narrato da Carlo in merito alla Duetto rossa di Rossi è relativo ad un’epoca in cui i rapporti fra società e calciatori erano molto diversi rispetto agli attuali, almeno in Italia.
Nel 1981 i calciatori professionisti iniziarono ad essere progressivamente svincolati per fasce d’età e tale procedura andò avanti fino al 1985/86 (se non ricordo male). In seguito acquisirono lo status di lavoratori dipendenti.
Con lo svincolo cambiò tutto, prima la società poteva fare ciò che voleva e questo spiega in parte il motivo per il quale molti nascevano e morivano (in senso sportivo) nella stessa squadra.
Oggi il calciatore, sempre che se lo possa permettere, tratta col migliore offerente e in aggiunta può incassare vagonate di soldi dalla pubblicità.
Il mondo del pallone vive una situazione assurda e in più di un’occasione è stato salvato da leggi ad hoc. Personalmente sarei per gestire le cose come negli Stati Uniti dove le società sono delle aziende che stanno sul mercato fino a quando rispettano le regole di mercato.
Penso che la storia della Duetto rossa vada letta anche nell’ottica di quel periodo di transizione, in cui i presidenti potevano ancora permettersi di fare i padroni delle ferriere. Oggi non è che comandino i calciatori ma sicuramente il rapporto è più paritario.
Ero in servizio come ufficiale nel Battaglione Alpini Bassano a S.Candido in Val Pusteria e durante il mondiale ’82 il mio reparto era impegnato sulle Apuane. Facendo una colletta di 1000 lire ciascuno, la mia Compagnia si comprò una TV in bianco e nero che la sera al campo collegavamo alla batteria di un camion per vedere le partite. Il giorno seguente la finale in cui battemmo la Germania rientravamo alla base con una lunga autocolonna di mezzi militari e gli alpini seduti nei cassoni all’aperto, appena vedevano un’auto con targa tedesca sull’autostrada, si tiravano giù i pantaloni mostrando tutti insieme il culo. Il nostro Colonnello aveva dato ordine a tutti i comandanti di reprimere ogni comportamento scorretto della truppa, ma, visto l’entusiasmo, tutti chiudemmo un occhio.
Proprio in queste ore sono venuto a conoscenza di un altro aneddoto, molto sintomatico su una “certo” modo di approcciare la vita, un modo davvero molto torinese. Lo racconta Domenico Marocchino che fu compagno di Rossi alla Juventus. Quando Pablito era tornato dal mondiale, si presentò ad una serata in trattoria con i compagni bianconeri al volante di una rombante Duetto rossa splendente, uno spider un po’ da fighetto per gli standard sabaudi e troppo appariscente per il colore acceso. Marocchino gli chiese dove l’avesse presa e Rossi rispose che gliela avevano regalata come premio per esser stato il capocannoniere del Mondiale. Ma lo stesso Rossi si affrettò a dire all’amico: “Vedrai che, tempo una settimana, Boniperti mi convoca in sede e mi dice di restituirla”. Va ricordato che Boniperti era il Presidente della Juventus in quel periodo. Infatti, qualche giorno dopo Rossi si ripresento’ agli amici con la sua solita auto, un’auto “normale”, e fece un sorrisetto a Marocchino, come per dirgli “te l’avevo detto”. Era tutto un altro mondo. Oggi, invece, pare che Cristiano Ronaldo abbia una vera scuderia di auto sportive e di lusso: Jaguar, Porsche, Ferrari, Bentley… È cambiato tutto e un velo di nostalgia è comprensibile, no?
Il successo di tanti italiani: la memoria straordinariamente corta di moltissimi altri italiani. E non solo.
Per noi subalpini, l’eccezionalità di quell’estate ’82 fu che anche l’austera Torino venne travolta da un “delirio” collettivo, inusuale per noi ligi sabaudi. Il fenomeno coinvolse anche me, seppur nelle sole serate post partita (contro Brasile e Germania). Forse in tale eccezionalità consiste il senso di nostalgia collegato a Pablito. Però la mia vita si è sviluppata altrove, nell’applicazione sistematica, nella serietà, nella sistematicità ideologica. Non si può piacere a tutti, ma d’altra parte (come ho sempre ripetuto) non rincorro il consenso: mi limito a esprimere la mia personalità, qualunque essa sia. Spesso è molteplice e sfaccettata: alcuni mi considerano un ingegnere, altri un poeta. Dipende dal risvolto della mia persona che hanno conosciuto. Ciao!
Una domanda: il Carlo Crovella che si butta vestito nella fontana è davvero lo stesso Crovella che, austero e integerrimo, ci ammonisce dalle pagine del GognaBlog?
Eh, come si cambia!
… … …
Carlo, ti preferisci nella versione “Crovella 1” o nella versione “Crovella 2”? Confessa: la versione dentro la fontana è piú gioiosa, piú scanzonata, piú anarchica, piú libera e selvaggia.
Come disse il filosofo Gianni Vattimo: “Potessi ritornare a quei giorni – poche storie! – darei via tutto il Pensiero Debole”.
L’interpretazione della realtà, così come la valutazione delle tesi altrui, risente sempre di una profonda valutazione soggettiva: occorre fare la tara a tutti, sia su un lato che sull’altro. E’ legittimo esprimere la propria opinione sui testi altrui, sarebbe opportuno però verificare preventivamente le esperienze effettive di scrive.
A Torino, dove non siamo certo “poco avvezzi” ai successi calcistici, non si erano mai visti (e non si sono mai più visti in seguito) episodi di delirio collettivo come nelle serate del Mundial ’82. Di quel Mundial, il guizzo di Pablito incarnava la sintesi e la destrezza italica. Un qualcosa di magico e di irripetibile.
In molti di quelli che avevano vent’anni quarant’anni fa, quel guizzo è rimasto iconico nella mente, a suo modo ha segnato l’esistenza. Ora che quel guizzo si è involato, ci sentiamo un po’ più vecchi. Non ho detto che “siamo” un po’ più vecchi, ma che ci “sentiamo” un po’ più vecchi. La mole di parole che hanno invaso i media in questi giorni (spesso a sproposito, questo lo condivido) interpreta questi particolari sentimenti, evidentemente molto diffusi, non solo a Torino.
Non ho remore a credere che ci siano anche numerosi individui che non hanno emotivamente vissuto né l’estasi dell’82, né la nostalgia di oggi. Sono dispiaciuto per loro, non sanno proprio che cosa si sono persi. La vita guizza in attimi emozionali, occorre coglierli al volo così come Pablito, in una frazione di secondo, sapeva prendere il tempo ai difensori. E poi sorrideva e correva felice con le braccia alzate.
4) Lorenzo
Hai ragione però c’è narrazione e narrazione. Un conto è raccontare fatti ed eventi, magari con un pizzico d’esagerazione, e un altro trarre conclusioni abborracciate.
“…la storia viene scritta dai vincitori allo stesso modo chi con la penna se la cava meglio…”
Ma Antonio nella storia cosa è senza narrazione.
Neppure la scienza la può eludere. Essa, come tutto, deriva da inclinazioni personali che sono a loro volta un’impiallacciatura di se stessi su una narrazione spesso inconsapevole di una presunta realtà.
Non c’è che consuetudine e suggestione. Il resto è impostura.
“Neppure Pablito poteva durare per sempre. “
Povero Paolo lui è durato pochino però…
Qui il link dell’altro Paolo:
https://www.youtube.com/watch?v=CE-qyDi6dSs
A me pare che ogni occasione sia buona per scrivere di tutto e di più.
In questi giorni si legge di ogni, con esercizi intellettuali per collegare Paolo Rossi, la vittoria ai mondiali dell’82 e la folle notte che ne seguì. Sono stati scomodati gli anni di piombo che vengono scomodati per qualunque evento risalente agli anni 70/80.
Il mondo è bello perché è vario ma come la storia viene scritta dai vincitori allo stesso modo chi con la penna se la cava meglio infarcisce la storia con condimenti che ha assaggiato solo lui.
Io nel 1982 avevo 20 anni e stavo facendo il militare al distretto di Como dove si svolgeva una evidente gara a chi faceva più giorni di licenza. Svettavano due nomi mitici e pressoché irraggiungibili i quali si diceva avessero fatto 180 e passa giorni a casa (che poi dipendeva anche da come i giorni venivano contati, per es. io contavo solo i giorni pieni e non le mezze giornate utilizzate per il viaggio in treno).
In occasione della finale riuscii a spuntare un 3 + 1 perché, in caso di vittoria (come poi fu), non volevo passare la domenica notte sull’allucinante treno delle 2,01 proveniente da Napoli e stracolmo di pendolari.
Perché l’Italia intera scese in piazza? Beh, non credo si debba ricercare chissà che cosa, semplicemente il calcio è lo sport nazionale, non vincevamo dal 1938 e da allora fino al 1970 avevamo sempre preso delle gran batoste culminate con l’eliminazione vergognosa del 1966. D’altronde in piazza si era scesi anche dopo Italia-Germania di 12 anni prima.
Tutto il resto, per me e per la quasi totalità delle persone che conoscevo (e all’epoca non erano certo poche), era e continua ad essere aria fritta.
Ciò detto sono molto dispiciuto per Paolo Rossi che ho sempre reputato una persona esemplare.
Ho dei lontani cugini a Potosi: Eugenio Hochhkofler, cugino del mio bisnonno paterno Giovanni Martino, dopo un viaggio avventuroso da Trieste dove allora, emigrati dalla Carinzia risiedevano (Giacomo il padre di mio bisnonno emigro a Venezia) Nel mio viaggio a Potosi nel 2014 per riannodare i rapporti con loro ho saputo che la figlia di mio cugino Gualberto Hochkofler si chiama Paola come una mia sorella che vive a Verona. La moglie di Gualberto, incinta durante il mondiale del 1982, si era innamorata di Paolo Rossi. Cosi c’è una Paola Hochkofler in Bolivia, architetta a La Paz. In spagnolo il femminile di Pablo è Paula non Paola.