Metadiario – 61 – Il mio grande viaggio in Asia – 5 – Lhotse 1 (AG 1975-003)
Era la sera del 19 marzo 1975: nel primo pomeriggio eravamo partiti da Lukla. Stavo scrivendo una cartolina immerso nel saccopiuma, mentre la tenda ondeggiava e sembrava che mi si chiudesse sopra; dietro, lente volute di fumo facevano l’aria grigia e densa; il focolare non era lontano e i bambini schiamazzavano felici. Ridevano, tiravano su con il naso, ti guardavano con due occhioni, le sole finestre in un’incredibile sporcizia e nero fumo. Phakding Khola è una piccola radura sulla destra del torrente e il rumore era smorzato dal terrapieno naturale. L’erba era gialliccia, non si era ancora risollevata dall’inverno, in compenso si vedevano già il bianco delle camelie e il rosso dei rododendri: solo qualche macchia, ma tra un mese sarebbe stata un’esplosione di colore e di profumo. Gli sherpa conversavano con il loro linguaggio a scatti, ben provvisto di variazioni di tono e le risate erano colpi di fucile. Qualche stentato prato si arrampicava fino ai pini, lì folti: si vedevano appena le scure forme delle montagne rocciose che sorvegliano la valle. Le nubi nascondevano le cime.
Il 20 marzo raggiungemmo la confusione di Namche Bazar 3440 m, ultimo vero grande centro prima dei villaggi verso l’Everest. I materiali non stavano viaggiando tutti assieme, molti colli erano ancora a Kathmandu. C’erano parecchie cose da fare per gestire quel traffico. Il 22 salimmo a Khumjung e a Khumde dove il grande Edmund Hillary si era fatto promotore per la costruzione di un ospedale, al momento l’unico in tutta la regione del Khumbu. Visitammo l’Albergo dei Giapponesi, a 3800 metri in posizione molto panoramica: una tipica costruzione con muri a secco, piuttosto bassa, larga e nascosta che non deturpava per niente il paesaggio.
Suddivisi in gruppetti a nostro piacimento facemmo la lunga traversata che alterna salite a discese, con il Lhotse sullo sfondo, impressionante per la sua imponenza. Ci abbassammo sino all’Imja Khola che corre con le sue acque limpide e fredde e più avanti, in località Phunki, a quota 3250 m, sotto la ripidissima rampa che porta a Tengpoche, trovammo un posto per ristorarci un poco.
Dopo aver in breve tempo superato i 600 metri che ancora mancavano, rivisitai con gli altri il gompa (monastero) di Tengpoche 3867 m che ospitava cinque o sei lama.
Scovati i due lama con la chiave, ci facemmo aprire il piano superiore. Per quello inferiore ci voleva un’altra chiave. L’abbiamo chiesta. Nel frattempo era arrivato un lama nuovo che era salito al piano superiore e si era messo a suonare il tamburo. Non ci permettevano di assistere. In compenso vedevamo disegni, muffa, polvere, buio, puzza. Il lama con le scarpe da tennis e la giacca a vento gialla, noi che stavamo attenti a non scontrare niente nel buio, interrotto solo dai colpi sordi del tamburo che ci era negato, senza inciampare, svergolando la testa sotto alle porte, strusciando le giacche imbottite sugli spigoli di quel rancido monastero, dove tutti erano decrepiti, anche noi, officiando a due fedi diverse.
Lì ci fermammo anche il giorno dopo, sia per questioni logistiche che per l’acclimatamento. Ripartimmo il 24. I nostri medicinali non erano ancora arrivati e diversi di noi accusavano raffreddore e tosse. Cassin si consultò con il medico Franco Chierego che, giustamente, asserì che partire senza medicine era un rischio; Gugiatti ritornò allora a Namche con due portatori a prelevare l’occorrente.
Camminando assieme a Reinhold giungemmo a Pangpoche, nei pressi del gompa. Si udivano dei colpi sordi e ritmati, ma non era un mulino; era un lama che pregava. Una ragazza ci osservava in silenzio, il grembiule a righe leggermente più avanzato (dava l’impressione) degli occhi e del seno, compresso dalla stoffa nera.
– Lama? – additando la casa dalla quale provenivano i suoni. Cenno di testa affermativo. Ci alzammo di una ventina di metri. Un primo portello conduceva dentro al recinto stretto. I colpi e la nenia si avvicinavano. Spingemmo delicatamente la porta della stalla, nel buio non riuscimmo a vedere subito la scala di legno che in breve ci portò al piano di sopra. Facemmo piano, mi sporsi con cautela, una figura era china sul libro delle preghiere, dai caratteri un po’ piccoli. Il volto circondato da un rado pizzetto e da capelli bianchi era teso sul collo nello sforzo della lettura. La mano sinistra sfogliava il librone, la destra impugnava un bastone curvo, imbottito all’estremità, e colpiva ritmicamente un tamburo appeso.
– Namastè!
– Namastè. La preghiera e la percussione cessarono di colpo. Ci aggirammo nella stanza, una finestra la illuminava dal di dietro. Dal soffitto pendevano trecce di polvere, stalattiti che ci accarezzavano i capelli. Tutto si disfaceva, si disgregava, non c’era più durata. Reinhold frugò nei cassetti, il vecchio protestò debolmente mentre io lo fotografavo. Ma la ricerca naufragò nella muffa e nel disuso. Alla fine gli capitò in mano un campanello.
– This, ou! Rupees? (questo, ou, rupie?) – diceva Reinhold.
Proteste del lama, non si vende, non si vende!
– Carpets, eh? Carpets? (tappeti?) – dicevo io.
Sequela di borbottii incomprensibili, con gesti inequivocabili al riguardo della propria povertà francescana. Non rimaneva che fotografarlo mentre suonava e recitava. Reinhold si piazzò.
– Ou! Tum, tum, eh? OK?
Il vecchio fece capire che gli avevamo frugato in tutta la casa, che lui stava pregando e che non aveva niente e che aveva bisogno del nostro aiuto. Gli demmo una rupia, la guardò, sembrava che gli andasse bene.
– Però adesso ti lasci fotografare e fai il bravo…
Fece cenno che ne voleva un’altra perché eravamo in due. Lo accontentammo. Assolte le pratiche, con le dita magre cercò il segno perso e poi riprese a colpire il tamburo (il primo colpo lo sbagliò). Scattarono le foto, ma volevamo il volto illuminato, non solo i capelli, così gli spostammo il librone costringendolo a girarsi, gli posammo il campanello vicino; lui credette che volessimo che lo suonasse, lo prese in mano e lo suonò ma non a tempo con le parole e il tamburo… poi se ne accorse.
– Ou, ehi! E girati! Ou, ou, ou!
Ma il vecchio era tutto preso, ormai ci aveva dimenticati e non rispose al nostro namastè.
Poco oltre Pangpoche, in località Tsuro Og, visitammo la tomba di Paolo Consiglio, deceduto laggiù due anni prima. Peccato che il cielo fosse sempre coperto e le cime avvolte nella nebbia; più tardi incominciò a nevicare e verso le ore 18 tutto era bianco. Ci accampammo vicino a un cascinale su un pianoro a 4410 metri di altezza e al risveglio trovammo 10 centimetri di neve. Ogni progressione era esclusa.
Reinhold ne approfittò per lavorare a un libro che stava scrivendo sulle popolazioni montanare.
– Cosa scrivi sulla gente della tua valle? – gli chiese Barbacetto.
– Il libro tratta in generale della gente di montagna – rispose Reinhold.
– Ma cosa scrivi? – insistei io.
– Sui popoli della terra (Bervolken der Erde).
– Ma sulla tua valle niente in particolare?
– Beh, per quella non ho problemi… ci ho vissuto per vent’anni…
– Già, io avrei problemi a scrivere proprio di quella!
Nevicò tutto il giorno e solo il mattino successivo, verso le 11, le nubi incominciarono a diradarsi e le cime a scoprirsi. Ne approfittai il giorno dopo, 26 marzo, per salire da solo fino a quota 5065 m, sotto all’Ama Dablam. E nonostante la limpida giornata, anche il 27 marzo fummo forzatamente fermi ad attendere i materiali e i bagagli.
La sosta forzata lasciò trasparire i primi nervosismi: ai più esagitati sembrava che gli sherpa fossero dei pelandroni. Ricordo molto bene un piccolo episodio. Il medico Franco Chierego, avanzato un po’ di cibo dal suo piatto, si alzò dal tavolo, uscì al tendone e diede gli avanzi a un cane che si aggirava nel campo.
– Toh, prendi…! Tu almeno servi a qualcosa – esclamò di fronte agli sherpa.
Il 28 finalmente ci movemmo alla volta di Chukhung 4735 m. Scorgemmo il Lhotse: la parete era molto secca, davvero impressionante. Cassin ci disse che nella ricognizione dell’aprile precedente non l’aveva mai vista così perché nevicava quasi tutti i giorni; anche nell’ottobre seguente, in occasione della ricognizione aerea, la parete non era così nera.
I portatori dovevano essere pagati ugualmente anche se stavano fermi e allora, dopo alcune esitazioni, Cassin decise di non fermarci oltre e di avviarci verso il campo base a 5300 m.
La località scelta allo scopo era magnifica e posta su un’ansa morenica. Alla spicciolata arrivarono tutti. Era il 29 marzo. Chierego, debole e sofferente, arrivò per ultimo. Lo facemmo entrare subito in tenda e sorseggiare un poco di tè perché non aveva voglia di mangiare.
Ci sistemammo alla meglio, ci rifocillammo e ci ritirammo nelle tende. Chierego non stava bene; ci preoccupava anche perché di notte fu preso da continue nausee e vomiti. Il giorno dopo, somministratogli dell’ossigeno e non vedendo alcun miglioramento, fu deciso di evacuarlo. Il 31, con una barella improvvisata (poiché quelle in dotazione non erano ancora giunte), il poveretto fu trasportato a Dingpoche, dove sapevamo che c’era un medico della spedizione anglo-nepalese alla parete sud del Nuptse: un viaggio assai difficoltoso per la neve fresca. Chierego aveva salutato l’amico Cassin con questa frase: “Va in mona, Riccardo!”.
Portato poi all’ospedale di Kathmandu, rientrerà dopo diversi giorni in Italia. Per accompagnarlo scesero Piussi, i due Alippi e Mario Conti, anche quest’ultimo colpito da una forte costipazione e infiammazione bronchiale.
Quando Piussi tornò da Kathmandu ci raccontò la dimissione di Franco dall’ospedale:
– Laxame far ginnastica, dio c… lu ride, eh, contento lu… ma mi no che no so contento, porca m…!
Col permesso del medico curante, andarono poi a cena allo Yak and Yeti (il miglior ristorante di Kathmandu). Piussi lo sorreggeva.
– Ecco, sono arrivati due ubbriachi – disse Franco ai camerieri. E poi: – Ehi, g’ho fam, dio c…!
– Sta bon, sta calm…!
– G’ho fam!
Si fece un primo boccone di burro, caviale e vodka.
– Bon, dio c…!
Ma, terminata la cena:
– Me par de no respirar, dio c…!
– Stai male, Franco?
– Cosse t’interessa… Taxi, mona!
Fino al campo 2
Il 30 marzo ci fu modo di osservare il comportamento della parete. La neve fresca si stava rapidamente sciogliendo, cadevano parecchio materiale, inghiottito poi dalla crepaccia terminale. Dunque la muraglia, contrariamente al previsto, era anche pericolosamente insidiosa! Cominciammo a discutere l’eventualità di cambiare la via da seguire perché il tentare l’itinerario che ci eravamo prefissi, in quelle condizioni, poteva essere un vero suicidio. La via tentata dai giapponesi nel 1973 era di certo un’alternativa, anche se questa comportava, raggiunta la cresta, una marcia di tre km a 7500 m nel versante settentrionale (Cwm) per raggiungere il canalone della via normale e la vetta.
L’unico ad avere una fede incrollabile (con sincera incoscienza) nel suo progetto era proprio il vecchio Riccardo. Di nascosto, avevamo chiamato la sua via diretta “Ricky Pfeiler” (il Pilastro Riccardo)… Cambiò idea forzatamente solo dopo l’assemblea generale del 31 marzo.
Ma in ogni caso l’atmosfera tra di noi era ottima. Trovavo particolare benessere a parlare un po’ con uno e un po’ con l’altro, senza esclusioni, senza divisione di fatti e di idee, senza trovare un particolare rifugio in alcuni, come purtroppo mi era successo all’Annapurna. Curnis, da buon bergamasco, era una miniera di aneddoti e battute. Anche Piussi, da buon furlan era uno spasso unico. Gli sherpa per il momento non avevano mostrato di valere un gran che, ma alcuni elementi promettevano bene. Se non altro avevano smesso di bere rakscì, visto che al campo base non c’erano più locande. L’ufficiale di collegamento era una vera spugna, perennemente alticcio. Una volta, tra lui e noi, ci fu una lite spaventosa. Era pieno di rhum e pretendeva che uno di noi avesse fatto un acquisto proibito in un monastero (una tangka e un libro di preghiere). Io avevo la coscienza pulita, con i soldi di Ignazio avevo comprato due bei tappeti tibetani. Il primo, preso a Namche dalla madre del nostro sirdar dell’Annapurna, Ang Norbu, era un motivo floreo-alberale antico che mi conquistò subito (1000 rupie). Il secondo, sempre acquistato a Namche, assomigliava ai motivi Yarkand (450 rupie). Entrambi li ho lasciati in deposito a Namche in casa di Mr. Naati Chotare, il nostro ufficiale di collegamento. Questo era salito in cima all’Everest con i giapponesi nel 1970. Anche Piussi aveva comprato due tappeti.
Quell’acquisto fu molto importante: ero quasi sicuro che sarebbero piaciuti anche a Nella, ma nello stesso tempo temevo un po’ il suo giudizio. E poi li avevo comprati io! Io, che fino a pochi mesi prima non sapevo neppure cosa fosse un tappeto! Potevano essere anche un mio regalo… a lei, che non c’era.
Intanto ci stavamo preparando per la prima ricognizione su quello che ritenevamo essere l’unico punto vulnerabile, la via già individuata due anni prima dai giapponesi. La loro era una spedizione (della Japanese Kanagawa Mountaineering Federation) di nove alpinisti capeggiati da Ryohei Uchida con il supporto di Mitsuo Hiroshima e Maruhisa Sunagawa. Due di loro l’8 maggio 1973 avevano raggiunto una quota di poco più di 7000 m. Il leader aveva giustificato il fallimento attribuendolo alle piccole dimensioni della spedizione e anche un po’ all’inesperienza sulle grandi pareti himalayane. Avevano solo cinque sherpa, nessuno dei quali salì mai in parete.
Al campo base la sera del 31 marzo il dialogo ci portò, prima di andare a dormire, a parlare di Paul Preuss. Fu citato perché quel grande aveva detto che “occorre sempre stare al di sotto delle proprie possibilità. Dunque era inutile tentare la diretta che nessuno di noi riteneva possibile.
Il mattino del 1° aprile partii con Reinhold, Mario Curnis, Aldino e due sherpa per la prima ricognizione sul lungo crestone che portava a un enorme ghiacciaio pensile. Cassin, che non si dava ancora per vinto, cercò assieme a Franco Gugiatti di trovare un punto di osservazione per capire meglio se la via diretta era proprio impossibile. Riccardo, assistendo alle continue slavine, convenne che il piazzamento dei campi, specialmente nella parte bassa, era molto azzardato. Già in mattinata, usandolo per piantare un chiodo, mi era saltata la punta del martello-piccozza, solo per colpa delle vibrazioni. Il difetto di fabbrica si confermò in seguito: tutti i martelli-piccozza che avevamo portato avevano quel difetto e si ruppero! Alle 12.30 ci sentimmo con Cassin e lo informammo di aver raggiunto quota 5800 m, che avevamo trovato le tracce del tentativo giapponese e che tutto procedeva bene.
Con il collegamento delle ore 14 lo avvertimmo che, toccati i 5900 m, avevamo individuato un buon posto per piazzare il campo 1, sotto uno sperone di roccia.
La sera a cena si decise che io con Lorenzi, Gugiatti e il Det Alippi) saremmo saliti il mattino successivo con i portatori per fissare il campo 1 a 5950 m.
Intanto Leviti sarebbe andato fino alla seconda torre di ghiaccio con tre sherpa per ritornare prima degli altri, dato che poi si sarebbe fermato con Messner al campo 1.
Il 2 aprile, Messner e Lorenzi arrivarono sin dove sarebbe stato piazzato il campo 1, mentre gli altri sistemavano le corde fisse e allargavano i gradini per facilitare la salita degli sherpa con i carichi. Proseguirono e attrezzarono fin verso sera, poi tornarono.
La sera arrivò alla nostra tenda il kitchen boy per portarci il “riso e latte” preparato dall’Aldino, il quale era stato un’ora e mezza al fumo della cucina per sorvegliare le operazioni. In effetti il galateo delle spedizioni proibisce che i sahab si occupino della cucina. Si può suggerire, ma non fare le cose personalmente, altrimenti il cuoco si arrabbia. Il latte era condensato, dunque dolce, ma si sperava che le patate potessero assorbire il dolciastro. A un certo punto Aldo se ne andò, pensando fosse chiaro che il latte dovesse essere messo assieme alle patate e al riso. Non fu così: a noi servirono un pastone appiccicoso e gli sherpa si bevvero il latte! Ci furono scene pietose, con cristi e madonne. Io mi rifiutai di ingurgitare quella roba.
La solita abbondante nevicata rivestì tutto di bianco: e intanto si era sempre in attesa della rimanenza del materiale, con qualche preoccupazione. Cenammo suddivisi nelle varie tende poiché non ci avevano ancora portato quella grande per la mensa.
Il mattino seguente, Messner e Leviti partirono molto presto dal campo base e, seguiti più tardi da quattro sherpa, piazzarono il campo 1 a quota 5950 m e vi si insediarono, al contrario degli sherpa che scesero.
Dopo aver lasciato le necessarie disposizioni, Cassin scese con Gugiatti a Chukhung per controllare la situazione dei trasporti. A Pheriche incontrò gli inglesi della spedizione diretta al Nuptse: Cassin riferì della loro gentilezza e della loro promessa, nel limite delle loro possibilità, di darci aiuto medico in caso di bisogno.
Messner e Leviti, dopo aver dormito al campo 1, proseguirono per 300 metri, attrezzando con corde fisse.
Lorenzi e Curnis, saliti dal campo base al campo 1, raggiunsero Messner e Leviti con 200 metri di corda ciascuno, ridiscendendo poi al campo 1, dove si fermarono con due sherpa.
Il 5 aprile, Aldino mi accompagnò per un pezzo verso il campo 1: mi confidò di essere a pezzi, di non poterne più di quella spedizione. Aspettava solo il ritorno da Chukung di Riccardo per dirglielo senza troppi complimenti. La motivazione era il distacco assoluto con la realtà che ci attendeva a casa. Gli dissi che forse era un po’ presto per dare un giudizio così definitivo, che era difficile essere obiettivi quando ancora si aveva mal di testa e non si era acclimatati. Gli dissi che se andava a casa la spaccatura del suo io non avrebbe potuto ricomporsi per via dell’abbandono. Se non tornava a casa forse la spaccatura si sarebbe colmata. Il pericolo era ridursi a pensare: “Mah… e se fossi rimasto?”. Insomma, si mise a piangere. Dopo pochi minuti arrivarono dall’alto Messner e Leviti e tutto s’interruppe. Da solo, continuai e raggiunsi Barbacetto al campo 1. Questo è situato su una bellissima cresta di neve. La sera, parlando per radio con Aldino, seppi che era arrivata, tramite Riccardo Polino e Giancarlo Bortolami, i due geologi, la mia copia di Un alpinismo di ricerca. Ci furono anche un po’ di chiacchiere con Sereno, un alpinista che stimavo tantissimo ma che conoscevo assai poco. Mi guardai bene dal fare discorsi sull’alpinismo “nuovo”: non ritenevo, a torto, che potesse capire.
Il 6 aprile, assieme a due sherpa, attrezzammo 100 metri oltre il punto massimo di Messner e Leviti, fin sotto a un seracco dal quale sembrava proprio difficile uscire: il tempo era molto migliore. La sera erano lì anche Anghileri e Curnis. Aldino, gentilissimo, mi aveva portato una lettera di Nella del 23 marzo, che lessi avidamente. Mi informava di tante cose. Prima di tutto del suo ritorno immediato in Nepal: mi stava infatti scrivendo dal Blue Star di Kathmandu! Per la verità Mukia, un amico nepalese, mi aveva scritto di aver sentito dire che “Ornila” era a Pokhara. Questo perché era saltato fuori un biglietto gratis e Tenti aveva offerto a Marina, la vedova di Leo Cerruti e sorella di Nella, la possibilità di un trekking nella Kali Gandaki, vicino all’Annapurna. Ovviamente era richiesta la presenza di Nella, anche per non far impensierire troppo i loro genitori. L’attività lavorativa per Beppe Tenti era in pieno svolgimento per tante altre cose che occorreva seguire, come ad esempio la spedizione di don Arturo Bergamaschi in Karakorum, cui forse avremmo dovuto partecipare in estate. Le cianfrusaglie varie portate da Kathmandu erano già andate tutte a ruba, i tappeti erano tutti in lavaggio. Si trattava di stabilire quanti venderne. La mia guida del Prefouns era in rilegatura, e in bozze era anche la guida del Castello-Provenzale. Mi aveva portato una copia di Un alpinismo di ricerca per farmelo avere al campo base. Ettore Pagani e la Mary si stavano separando. Sul conto nostro c’erano solo le 15.000 lire della Federazione Italiana Escursionisti… La casa di via Volta 10 era un “gran casino”, con il soppalco strapieno della nostra roba, spostata per fare spazio a quella dei nostri inquilini che, anche se gentili e simpatici, erano dei casinisti, Angelo, Francesca e Saverio. Infine, un gran cazziatone per non aver lasciato in ordine il pullmino, non aver messo in fresco da qualche parte viveri e medicinali (“che vanno a puttane”) e, soprattutto, non aver staccato la batteria.
La mattina dopo, 7 aprile, Barbacetto ed io scendemmo al campo base. Subito ebbi un bel po’ di grane da risolvere. Messner e Lorenzi stavano partendo per il campo 1 e non c’era nessun altro che parlasse un po’ d’inglese. Lo stesso il giorno dopo, fare i carichi, pagare l’ufficiale di collegamento, ecc. Poi finalmente arrivano Messner, Lorenzi, Curnis e l’Aldino: posso respirare un po’.
Gugiatti, che aveva preso in consegna i medicinali dopo la partenza di Chierego, fungeva da medico e con zelo seguiva le necessità terapeutiche di ciascuno. Mario Conti continuava a non stare bene, la forma bronchiale gli si era aggravata.
In una lettera del 7 e 8 aprile risposi a Nella varie cose. Tra queste era importante capire che don Bergamaschi era un gran casinista e che dunque dovevamo tenerci lontano dalla sua spedizione al Malubiting. Allora, piuttosto, potevamo accodarci alla spedizione del CAI Belledo (Giulio Fiocchi). Inoltre la esortavo, appena tornata a Milano, di dire seccamente ai nostri tre inquilini che per la fine di agosto dovevano assolutamente alzare i tacchi. “Non ho alcuna intenzione, con tutto il casino di roba che ci sarà da fare a settembre, di vivere ancora in pullmino!”. Infine le spiegai che il pullmino era servito fino all’ultimo giorno, e che era stato Alessandro Giorgetta, quando io ero già partito, a portarlo da Ondji. Avevano stabilito che avrebbero acceso il motore ogni settimana.
I giorni che seguirono furono un serrato attacco delle varie cordate che si alternavano per attrezzare e riuscire a piazzare il campo 2 a 6500 m. Ci adoperammo con entusiasmo e collaborammo con serietà alla riuscita e alla risoluzione di quanto ci proponevamo di condurre a termine.
Tutti quanti erano veramente esemplari e motivati. Solo Anghileri non si sentiva più di rimanere e chiese di rientrare in Italia. Se ne andò il 14 mattina e Piussi prese il suo posto nella mia tenda.
L’addio di Aldino
«Il Rinpoche di Tengpoche era calmo, pensieroso e aperto. “Avete or ora raggiunto la cima (dell’Everest) e avete ottenuto il successo. Ma salendo su una cima si deve poi scendere e scendendo tornare alla vita. Così è nel mondo occidentale, dove l’uomo ha raggiunto il massimo del comfort materiale, ma deve scendere ancora per ritrovare la pace interiore. Uno sherpa ha raggiunto la cima con voi. 25 anni fa anche Tenzing rese famoso il mio popolo, che dopo di ciò è cambiato molto. Ma, cosa più importante, l’attenzione alla pace interiore e quindi la felicità che esso ha raggiunto, si sono diffuse sulla terra (Pete Boardman, al ritorno dalla parete sud-ovest dell’Everest)».
Gli addii erano stati brevi e impacciati. Forse i compagni di spedizione provavano come me una certa vergogna, una naturale ritrosia, a manifestare dei sentimenti. Per alcuni forse i sentimenti dovevano rimanere celati perché improponibili, non rivelabili. In questi casi una buona stretta di mano in apparenza calorosa salva tutte le situazioni e infatti anche allora ve ne fu uno spreco. Aldo Anghileri stava lì in piedi, appoggiandosi ora sull’uno ora sull’altro piede, un mezzo sorriso dietro un paio d’occhiali scuri e un viso tirato. Forse anche lui non vedeva l’ora che il commiato finisse. Il fatto che un membro di una spedizione nazionale, pur essendo in ottima salute fisica e pur non dando segni di squilibrio mentale, senza aver litigato con nessuno e senza essere spinto da particolari motivi di paura, avesse deciso di sua spontanea iniziativa, sia pur con il dovuto travaglio psicologico che gli dev’essere costato, di abbandonare la spedizione stessa senza, dico senza, fornire un plausibile motivo per tale gesto né al capo spedizione né ai compagni né in definitiva al sodalizio organizzatore e quindi all’opinione pubblica, era a dir poco scandaloso.
Eppure i motivi c’erano, e ben profondi, e per qualche via recondita qualcuno riusciva ad afferrarli e un pochino a condividerli, anche se mai lo avrebbe ammesso. Altrimenti Aldo sarebbe stato trattato molto peggio, perché dei nostri compagni non si poteva certo dire che avessero peli sulla lingua quando erano sicuri di qualcosa. Qualche giorno prima arrampicavo con Aldino verso il campo 1, ma era un altro Aldino. Mi sembrava che soffrisse la quota. Gli dicevo delle parole di incoraggiamento, cercavo di fargli sperare che sarebbe passata presto. Lui invece mi ripeteva che stava bene, che si sentiva bene, ma che non poteva salire, non poteva far nulla. Lo sguardo assente, senza neppure avere il fiato grosso dopo una lunga tirata di corda, sembrava tranquillo e invece implorava di non essere solo a decidere la Cosa. In seguito in tenda voleva un consiglio. Maneggiava di continuo una lettera della moglie, scriveva un po’ disordinatamente un diario, cosa per lui insolita. Voleva bene al suo diario, era l’unico oggetto che potesse capirlo veramente. Infatti io gli feci un discorso, breve ma sentito.
«Tu vuoi tornare a casa», gli dissi in sostanza, «perché qui non puoi fare dell’alpinismo come hai sempre fatto, libero, veloce e con compagni di tuo completo gradimento. Sai bene che tornare non è cosa da poco e che ci vogliono delle grosse motivazioni per indursi a questo passo. Qui, con i giorni, vedrai che migliorerà. Verrai preso anche tu dal ritmo dell’ascensione e ti dimenticherai delle esitazioni che hai adesso. In fondo è la tua prima esperienza fuori dalle Alpi. Cerca di sopportare. Io ti capisco, ma so anche che poi passa».
Invece non passa. Non passa né a chi se ne va né a chi resta. Per un attimo ne ebbi la certezza salutando quell’Aldino che stava per partire. Aveva ragione Guido Machetto ad affermare urlando che siamo noi i primi a sottostare ai compromessi. In apparenza Aldo, andandosene, seguiva l’istinto, seguiva se stesso senza patti con nessuno. Ma in seguito? Avrebbe resistito all’urto di una città come Lecco che si sarebbe scagliata su di lui? Temevo che presto avrebbe provato il «rimpianto» di essere «scappato». Forse già subito, a Tengpoche, a Namche Bazar. In fondo speravo che tornasse il giorno dopo, magari per zittire quella vocina dentro di me che si ribellava di essere lì al Lhotse con la stessa insistenza con la quale qualche anno prima mi spingeva ad andare in Himalaya a tutti i costi.
Anche gli sherpa vollero salutare Aldo, che era ben visto da tutti loro. Il loro addio al sahab fu meno viziato del nostro, qualcuno di noi si era già imboscato nella propria tenda, il cielo era scuro in un giorno triste, dalla cucina si levava già un primo filo di fumo. Il ghiacciaio sembrava inerte, del tutto immobile non brontolava neppure, ma sapevo bene che si muoveva, la parete ingrigiva in un muro di foschia fino a metà, poi scompariva in una nube plumbea di neve.
Scesi qualche metro sulla morena, per isolarmi e non vedere più nulla. Ora che Aldino aveva passato il punto di non ritorno sentivo un vuoto incerto, quasi una nausea da pianto. Lo aspettai su un sasso. Arrivò preceduto da un portatore, non si aspettava di vedermi lì. Aveva di nuovo gli occhiali soliti, perché non c’era molta luce. Ci abbracciammo piangendo entrambi.
«Mi dispiace» gli dissi.
«Non pensare a me» rispose «Io so che cosa hai tu dentro». Rimasi a guardare finché non fu altro che un puntino rosso in uno sterminato ghiacciaio. Solo allora, scuotendomi in un brivido di febbre, ritornai alla tenda. Feci a tempo a dare un’occhiata al campo base: sembrava tutto come prima, ma non era. Mi lasciai andare di peso sulla mia cuccia e dormii di sonno pesante finché uno sherpa non mi svegliò all’ora di cena.
In tenda mensa nessuno parlava, erano tutti a capo chino. Sbadigliando mi sedetti al mio posto e affrontai senza fame il pezzo di polenta che mi era stato servito, ormai freddo.
La valanga
Il giorno 11 aprile Messner e Leviti raggiunsero il campo 2 con due portatori: piazzarono una tenda «Whillans Box» a 6500 m e rimasero a passare la notte; il campo era posto all’inizio di un immane ghiacciaio pensile.
Gli sherpa dal campo 1 scesero al campo base, perché il giorno seguente non si sarebbero mossi: il libro del lama segnava brutto!
Cassin convinse il sirdar Ang Tsering ad andare lui stesso con tre sherpa a portare quanto occorreva a Messner e Leviti. La notte fu freddissima e con parecchio vento.
Al mattino dopo Gugiatti, dal campo 1, confermò di aver pronto tutto il materiale da mandar su e di essere in attesa degli sherpa; Messner, dal campo 2, riferì che per tutta la notte erano stati disturbati da un vento fortissimo.
Nel collegamento successivo, però, Leviti ci tranquillizzò: contrariamente che da noi, lassù il vento era quasi cessato e, stando così le cose, pensavano di uscire in ricognizione nelle prime ore del pomeriggio per decidere il percorso da seguire; attendevano con impazienza i portatori con la tenda, le corde e i viveri.
Con l’ultimo contatto radio serale si venne a sapere che tre sherpa erano arrivati, che era stata sistemata l’altra tenda e che gli alpinisti avevano potuto constatare che fino alla fine del ghiacciaio pensile non vi erano eccessive difficoltà.
Il vento soffiò fortissimo nella notte fra il 12 e 13 aprile: dal campo 2 Messner ci disse di avere la netta impressione che le forti raffiche stessero per portar via la tenda.
Piussi faceva ridere tutti affermando che gli sherpa mangiando si riempivano come ludrie. Qualcuno riferì di averne visto uno frugare in una nostra sacca alla ricerca di sigarette: “So cold, sahab…”. Gli facemmo cucinare un’altra porzione di yak e patate fritte… L’ufficiale di collegamento intanto aveva portato una sherpani nella tenda dei geologi (che erano via) e non rispondeva ai richiami del capo-spedizione per non farsi scoprire… Riccardo intanto s’incazzava perché voleva maggiore precisione sull’orario dei pasti.
Lorenzi e Curnis salirono per dare il cambio a Messner e Leviti, che scesero; il vento non accennava a diminuire e per tutta la notte seguente soffiò terribilmente. L’impressione era che il tempo ora volesse proprio ostacolarci.
Curnis, Lorenzi e Leviti, che avevano fatto parte dalla spedizione Monzino all’Everest, ci dicevano che, nel 1973, per tutto il periodo di permanenza al campo base e ai campi alti non avevano mai avuto un tempo simile. Durante il giorno si poteva stare a torso nudo. Del resto anche noi nei primi giorni avevamo avuto un tempo stupendo.
Le ore del forzato riposo erano dedicate ad aggiornare il diario e a scrivere ai parenti, agli amici e a quanti ci seguivano in questa entusiasmante fatica; tutti attendevano con ansia l’arrivo dei mail runner. Coloro che ricevevano posta sorridevano di soddisfazione, mentre gli altri rimanevano alquanto delusi.
Per di più i fortunati prendevano in giro quelli rimasti a bocca asciutta. Era un gioco un po’ crudele, ma era un modo macho di offrire solidarietà.
Piussi stava studiando la possibilità di piazzare una teleferica per trasporto di viveri e di materiali e, coadiuvato da Arcari e dai due Alippi, preparava l’occorrente: avrebbe dovuto essere posta a metà strada fra il campo 1 ed il campo 2. Cercammo quindi di ammassare al campo 1 quanto più possibile di materiale in modo da poter rifornire i campi successivi.
Giovedì 17 aprile la giornata si preannunciava felice. Il tempo era meraviglioso e otto sherpa partirono per il campo 1 con la fune portante e gli accessori; anche Piussi, i due Alippi e Arcari seguirono per la stessa meta, ove si sarebbero fermati per la posa della teleferica. Si mosse anche Cassin con Mariolino Conti: portavano fra l’altro la cinepresa «Beaulieu» che è molto pesante e due macchine fotografiche. La vista dal campo 1 era stupenda e verso sera i due rientrarono al campo base.
Nella stessa mattinata con Barbacetto, dal campo 1 raggiunto il pomeriggio precedente, salimmo verso il campo 2 con l’intenzione il giorno dopo di aprire la via al campo 3.
Venerdì 18, con tempo decisamente bello, tutti si impegnarono dalle prime ore per risolvere i vari compiti loro affidati: la cordata di punta per tracciare la via e il gruppo per piazzare la teleferica. Con Barbacetto raggiungemmo quota 7200 m. Durante la notte però nevicò e al campo 2, il mattino, c’erano 25 centimetri di neve fresca.
In seguito cercammo di raggiungere ancora il luogo del campo 3, ma non riuscimmo a raggiungere la posizione del giorno precedente.
Anche agli sherpa, giunti al campo 1, non fu possibile portare a termine il lavoro affidato. Tre di loro infatti che dovevano andare al campo 2 persero tempo inutilmente e lasciarono i carichi a metà strada fra il campo 1 e il campo 2.
Piussi con Gigi e il Det (i due Alippi), unitamente ad Arcari, riuscì a piazzare la fune portante, a un’ora di distanza dal campo 2. Tutti si coricarono sereni alle 21 del 19 aprile. Io ero al campo 2 con Aldo Leviti, Franco Gugiatti e due sherpa. Per il giorno dopo era prevista la posa del campo 3, a 7200 m.
Cassin in Lhotse ’75 raccontò:
«Intorno alla mezzanotte sento un forte boato seguito da uno schianto e da un gran vento.
Qualcuno chiama: alla luce della pila vedo tutta la tenda abbassata, la scuoto ma sento che è pesante di neve. Appena uscito scorgo Messner mezzo svestito e tutto bianco. Lo spostamento d’aria e il nevischio di una valanga caduta dalla parete del Lhotse hanno travolto la sua tenda, danneggiando la mia e le due «Urdukas» degli sherpa.
Dopo essermi assicurato che Reinhold sarà ospite nella tenda di Mariolino Conti, ritorno nella mia tenda, malgrado sia rotta l’asta di sostegno del colmo, che mi riprometto di riparare il mattino successivo.
Verso le 6, quando è già giorno, esco alcuni minuti e mi guardo in giro per osservare i danni subiti e per individuare il punto da dove si è staccata la valanga; non mi è possibile però stabilirlo con esattezza poiché è nevicato leggermente.
Rientro nella tenda per riposare ancora un poco: sono ancora in dormiveglia quando sento un boato, ancor più forte della prima volta, uno schianto pauroso e un vento che tutto avvolge; un grosso peso corre velocemente sopra di me.
Per istintivo riparo, ma a stento, riesco a portare le braccia sopra la testa e cerco di sollevarmi ma sono subito risucchiato. Non ho la cognizione di quanto duri quell’inferno.
Quando tutto mi sembra calmato, a carponi e con molta fatica, riesco ad uscire dalla tenda. Dinanzi a me, una spaventosa visione di rovina e di annullamento: il nostro prezioso villaggio di tende è sparito sotto una spessa coltre di neve. Ho l’impressione che un enorme rullo compressore abbia livellato tutto.
Vedo per primi Messner e Mariolino, tutti bianchi da capo a piedi. Subito mi dirigo con loro verso le tende degli sherpa da dove giungono dei lamenti. Con piccozze e coltelli liberiamo quelli che sono prigionieri; alcuni sono feriti, fortunatamente in modo non grave. Con delle salviette riusciamo ad asciugarli sommariamente, impregnati come sono di neve, e ci preoccupiamo di coprirli un poco con qualche sacco-letto che riusciamo a recuperare. È assai freddo, la temperatura è sui 9-10 gradi sotto zero.
Le casse dei nostri materiali e viveri, le bombole di gas da 30 kg sono tutti disseminati in un raggio di oltre un chilometro dal punto dove era la base.
Quando riesco a mettermi in comunicazione con i campi alti, verso le 7.30, invito tutti a scendere subito per aiutarci e comprendo il loro stupore espresso alla mia richiesta.
Da lassù non hanno intuito nulla poiché la leggera nevicata ha impedito anche a quelli di stanza al campo 1, che normalmente a occhio nudo vedono il campo base, di accorgersi che vi fosse qualcosa di irregolare.
Mentre appare il sole e la temperatura si fa più mite, ognuno cerca di racimolare le proprie cose: per tre giorni staremo alla ricerca dei nostri vestiti ed effetti personali, sparsi in mezzo al ghiacciaio.
Per nostra fortuna, al campo base, eravamo solo in 5 alpinisti e una quindicina fra sherpa e inservienti, altrimenti le conseguenze sarebbero state ben più gravi.
Verso le 9.30 giungono gli amici che erano al campo 1. Ci preoccupiamo di chiedere subito agli sherpa se intendono o no continuare la spedizione.
Avuto parere favorevole, ci riuniamo per accordarci se proseguire o desistere e quindi rientrare in Italia. Mancano però ancora i quattro compagni del campo 2: arriveranno più tardi.
La decisione è quanto mai necessaria: se concludiamo di rientrare in Italia verrà allestito un campo base provvisorio in una posizione a valle; se continuiamo nel tentativo di scalare il Lhotse occorre sistemare il campo in una posizione a monte, in un posto funzionale e duraturo e con maggiori limiti di sicurezza.
Fatto l’inventario del materiale rimasto, ci pronunciamo nella quasi totalità per il proseguimento dell’impresa.
Delle tende «Urdukas» e «Himalaya», alcune si possono riparare ma altre sono da eliminare perché irrimediabilmente compromesse.
Verso sera riusciamo a trasferirci e a sistemarci con le tende di riserva nel nuovo campo base che è spostato verso sinistra, sulle pendici del contrafforte.
Mariolino Conti, dopo la doccia di neve presa in seguito alla frana, ricade nella bronchite che pareva superata; anche Lorenzi fatica a respirare, causa una forte costipazione: ad ambedue accordo il permesso di scendere per qualche giorno a Namche Bazar.
Nel frattempo giungono due inglesi della spedizione al Nuptse con un biglietto del loro medico: abbisognano di un paio di bombole di ossigeno, avendo le loro ancora in dogana. Sono lieto di poter ricambiare tante cortesie avute e consegno loro anche una maschera di tipo americano che funziona automaticamente: l’ossigeno cioè esce solo in ugual misura di quanto serve e viene assorbito dall’organismo sottoposto al trattamento.
Giungono anche i «local porter» che ci sposteranno i materiali dal vecchio campo base al nuovo e tutto ricomincia da capo».
Scesi pure noi in mattinata del 20, ci mettemmo freneticamente a cercare nella neve la nostra roba. A me sparirono un paio di sovrapantaloni, il maglione della spedizione, qualche calza. Purtroppo non potevo escludere che fosse stato qualche sherpa ad appropriarsene, nel casino. Persi anche gli scacchi (su 32 pezzi ne recuperai solo 9…), anche il tavolo si era spezzato. Il mio diario si era stracciato in sette od otto pezzi, ma girando come un pazzo riuscii a racimolare tutti i fogli.
Dopo la sosta forzata per lo spostamento del campo base, riprendemmo l’attività il 23 aprile. Reinhold, Mario e Ignazio salirono al campo 1. Mentre i primi due dovevano continuare, Piussi avrebbe mostrato ad Ang Tsering il funzionamento della teleferica, ormai ben fissa tra il C1 e il C2.
Confidenze a un nastro magnetico
di Reinhold Messner
«Nell’era delle direttissime attraverso le grandi pareti dell’Himalaya anche gli italiani volevano scrivere la loro storia alpina come al tempo della conquista del K2.
Il Club Alpino Italiano era pronto a finanziare una spedizione nazionale se questa avesse avuto come meta una delle 14 vette da 8000 metri. Riccardo Cassin, anziano maestro fra i più eccelsi italiani, assunse la direzione e l’organizzazione dell’impresa. Assieme ad Alessandro Gogna scelse la parete, la parete meridionale del Lhotse che veniva indicata come impervia e senza dubbio una delle pareti più difficili del mondo. A questo arduo tentativo presero parte i migliori alpinisti italiani che erano stati precedentemente scelti dalla presidenza del CAI e dal capospedizione. Attrezzati per la direttissima e convinti, ad eccezione mia che sin dall’inizio mi ero mostrato scettico riguardo a questa via proponendone un’altra, arrivammo fino al campo base. Qui l’intera squadra si rese conto degli effettivi pericoli che una risalita di 3500 metri di parete esposta avrebbe comportato.
Ci si spostò a sinistra dove già nel 1973 un tentativo giapponese era fallito e dal principio si avanzò molto celermente. Poi due valanghe spazzarono il campo base e una terza più tardi il campo 3. A causa delle continue nevicate e dall’aumentato pericolo di valanghe, non osammo continuare sebbene all’inizio di maggio ci fossimo spinti fino a 7500 metri e la via dal piede della parete fino quasi sotto la cresta della vetta fosse stata assicurata da corde fisse e scale.
Siedo in un’angusta tenda e voglio registrare prima che si faccia notte. Fuori infuria la tempesta e la parete emette urli ogni volta che una forte raffica la colpisce. Da quando nella notte fra il 19 e il 20 aprile due valanghe di ghiaccio ci hanno distrutto con la loro pressione e con il pulviscolo il campo base, siamo in condizioni alquanto pietose.
Ebbi la sventura di essere di riposo in quella memorabile notte al campo base e di ritrovarmi subito per due volte senza tetto. Improvvisamente (ore 23.10 del 19 aprile) volarono attorno alle mie orecchie paletti di tenda, brandelli di stoffa e poi solo pulviscolo di neve; per minuti e minuti credetti di soffocare; stavo seduto nel saccopiuma e non sapevo cosa stava succedendo. Svegliato da un sonno profondo ora mi preoccupavo di non soffocare. Istintivamente facevo dei movimenti natatori con le braccia e cercavo di respirare regolarmente. Lo spostamento d’aria causato dalla valanga aveva portato via la tenda e volavano vicino alle orecchie pezzi di neve e oggetti dell’attrezzatura mentre polvere finissima mi entrava attraverso il pullover e la camicia fino alla pelle. Dopo circa 10 minuti era tutto finito. La mia speranza che quella buriana fosse solo dovuta allo spostamento d’aria e pulviscolo e non dalla valanga vera e propria si rivelò fondata. Mi alzai in piedi, a piedi nudi e in mutande tirai fuori il sacco-piuma dalla massa di neve compressa e mi misi a cercare un’altra tenda. La stanchezza (il giorno prima avevo montato il campo 2) ora era passata. Mi misi a camminare intorno, nella neve, e solo dopo cinque minuti mi accorsi che non andavo in discesa ma in salita per cui non avrei mai potuto arrivare vicino ai miei compagni.
Avevo perso l’orientamento a causa della valanga e lo ritrovai solo quando si accese una luce improvvisamente molto sotto di me. Dovevano essere gli altri! Nel campo base c’erano solo alcuni partecipanti in quanto la maggioranza si trovava in parete. Le tende erano parzialmente sommerse. Alcune strappate ma solo la mia era stata portata via. Non c’era più. Trovai rifugio da Mario Conti; nonostante lo spavento dormii tutta la notte molto profondamente e sognai di aver imparato a nuotare.
La seconda valanga (ore 6 del 20 aprile) era ancora più grossa e rase al suolo il campo base. Alle sei del mattino (eravamo entrambi svegli) sentimmo un breve e chiaro «crack» nella parete, poco dopo un colpo sordo che sembrò scuotere tutta la valle. Dissi a Mario scherzosamente: «ecco la prossima». Mario ebbe appena il tempo di ritirare la testa dall’entrata della tenda, non però di spiegarmi quello che stava succedendo. Nei suoi grandi occhi c’era uno spavento che non avevo mai visto prima: tutto il disastro della valanga.
In quel momento volavano i paletti della tenda sopra le nostre teste; soffiava, fischiava e si sollevava della polvere di neve con una tale pressione da portarsi via tutto quello che si trovava nella tenda: macchine fotografiche, casse della spedizione, giacche imbottite, libri…
Di nuovo difficoltà di respirazione, pulviscolo nevoso fino alla pelle, i capelli simili a un iceberg! Sedetti di nuovo nel sacco-piuma. Mario dietro di me. Entrambi alla ricerca d’aria, facendo dei movimenti natatori come in una pantomima. Questa valanga era più forte della precedente che mi aveva strappato dal sonno, ma ero preparato. Quando lo spostamento d’aria passò e la polvere della neve si abbassò lentamente, Mario ed io cominciammo a toglierci dal viso le croste di neve e ci guardammo un po’ intorno: non c’era più la tenda, i depositi erano spariti e la cucina era stata spinta contro un mucchio di sassi. Disperati ci mettemmo alla ricerca dei nostri pantaloni e delle nostre giacche, delle scarpe e delle calze e di qualsiasi cosa con cui poterci vestire. Eravamo congelati e tremavamo dal freddo nonostante già i primi raggi del sole si stessero posando sul campo base.
Improvvisamente una tenda si mosse. Era la tenda di Riccardo Cassin, il nostro capospedizione che ora, come un fantasma, diventava sempre più grande e usciva dalle coperte. Aveva tanti capi di abbigliamento in tenda con i quali abbiamo potuto vestirci e metterci a cercare gli altri. Nel frattempo anche alcuni sherpa si erano liberati e si misero a cercare gli altri. Alcuni erano sotto le casse. Quattro di essi erano 20 metri più in basso, e lì sepolti; si poté salvare appena in tempo l’ufficiale da sicura morte da soffocamento. Per ultimo uscirono strisciando dalla loro tenda schiacciata i due sahab che mancavano; uno degli sherpa faceva già bollire il tè e Riccardo Cassin chiamò a mezzo radio tutti i campi alti dando l’ordine di scendere.
Dovemmo rivedere ancora tutto il nostro programma. Avevamo perso nelle due valanghe almeno dieci tende e la metà dell’attrezzatura. Avremmo avuto bisogno di almeno 10 giorni per trasferire il campo base e raccogliere quanto di servibile era rimasto sparso in un cerchio di 3 km. Dopo una votazione democratica decidemmo di rimanere.
(C’era la possibilità di non seguire interamente il ghiacciaio pensile obliquando a ovest fino alla sua sommità bensì tenersi poco a destra e affrontare quindi la parete rocciosa che sosteneva la cresta Nuptse-Lhotse. Se si fosse seguita invece la rampa finale a sinistra, raggiunta una spalla si sarebbe dovuto proseguire su un versante non più visibile dal campo base, NdA).
Dieci giorni più tardi mentre stavo montando il campo 3 sotto a uno sperone roccioso (nell’esplorare la possibilità di destra, NdA) stimai la massa che si era staccata da 6500 metri a 1.000.000 di metri cubi. Era stato sufficiente lo spostamento d’aria di questa valanga per distruggere completamente il nostro campo base. Che cosa sarebbe successo se questa massa, che rappresentava solo una piccolissima parte della parete, si fosse abbattuta sul campo in una volta sola, sul posto dove prima di noi ben cinque spedizioni si erano già accampate? Tali e simili pensieri mi turbavano mentre salivo e mentre montavo il campo 3.
Al quesito se la parete sud del Lhotse, dopo l’esperienza fatta, risultasse percorribile, Cassin rispondeva che una via era possibile, escludendo la via diretta, unicamente per la via dei giapponesi: e su questa scartando la risalita diretta della parete dal ghiacciaio pensile: «Lì la roccia è troppo friabile, il rischio per le spedizioni è troppo grande. Anche col bel tempo vengono giù massi grossi come case. La parete non è mai tranquilla. Questa montagna freme, trema, soffia, sputa sassi, ghiaccio e morte giorno e notte».
Ero d’accordo per la parte sinistra, con tempo bello e con una squadra in condizioni perfette. Quanto poi alla Diretta, quella forse sarà possibile nel 2000…
Per una spedizione classica di 10-15 persone richiedente due mesi di arrampicata e corde fisse, essa sarebbe oggi troppo pericolosa. Occorre salire rapidamente, con una o due cordate, con «tecnica alpina». Anche Gogna era d’accordo che una spedizione tradizionale poteva salire solo a sinistra ma che una cordata a due, veloce, avrebbe potuto aver successo passando a destra. Perciò avevo tentato quest’ultima con Mario Curnis».
Verso il campo 3
Il mattino del 24 aprile, dal campo 1 Gigi Alippi, Det Alippi e Arcari partirono con otto sherpa; il programma prevedeva che Gigi e Det, dopo il lavoro di sistemazione della teleferica, andassero al campo 2 per proseguire verso il campo 3. Intanto Piussi, con il sirdar Ang Tsering, metteva a punto l’impianto della teleferica.
Al campo 2 Curnis riferì di 80 centimetri di neve fresca: per giungervi gli alpinisti avevano impiegato otto ore. Lo stesso informò che, dei quattro portatori, solo due erano arrivati mentre gli altri erano scesi perché non erano all’altezza del compito loro affidato.
Verso le 19 Piussi arrivò al campo 1 e con voce rauca, tanto che a stento riusciva a farsi capire, disse che, se tutto procedeva così, la teleferica il giorno seguente avrebbe potuto funzionare.
Il mattino del 25 era meraviglioso ma il tempo poi volse al brutto e Reinhold Messner era assai pessimista prevedendo che per quel pomeriggio non si potesse andare avanti: la neve, o doveva assestarsi, o doveva essere portata via dal vento. Anche Cassin, sentito il mio parere e quello di Barbacetto, consigliò la massima prudenza.
A mezzogiorno il cielo era coperto e alle 14 iniziò a nevicare. Verso sera giunsero al campo base Piussi e il Det Alippi: erano alquanto stanchi ma soddisfatti perché prima di scendere avevano mandato su il primo carico con la teleferica.
Il programma era di attendere che la neve si assestasse: nel frattempo avremmo portato viveri e materiali al campo 2 in modo da essere pronti quando il tempo si fosse rimesso al bello.
La giornata del 26 non smentì l’ormai abituale situazione meteorologica: mattino con cielo terso, pomeriggio con neve!
Dal campo 2, Curnis riferì che Messner stava male: soffriva di mal di pancia e di dolori diffusi in tutto il corpo. Cassin inviò subito al campo 1, con uno sherpa, i medicinali più appropriati per farli proseguire poi per il campo 2 a mezzo teleferica. Riccardo raccomandò, se Messner poteva stare in piedi, di farlo scendere: nel caso non fosse stato in grado gli avrebbe mandato incontro me, Leviti e Barbacetto.
Più tardi però Messner migliorò e malgrado la neve alta scese sino all’arrivo della teleferica in un tempo relativamente breve.
Intanto da Namche Bazar, dopo cinque giorni, ritornarono in buone condizioni pure Lorenzi e Conti; continuava però il cattivo tempo e nevicava piuttosto forte.
Il 27 e 28 aprile il tempo alternò il bello con forti venti e caduta di valanghe che precipitavano continuamente dalla parete sud del Lhotse. Le raffiche di vento erano fortissime sia al primo che al secondo campo.
Decidemmo di spostare più in basso il campo 1, precisamente alla partenza della teleferica.
Ed arrivammo al 30 aprile: mentre il vento al campo 1 si era calmato, al campo 2 soffiava ancora forte; da lì con Leviti comunicai che le tende erano semi-sepolte dalla neve e che sarebbe occorso tutto il giorno per liberarle.
Poi il tempo dal 30 aprile al 2 maggio fu sempre brutto e ci costrinse all’inattività. Non si poteva andare oltre il campo 2 perché tutte le notti nevicava quel tanto da non lasciarci proseguire.
Gugiatti, il 1° maggio portò al campo 2 la posta appena giunta: una semplice cartolina, in quelle condizioni di vita e di ambiente, diveniva un fattore importante dal punto di vista psicologico.
Si verificò anche qualche furto di materiale. Gli sherpa sentivano odore di fallimento ed erano già pronti ad approfittarne.
Leviti ed io intanto ci portammo fino al grande seracco sotto al campo 2 per attrezzarlo con una scaletta. Messner e Curnis sostituirono Lorenzi al campo 1 perché questi aveva ancora un poco di bronchite; con Leviti e Barbacetto io rientrai al campo base. Anche il giorno dopo ci alternammo molto ordinatamente ai vari compiti.
Finalmente il mattino del giorno 3 il tempo era bello, senza vento anche ai campi alti. Arcari scese alla teleferica per sostituire Lorenzi e per continuare a far salire i carichi. Dal campo 2 partirono Messner, Curnis e il Det con quattro sherpa puntando al campo 3, previsto più o meno a 7200 m, sotto alla parete rocciosa.
Il percorso venne «battuto» interamente da Giuseppe Alippi (Det) perché gli altri erano carichi dei loro bagagli personali e dovevano inoltre essere riposati per poter procedere il giorno seguente. Det e i portatori scesero subito poiché all’arrivo già nevicava e temevano che la nebbia e la neve annullassero le tracce.
Io, Barbacetto e Leviti con uno sherpa salimmo per dare il cambio, come già preordinato, alla cordata di punta. Il 4 sera eravamo al campo 2. Curnis e Messner erano tornati precipitosamente al campo base.
Il campo 3
di Reinhold Messner (da Due e un Ottomila)
«Il 3 maggio con Det Alippi e due sherpa, proseguimmo la salita per installare il terzo campo. Un buon tratto del percorso era già stato esplorato e attrezzato, avremmo piantato la tenda sotto la parete verticale finale alta 500 metri. Det, in testa, progrediva meccanicamente: alzava una gamba finché il ginocchio non formava un angolo acuto, poi posava il piede; poi l’altra gamba. Ogni volta affondava fin oltre il ginocchio nella neve polverosa. Un tormento diabolico.
Dopo Cassin, Det era il più vecchio della spedizione. Aveva 41 anni, ma era il primo di tutti noi in quanto a tenacia e forza di volontà. La pelle delle sue mani pareva argilla disseccata e il suo viso sembrava di cuoio. Magro e piccolino, era molto adatto alle grandi altezze. Non era una delle star del gruppo e non annoverava fra le sue imprese nessuna sensazionale «prima», ma era piuttosto deluso dalle primedonne e dimostrava – in parte inconsapevolmente – che lassù non contava proprio nulla il nome e la fama di un alpinista, ma soltanto l’uomo.
Adesso Det aveva trovato il suo equilibrio. Nelle settimane precedenti, in cui inutilmente aveva atteso posta dalla moglie, era stato spesso agitato. Tutte le volte che il corriere arrivava senza portare niente per lui, gli altri lo prendevano sempre in giro.
«Avresti dovuto lasciarle più soldi per comprare carta e francobolli», aveva esclamato uno dei suoi amici di Lecco, che dicevano che era avaro.
– È vero, sicuramente aspetta il denaro – lo stuzzicava un altro.
– Tre mesi in Himalaya con la moglie sola a casa!
– E allora? – domandava Det.
– Nessuna donna potrebbe resistere.
Queste allusioni continuavano a ripetersi per settimane e si facevano sempre più aperte tutte le volte che, con la posta, non arrivavano lettere per lui.
– Non ha più tempo per scriverti.
– E perché?
– Asino ingenuo, perché ha un amico.
– E chi sarebbe?
– Il portalettere o forse il lattaio.
Det si infuriò, andò nella sua tenda e scrisse un’amareggiata lettera a casa che concluse con questa domanda: “Hai forse trovato un altro Det?”.
Ma non c’era nessun altro Det. Procedeva con impeto davanti a me, e già da tre ore. Dietro di lui si apriva un ampio solco.
Volevo fermarmi solo un po’ per consentire al mio cuore impazzito di tornare a battere regolarmente, per fare funzionare di nuovo a ritmi normali i polmoni sottoposti a quello sforzo. Il mio sguardo vagò sugli infiniti pendii nevosi. I saracchi e i crepacci non risaltavano quasi nella leggera nebbia. Il vento non mugghiava più sulla cresta terminale, ma fischiava. A un tratto fui colpito da una frustata di granelli di ghiaccio in pieno viso e la pelle ferita bruciava.
L’altimetro segnava 7000 metri. Dovevano mancare ancora cento metri al termine della rampa di ghiaccio, se dovevamo fidarci delle curve di livello della carta su cui avevamo fatto i calcoli.
Passai davanti a Det. Affondavo i piedi con estrema cautela. La superficie nevosa era piuttosto indistinta in quella luce crepuscolare. Mi accorsi di tastare automaticamente il terreno prima di osare muovere un passo.
Fui preso da un senso di sconforto. Non c’erano luoghi sicuri per piantare una tenda, la parete si faceva a vista d’occhio sempre più ripida. L’ampia rampa scompariva. Arrampicavamo in un gigantesco deserto di ghiaccio verticale. Mi pareva di salire da giorni. Nessun essere vivente in questa fetta isolata di mondo. Eravamo ancora sul Lhotse?
Ecco, sopra di noi, una linea più scura.
Tenendomi saldo alla piccozza, mi spostai oltre l’orlo del crepaccio: il crepaccio terminale, il labbro inferiore, non pericoloso. Nonostante la nebbia riuscii a vedere che il margine superiore era piuttosto sporgente. Poteva essere più sicuro a destra? Avanzai di una decina di passi sull’orlo di quell’abisso. A sinistra il crepaccio, a destra lo strapiombo. Il dislivello fra labbro inferiore e superiore aumentava progressivamente. Troppo pericoloso. Ritornai al punto raggiunto in precedenza.
Mario Curnis mi era arrivato accanto.
– Qualche posto adatto?
– Se infossiamo la tenda, sì.
– Ancora un po’ più dentro e saremo sicuri come in una catacomba.
Gli sherpa si erano liberati dai loro carichi e, sotto la guida di Det, scesero al secondo campo. Mario ed io selezionammo il materiale: una tenda, due stuoie – alte poco più di un centimetro – un fornello, viveri per due giorni, una pala da neve. Il materiale da arrampicata e l’attrezzatura personale erano ancora nei nostri zaini.
Intanto era calata la nebbia. Il chiaro strato di nubi in movimento sotto di noi era calmo come il mare, impenetrabile, abbagliante. L’orizzonte pareva tracciato con il compasso, un perfetto semicerchio, non sbucava nessuna cima: come era limitato ora il nostro orizzonte!
Ci vollero due ore prima che la tenda fosse montata, la metà posteriore all’interno del crepaccio, quella anteriore protetta in parte dall’orlo superiore dello stesso. Un’eventuale slavina avrebbe potuto schiacciarci ma non ci avrebbe trascinati via. Nonostante ciò avevamo paura.
Per la stanchezza non riuscimmo neppure a mangiare, presi anche dalla fretta di rimetterci le sovrascarpe ghiacciate. Solo quando uscimmo davanti alla tenda e ci legammo alle corde, mi riprese la calma abituale. Testardi, sfidammo la bufera che imperversava.
Dopo due ore i cento metri di corda a nostra disposizione erano fissati sulla parete sovrastante. Nel pomeriggio due sherpa portarono un nuovo rotolo di corda: il lavoro per il giorno successivo.
Venne la notte: nessuno dormì. Ciascuno di noi sapeva che l’altro era sveglio, che non era in grado di rilassarsi, che tratteneva il respiro per sentire quello che succedeva fuori. Silenzio. Stavamo in ascolto: niente.
Poi improvvisamente, prima un rimbombo, poi un tuono: wuum-bum-bum-bum… Balzammo in piedi dallo spavento. Una frana di neve passò sopra la tenda. Ci avrebbe spazzato via? La paura ci attanagliò. Poi tornò il silenzio. Il tetto piatto si era abbassato notevolmente. Sulle pareti una brina spessa un dito. Ancora una volta la fortuna ci aveva assistito. Dopo un quarto d’ora ci addormentammo.
Al mattino, svegliandomi, cercai di confrontare l’esperienza di quella spedizione con il resto della mia vita di alpinista. Avevo cominciato con itinerari semplici: il Sass Rigais, il mio primo tremila (allora avevo cinque anni), ridenti alpeggi e soleggiate rocce dolomitiche. Poi, successivamente, avevo affrontato le più difficili pareti delle Alpi, con la loro impressionante esposizione, per poi cimentarmi con le montagne più alte del mondo: la parete Rupal al Nanga Parbat, la sud del Manaslu, la parete sud del Makalu e ora la parete sud del Lhotse. Sempre più ripide, più pericolose, fino a quel muro verticale che ci sovrastava, 500 metri di sfasciume nella zona della morte, che avremmo dovuto scalare nelle prossime dieci ore. Verticali macigni sovrapposti, un deserto verticale, monotono fino alla disperazione.
Piuttosto che alla parete, avrei preferito dedicarmi a Uschi. Pazzo che ero! La sfida al Lhotse era diventata più importante del mio amore per lei? Forse ero stato troppo superbo, troppo ambizioso ad accettare di partecipare a questa spedizione. Ma così, niente amore.
Dal secondo campo, quaranta ore prima, avevo scritto a Uschi e infilato la sua ultima lettera nello zaino. Era partita per Monaco, si sentiva sola, ma nel complesso stava bene. Aveva curato il nostro giardino a Villnoss e aveva pure piantato i pomodori. A me piacciono molto, ma pensavo che a 1400 metri di quota non sarebbero certo maturati.
Frattanto avevo scalato per decine di ore su e giù per neve e ghiaccio. Solo ora, nella tenda del terzo campo, rileggendo la lettera di Uschi, mi si chiarirono molte cose. Come già mi era capitato altre volte, ero costretto a riconoscere il mio egoismo. Non risolvevo nulla descrivendo in lunghe lettere i nostri progressi o le forzate rinunce. Durante le mie prime spedizioni avevo scritto sempre poco a casa e esclusivamente della montagna che affrontavo. Il successo o la sconfitta erano state le cose più importanti.
Le lettere a Uschi erano monotone. Non noiose, ma forse troppo legate ai fatti. E Uschi? Doveva cercare di capire quello che non riuscivo a spiegarle. Soprattutto doveva essere in accordo con me. Non potevo risolvere tutto con un calcolo razionale, come risolvendo un problema matematico. I fatti si modificavano ogni momento, e così li interpretavo all’istante e avevo le mie motivazioni. Sì, ero egoista, me lo ripetevo sempre. Ma non potevo tornare indietro. Mi opprimeva pensare alla rinuncia. Era ancora possibile raggiungere la vetta, potevo provarci ancora.
Raggiunto il punto massimo del giorno precedente, salì fino a me anche Mario. Assicurato a due chiodi di sosta, faceva scorrere lentamente la corda nei jumar. Un centimetro, di nuovo fermo, ancora un centimetro. La roccia era fessurata, articolata. Sporgendomi in fuori per individuare l’itinerario migliore, ebbi una visione, come se la montagna crollasse, andasse a pezzi.
– Sassi!
Cercavo sempre di avvisare Mario dei sassi che cadevano. Improvvisamente comparvero nell’aria, piccoli punti neri su di noi, passarono sibilando e si conficcarono nel ghiaccio sottostante come spezzoni di granata.
Intanto avevamo raggiunto il diedro che taglia obliquamente da destra verso sinistra la seconda metà della parete terminale. Verso i 7350 metri di altitudine. Il martello da ghiaccio al polso, i guanti penzoloni, mi spinsi oltre quei millenari lastroni, oltrepassai una fenditura e raggiunsi una fessura verticale. I ramponi stridevano contro la roccia. Conficcai un buon chiodo in una fessura verticale. Vi passai un cordino, naturalmente doppio, agganciai un moschettone per avere un’assicurazione intermedia. Volevo affrontare la fessura di slancio: o ci riuscivo al primo tentativo oppure niente. Non sarei riuscito a sopportare tentativi protratti a lungo.
Arrivai solo fino a metà. Più in alto non c’erano appigli, la roccia si faceva troppo liscia e verticale per progredire ancora di un solo passo. Maledizione!
– Attento!
Mario guardò su, il berretto pieno di neve. Non osavo neppure fargli un segno per paura di perdere l’equilibrio.
Vidi uno spuntone di roccia grosso come un pugno, con tre colpi ben assestati lo ripulii dal ghiaccio, tolsi velocemente un cordino dall’imbragatura, lo passai attorno allo spuntone, provai se teneva e pendolai così assicurato verso destra su un cornicione. Salvo!
Mi assicurai a un cuneo e a due chiodi, per far salire Mario.
– Vieni!
Aveva appena tolto un chiodo, il secondo lo aveva lasciato per la corda fissa, quando una vera valanga di sassi ci passò accanto. Solo dopo cinque minuti cessarono i fischi, i sibili e le esplosioni. Ci appiattimmo alla roccia, gli zaini a protezione della testa, e aspettammo: dapprima atterriti dallo spavento, poi rassegnati al destino. Avremmo voluto rifugiarci dentro alla montagna.
Era troppo. C’era puzza di zolfo e l’aria tremava ancora, mentre scendevamo. Tornammo al terzo campo e poi veloci al campo base. Per il momento ne avevamo proprio abbastanza».
15
Un bellissimo frammento del mondo che fu. Ci voleva una bella voglia per tirare agli 8000 e il dubbio che non valessero tanta pena già serpeggiava pr il campo base. Sono ricordi molto precisi d’un periodo che finì, si estinse come un ramo dell’evoluzione ormai senza senso. La gloria, la fortuna, la voglia di tornare a casa sono passate anche da quelle parti, grazie Sandro.
Bello e coinvolgente. Un racconto di vero alpinismo.