Parete nord dell’Ortles

Questo importante e storico articolo di Hans Ertl è pubblicato per la prima volta in lingua italiana.

Parete nord dell’Ortles
(prima ascensione, 22 giugno 1931)
di Hans Ertl
(pubblicato con il titolo Bergfahrten in der Ortler Gruppe (Königspitze und Ortler) (1932) sullo Zeitschrift des Deutschen und Österreichischen Alpenvereins, 63, 300-313)
Traduzione di Paolo Ascenzi

A ovest della Rothböckgrat si trova un ripido canalone ghiacciato con diversi strapiombi: è la parete nord dell’Ortles.

Con una altezza di oltre 1400 metri e una pendenza variabile, talora è quasi verticale, questa parete precipita dalla vetta sul ghiacciaio Marltferner. Di tanto in tanto pietre e pezzi di ghiaccio si staccano dalla zona dei seracchi dello Tschirfeck e dalla Rothböckgrat e scendono lungo questo immenso colatoio. Non di rado il vento porta la sottile polvere delle slavine fino al margine del bosco.

Molti erano stati i tentativi di salire la parete, anche se l’interesse di tutte le “generazioni di alpinisti” era rivolto alla parete nord del Cervino, l’”ultimo problema delle Alpi”.

Hans Ertl

La parete nord dell’Ortles non era certamente molto nota. Gli alpinisti che la conoscevano erano pochi. Per lungo tempo nessuno osò pensare di salire quell’immenso muro di ghiaccio. Era quindi un problema “giovane” e “nuovo”, giovane almeno quanto la tecnica d’arrampicata moderna che permise di risolverlo.

Non era un segreto nel ristretto ambiente degli alpinisti di Monaco che io nell’agosto del 1930 avessi studiato accuratamente la parete nord dell’Ortles e che inutilmente vi avessi posto l’assedio. Durante la Pentecoste del 1931 c’era stato un primo tentativo ufficiale da parte dei due migliori esperti ghiacciatori Willi Merkl e Willi Welzenbach.

Secondo quanto asserito da Willi Merkl, avevano saliti la parete per 600 metri, poi le condizioni sfavorevoli li avevano costretti alla ritirata.

Poiché il loro insuccesso era noto, sicuramente avrebbe avuto luogo quanto prima un nuovo tentativo. Io però non volevo abbandonare il mio “vecchio amore” senza tentare nuovamente prima dell’inizio dell’estate. Fu quindi un forte desiderio che mi spinse verso la parete nord dell’Ortles, e questa volta, cosa eccezionale, la fortuna mi arrise.

Franz Schmid, mio compagno del club e socio dell’”Alpenkränzchen Berggeist”, fu l’unico che, considerata la mia fretta, riuscii a coinvolgere nel mio progetto e il 19 giugno eravamo già in sella alle nostre biciclette pedalando su e giù lungo la splendida val Venosta.

Da anni noi compivamo le escursioni in montagna servendoci della bicicletta; eravamo avvezzi a questo sistema vista la nostra mancanza di “conquibus”. Così, anche questa volta, nonostante il notevole bagaglio e i molti chilometri, ci mettemmo in viaggio con grande entusiasmo. Pedalammo per 22 ore finché in una bella serata di giugno arrivammo a Solda e potemmo togliere il nostro “deretano” dalla sella. Fu allora che Franz, uscito due settimane prima dall’ospedale con un ginocchio quasi completamente bloccato, ammise che “il percorso fatto era il miglior allenamento per l’ascensione che avevamo in programma.”

I due terzi superiori della parete nord dell’Ortles. 36c=via Ertl-Schmid; cc=variante sinistra Gilardoni-Zappa; cb=variante diretta Messner; ca=uscita originale Ertl-Schmid; 36d=cresta NNE (Rothböck Grat); 36e=cresta NE (Marlt Grat); 36b=via Holl-Vitt (1963).

Piantammo la nostra tenda direttamente sotto la parete nord, su una piccola isola verde in un deserto di pietre e di ghiaccio. I rami nodosi di un vecchio pino cembro ci riparavano e conferivano al nostro accampamento un tocco confortevole e accogliente. Ci disturbava solo l’eccessiva prossimità di un formicaio in quanto le “care bestiole” ci fornivano uno “svago quasi eccessivo” specie nelle ore notturne. Il giorno seguente venne dedicato al riposo e allo studio della parete. Ci sistemammo pigramente fra il blu delle genziane e rimanemmo a dormicchiare al sole per alcune ore.

Un suono di campanacci ci strappò dal piacere dai sogni. Ancora mezzo addormentati ci sfregammo gli occhi. Alcune mucche erano entrate nel nostro accampamento e avevano mangiato quasi tutto il pane che avevamo. Non so proprio giudicare chi fosse, in quel momento, più intelligente, noi o il bestiame.

In ogni caso ben presto fummo “padroni della situazione” e come compenso con le mie dure manacce di alpinista munsi tutto il loro latte fino all’ultima goccia.

Alla sera facemmo i preparativi per il giorno seguente e divorammo un pasto particolarmente sostanzioso che comprendeva un grande budino di riso e latte. Al termine sgusciammo nella nostra tenda.

“Speriamo che il tempo tenga!” esclamò Franz prima di addormentarsi. Invece il tempo non avrebbe tenuto.

Alla 1.30 lasciammo il campo. L’aria era stranamente tiepida, sull’erba non c’erano tracce di rugiada e verso est, nelle tenebre del cielo notturno si vedevano addensarsi cupi nuvoloni. Invece di essere compatta la neve era fradicia e noi avanzavamo affondando fino al ginocchio.

L’acqua gocciolava nella grande crepaccia terminale alla base della parete nord. Anche qui la neve era marcia e i ramponi erano perfettamente inutili. La candela si spense e poco per volta i nostri occhi si adeguarono alla scarsa luce.  

Parete nord dell’Ortles (dove si nota la quasi totale scomparsa dei seracchi un tempo presenti nel grande canalone).

Grigi ammassi di nuvole si aggiravano nella val di Solda attorno al crinale della Punta Tabaretta. Da ogni dove salivano sbrendoli di nebbia che diventavano sempre più grandi, per poi avvolgere tutto in una uniforme nebbia grigiastra.

Appoggiandoci alle piccozze ritornammo sulla morena. Dopo di che, nel campo sull’isola verde dalle 4 in poi si sentì soltanto un forte russare, che andò avanti fino a metà giornata.

Nel pomeriggio si scatenò un violento temporale che portò la tanto attesa frescura e poco per volta l’aria si fece più limpida. il nevischio era caduto fino a quota 3000, mentre al di sopra, sulle creste e sui torrioni dell’Ortles si era disteso un soffice manto nevoso, che ora era indorato dal sole al tramonto. All’ombra il freddo era già pungente ma noi pensavamo che l’indomani non avremmo più dovuto preoccuparci delle condizioni del tempo. La parete si stava già liberando dalle trine della neve fresca e una enorme valanga polverosa precipitò a valle spazzando la gelida parete. Quello che cadeva adesso non sarebbe caduto su di noi l’indomani, fu il nostro pensiero: poi, ci infilammo nei sacchi a pelo.

In salita sulla via Ertl-Schmid della parete nord dell’Ortles

Nella notte stellata, Franz ed io riprendemmo il nostro pellegrinaggio verso la morena sul sentiero che porta alla Tabarettahütte. In basso, nel nostro campo rosseggiava ancora il fuoco che avevamo acceso per preparare la colazione. Nessuno dei due parlava e nel silenzio della notte si sentiva soltanto l’uniforme calpestio dei nostri passi e il tenue tintinnio dei moschettoni e dei chiodi appesi alla cintura. Ben presto lasciammo il sentiero e scendemmo verso la lingua di neve che porta all’attacco. Entrambi camminavamo con passo leggero là dove il giorno prima avevamo arrancato sudando con grande fatica. Sulla parte alta del ghiacciaio Marltferner mettemmo i ramponi e ci spartimmo i chiodi e i moschettoni. Ci legammo con la nostra corda di 40 metri, come oggi si fa nelle moderne difficili ascensioni su roccia, e lasciammo la Sattelplatz.

Albeggiava, quando attraversammo la crepaccia terminale passando su un ponte alto almeno un metro, lasciato da una slavina (l’aneroide indicava la quota di 2450 metri). 

Giù in basso lungo sentiero della Payerhütte si muovevano le lanterne di un gruppo di alpinisti accompagnati da una guida. Ci salutarono con un festoso augurio di buona fortuna a cui noi rispondemmo a mezza bocca.

Entrambi eravamo pervasi dalla voglia di attaccare e con poca corda fra noi salimmo letteralmente di corsa il pendio che si era fatto ancora più ripido.

Un possente risalto roccioso ci costrinse a spostarci nel grande solco della valanga che fino a quel momento avevamo accuratamente evitato. Avanzammo tenendoci sul sottile strato di neve che c’era fra i torrioni di roccia e il canalone, che qui era profondo almeno una decina di metri. Dalla parete non scendeva nulla. Soltanto qualche granello di nevischio lasciato dal temporale del giorno prima scendeva in quanto era stato smosso dalle folate del vento mattutino.

Fra quale ora, questo canale, come la canna di un cannone, avrebbe vomitato morte e rovina.

Poi la parete si allargò di nuovo, e ci costrinse ad avanzare uno alla volta assicurandoci con la piccozza.

Intanto si era fatto pieno giorno. Poco per volta i primi raggi del sole lambirono la parete e come dita tremanti ma pericolosamente calde raggiunsero la base delle torri del Tschirfeck e la Rothböckgrat. Se la nostra andatura fino ad ora era stata veloce, da quel momento salimmo di corsa mentre l’aria sibilava entrando nei polmoni. Un colatoio secondario, largo ma molto liscio, rallentò la nostra rapida avanzata. Le prime pietre passarono fischiando sopra le nostre teste.

Franz prese posto dietro una roccia e mi fece assicurazione mentre salivo. Con colpi di piccozza frenetici, mentre frammenti di ghiaccio vivo schizzavano via, tagliai un gradino dopo l’altro, profondo il minimo indispensabile per piantarvi le punte dei ramponi. Poi, il primo chiodo da ghiaccio entrò nel suo elemento. Il mio compagno poteva salire. Metro dopo metro, recuperai la corda che man mano si allungava sotto di me. Non appena Franz fu accanto a me, dopo essersi assicurato, ripresi a salire. Passo dopo passo, i miei ramponi a dieci punte si fecero strada nella neve che qui era durissima. L’inclinazione della parete doveva essere di circa 50 gradi.

Ancora 5 metri, ancora 2. Dal basso giunse l’avvertimento: “Corda finita!”.
Con un paio di colpi frenetici con la piccozza tagliai un minuscolo gradino appena sufficiente per un piede. Il corpo era schiacciato contro la parete. Con la mano sinistra e con la massima attenzione frugai dietro la schiena e dal mazzo di chiodi appeso alla cintura ne presi uno. Ne avevo piantato nel ghiaccio soltanto la metà quando dal basso mi giungeva l’avvertimento che il mio compagno aveva già estratto il suo chiodo. Tutti e due lavoravamo di piccozza come forsennati. Appena conficcato il chiodo di assicurazione, mi agganciavo e freneticamente cercavo di creare un piccolo posto di sosta. Allo stesso tempo con le mani afferravo la corda e recuperavo Franz che poco dopo era accanto a me. Il suo moschettone scattava e io ripartivo. I tiri di corda si susseguirono in rapida successione. Tagliavamo non un gradino di più, non uno di meno, con la cadenza di un orologio, ovvero, come si direbbe oggi, di una catena di montaggio.

Minacciosa, sopra il colatoio di ghiaccio, si stagliava l’ultima torre della Rothböckgrat dalla quale continuava a cadere una pioggia di sassi che passavano sopra e accanto a noi sibilando come colpi di frusta. Noi facevamo del nostro meglio. Era una gara che si poteva vincere soltanto con la velocità e la precisione della tecnica.

Alle 8 del mattino avevamo già salito il grande canale di ghiaccio, per cui eravamo a metà parete (l’aneroide indicava la quota di 3200 metri).

Il gruppo di alpinisti accompagnati dalla guida che avevamo visto al mattino adesso era sulla cresta di neve del Tschirfeck, cioè un po’ più in alto di noi. Chiaro fu lo scambio di richiami. Franz ed io pensavamo che in quattro ore saremmo arrivati in cima senza problemi. Se fosse stata necessaria un’altra ora, proprio per essere prudenti, avremmo impiegato un totale di dodici ore.

La seconda parte della parete aveva una insolita pendenza e sei enormi rigonfiamenti di ghiaccio sbarravano il canalone sempre molto ripido. Il primo strapiombo terribilmente liscio era sospeso sulle nostre teste. Sembrava che si potesse salire alla sua destra. Ad una traversata seguiva una barriera di ghiaccio che culminava con uno sperone di roccia. Sarebbe stato il passaggio chiave di tutta l’ascensione. Anche le nostre più rosee aspettative erano state deluse dalla vista di quei rigonfiamenti e di quelle muraglie di ghiaccio. Lì avremmo dovuto prendere una decisione. Una sottile striscia di neve saliva dal pendio di ghiaccio vivo verso l’ostacolo. Per un tratto riuscii a salire con i soli ramponi seppure con le caviglie doloranti. Ben presto però dovetti gradinare; il naso sfiorava la parete incredibilmente ripida. Qua e là emergeva qualche roccia coperta di ghiaccio che, liberata dalla gelida corazza, diventava un gradito punto d’appoggio. Meno gradita fu invece la scoperta che ai ramponi del mio compagno si stavano spezzando le punte, una dopo l’altra. Proprio ora che stavamo  iniziando la salita sul ghiaccio vivo! Uno sfortunato incidente causato dal materiale difettoso. Con questi presupposti, il prosieguo della salita sarebbe stato, soprattutto per il mio amico, delicato e pericoloso. Riprendemmo a salire, metro dopo metro, in una specie di diedro formato dalla parete di roccia e dalla parte inferiore dello strapiombo. 

Lo strapiombo, che visto dal basso formava un unico ammasso uniforme sul quale sarebbe passata la nostra via, si rivelò essere visto di fianco un insieme caotico di blocchi di ghiaccio dalle forme più svariate. Stupefatto, il nostro sguardo si perse in caverne e crepacci verdi-azzurri. Camini e quinte sottili alte più di 80 metri sembravano invitarci a sostarvi e salirvi, ma ne fummo distolti dai cupi rimbombi e dagli scricchiolii che provenivano dall’interno dello strapiombo e che ci indussero a riprendere la salita il più velocemente possibile. Ogni tanto dei ghiaccioli rotolavano sulle cupe pareti rocciose alla nostra destra, allentati dal sole di mezzogiorno. Pieni di ansiose aspettative, guardavamo ogni volta le grandi protuberanze di ghiaccio, che si nascondevano qualche centinaio di metri più in alto, con superfici fratturate verdi, pronte per una tempesta sugli scogli.

Franz Schmid

Ho continuato a tagliare, in un lavoro duro ed estenuante. Ho tirato su il corpo alle tacche con dita rigide e sanguinanti. Le dita bagnate furono presto ferite dalle schegge di ghiaccio taglienti. Il freddo lacerò le piccole ferite e ogni passo e passo fu finalmente segnato in rosso. Ho guidato gancio dopo gancio e ogni volta mi rallegravo quando il mio moschettone autoassicurante veniva agganciato.

Dopo un tiro di corda, però, dovemmo fermarci, ammutoliti e impotenti, alla ricerca di un passaggio. Davanti a noi c’era un muro di ghiaccio senza fessure e camini, nulla se non una parete liscia, cristallina e repellente. “Se fossimo lassù, soltanto un tiro di corda più in alto, là dove splende il sole!” La piccozza lavorava con ritmo incessante. Venti, trenta colpi erano necessari per ottenere una tacca in quel ghiaccio incredibilmente duro e fragile. Ogni paio di metri piantavo un chiodo un po’ per sicurezza e un po’ per riprendere fiato.

Di tanto in tanto, candelotti di ghiaccio cadevano contro le cupe pareti rocciose alla nostra destra, allentati dal sole di mezzogiorno. Spesso, preoccupati guardavamo in su e vedevamo, alcune centinaia di metri più in alto fra le rocce, i grandi ammassi di ghiaccio dalla superficie verdastra fessurata, pronti a precipitare.

Ho continuato a tagliare gradini facendo un lavoro duro ed estenuante. Di gradino in gradino salivo aiutato dalle dita irrigidite e sanguinanti. Le dita bagnate furono presto ferite dalle schegge di ghiaccio taglienti. Il freddo lacerò le piccole ferite per cui ogni passo fu arrossato dal sangue. Salivo chiodo dopo chiodo ed ero contento ogni volta che sentivo lo scatto del moschettone con cui mi assicuravo.

A causa del continuo tagliare gradini avevo il braccio destro che, spossato, tendeva a cedere, mentre il sinistro stentava a sostenermi. Questo “entusiasmante” lavoro dei muscoli richiedeva una volontà di ferro. Con le mie ultime forze presi il cordino con cui mi assicuravo e feci scattare il moschettone.

“Clic!” Ero appeso al chiodo. Ora, potevo almeno distendere le braccia. I muscoli si rilassarono e acquistarono nuova energia.

Toni e Franz (a destra) Schmid, in seguito alla loro prima ascensione della parete nord del Cervino.

“Molla la corda!”, Franz obbedì. Mi sollevai quel tanto che era sufficiente per agganciarmi al chiodo. “Tira”. La corda si tese. Con l’aiuto dei ramponi salii su per la parete da una tacca all’altra. finché il chiodo non fu all’altezza del mio ombelico. Il “gioco” venne ripetuto più volte.

Avevo appena ripulito con la piccozza una piccola sporgenza sopra di me quando avvertii un sordo scricchiolio. Nello stesso momento sentii l’urlo di Franz: “attento!” Di colpo si fece buio. Istintivamente mi riparai la testa con il braccio destro mentre con l’altra mano mi aggrappavo al chiodo. Furono attimi di paura, poi la luce ebbe il sopravvento. Ora, la voragine che si apriva molto più in basso stava “ingoiando con avidità” quanto era rimasto del colosso di ghiaccio che fino a poco prima ci sovrastava. Come incantati guardavamo giù nell’abisso. Che fortuna essere ancora qui e non lassù sulle rocce!

Dovevo controllare assolutamente l’eccessiva ansia da cui mi ero fatto prendere fin dal mattino, ma il costante pericolo e le enormi difficoltà della salita continuarono a tenermi in tensione.

Meno ansioso, ripresi a salire. Il risalto roccioso era sempre più vicino. Piantai l’ultimo chiodo che avevo a disposizione. Solo pochi metri mi separavano da quell’obiettivo tanto desideravo.

Poi salì Franz che recuperò i chiodi. Uno soltanto, che gli sfuggì di mano, scivolò via per sparire tintinnando verso il basso. Però, quasi tutti i chiodi che erano stati piantati nel ghiaccio durissimo si erano piegati assumendo le forme più strane. Man mano che li recuperava, il mio compagno me li mandava su con la corda. Ecco, piantato ancora un chiodo, guardingo diedi un’occhiata. Davanti a noi la via appariva evidente. Ancora una tacca, un ultimo sforzo ed eccomi su, nel sole.

Il pendio che ora avremmo dovuto affrontare era, a mio parere, inclinato a circa 60 gradi. Compreso fra il prossimo strapiombo e la parete di roccia sembrava “pianeggiante” rispetto a quelli superati precedentemente. Qualche metro più in alto, sulla sinistra, c’era una fascia di neve fresca, dove fu possibile sostare e fare sicurezza! Riuscii a infilare la piccozza nella neve fino al becco, scavai una buca profonda, e il mio  compagno poté raggiungermi senza problemi. 

A lungo lo sentii martellare fino a quando dietro lo spigolo comparve il ciuffo dei suoi capelli neri. Con un ghigno soddisfatto mi passò il mazzo dei ferri che una volta avevano l’orgoglioso nome di chiodi da ghiaccio e che ora sembravano rottami ferrosi. Uno sguardo all’orologio ci disse che erano le 2 del pomeriggio.

Dopo 11 ore, era la prima sosta. Con avidità mangiammo un po’ di frutta secca e un pezzetto di pane nero con lo speck. Dietro di noi c’erano più di 1000 metri di parete ma altri 400 ci separavano dalla cima. Avevamo impiegato quattro ore e mezzo per superare gli ultimi 40 metri. Dopo la breve sosta riprendemmo a salire. Qui la parete era piuttosto articolata e facendo la massima attenzione riuscimmo a salire senza dover tagliare gradini. Ogni 20 metri piantavamo un chiodo dopo averlo raddrizzato alla meglio. Dopo altri 60 metri anche il secondo ostacolo fu dietro di noi. Adesso eravamo alla stessa quota del punto in cui convergono la Martlgrat e la Rothböckgrat e speravamo di poter continuare la salita con una relativa facilità. Invece, il ghiaccio diventava sempre più duro e all’altezza del terzo e del quarto strapiombo, dove era particolarmente ripido, fui costretto a intagliare dei gradini e assicurarmi con i chiodi.

Ad ogni colpo di piccozza, il sottile strato di ghiaccio che ricopriva la parete si frantumava fragorosamente. Sulle montagne attorno a noi già si allungavano le gelide ombre della sera quando, verso le 6, potemmo finalmente affrontare gli ultimi due rigonfiamenti di ghiaccio e il triangolo sommitale il quale, alto sopra di noi, splendeva nel dorato fulgore del tardo pomeriggio.

Durante tutta la giornata non dovemmo preoccuparci del tempo. Il cielo azzurro si inarcava su di noi salvo un paio di insignificanti nuvolette che stazionavano a nord sopra le montagne di casa.

Il penultimo rigonfiamento presentava un tratto di ripido ghiaccio vivo coperto da uno spesso strato di cristalli di neve inconsistente tenuti assieme da un sottile velo di ghiaccio.

Con la mano destra piantavo la piccozza orizzontalmente nella neve che ricopriva la parete di ghiaccio finché il manico, sebbene corto, non era ben ancorato in profondità. Con la mano sinistra invece scavavo uno dopo l’altro buchi profondi nella massa nevosa instabile. Procedevo come se nuotassi, cercando di salire con movimenti scomposti; nonostante lo sforzo indicibile, non guadagnavo in altezza che pochi centimetri. Così mi trovai bloccato sotto il rigonfiamento in un diedro poco profondo formato sulla destra dalle rocce coperte di ghiaccio e sulla sinistra dalla insidiosa neve inconsistente. Finalmente con la mano destra riuscii ad afferrare uno spuntone di roccia e riuscii a tirarmi fuori da questa posizione pericolosa. Però, non c’era alcun modo per poter piantare un chiodo, mentre sentivo che a poco a poco le forze mi abbandonavano. Dannazione, la mano si serra per i crampi. Con uno sforzo incredibile riuscii a prendere un chiodo e a piantarlo fra il ghiaccio e la roccia. Ci fosse stato almeno un piccolo appoggio per la mano sinistra! Riposai un attimo, mi mossi per un ultimo disperato tentativo. 

Con la mano sanguinante cercai freneticamente un appiglio fra la roccia e il ghiaccio. In un tentativo disperato riuscii ad salire un metro, uno solo, mentre soltanto due metri mi separavano dal bordo del risalto oltre il quale avrebbe potuto esserci un punto di sosta.

Io però ero al limite delle mie forze. Non ce la facevo più. Era da più di 15 ore che lottavamo contro la parete e non c’era ancora alcuna prospettiva di successo! Se soltanto avessi potuto fermarmi anche per pochi secondi e riposare! Avevo maledettamente bisogno di recuperare le forze. Mezzo tiro di corda più in basso intravvedevo l’ultimo minuscolo punto di sosta, ma raggiungerlo arrampicando in discesa era impossibile. Se mi fossi abbassato, anche soltanto di una decina di centimetri, avrei perso l’equilibrio. Impotente, guardai le mie mani ferite che erano ancora aggrappate saldamente all’appiglio. Per quanto ancora avrebbero resistito? Ero indifferente al fatto che ero distante dall’ultimo chiodo sotto di me, l’unico attraverso il quale passava la corda. Se, adesso, mi fossi lasciato andare?   

Gettai uno sguardo verso il mio compagno. Teneva stretta la corda con le mani irrigidite dal freddo. I suoi piedi erano già insensibili. Eppure, né una parola di risentimento né un lamento uscirono dalla sua bocca. Molto attento, seguiva la mia progressione.

Tranquillo, pronunciava parole di incoraggiamento e di plauso per quanto stavo facendo. “Vai avanti tranquillo, Hans, il peggio passerà presto”. “Guarda, lassù c’è la cima, si vede; la nostra redenzione!” “Se le forze ci abbandonassero e la notte ci cogliesse qui, in mezzo a questa parete di ghiaccio?” “Allora ci assicureremmo alla parete e ci infileremo nei sacchi a pelo. Domani sarà un nuovo giorno!” Quanto è bello avere qualcuno accanto con cui condividere onestamente gioie e dolori. Poco alla volta il mio vecchio spirito combattivo si ridestò, insieme alla voglia di vivere e di uscire finalmente fuori da questa terribile parete. Due metri alla mia destra scorsi una lastra di ardesia che sporgeva dal ghiaccio. Se l’avessi raggiunta avremmo vinto la partita. Con l’aiuto della corda avrei potuto raggiungerla, ma non ero riuscito a mettere neppure un chiodo su cui poter fare affidamento. Non importa, ci proverò. Infilai un chiodo fra il ghiaccio e la roccia. Con due colpetti lo piantai completamente. Avrebbe sopportato la trazione? L’appiglio di roccia sarebbe stato solido? Oppure la lastra di ardesia era soltanto appoggiata? Non dovevo pensarci. Dalla mia posizione, schiacciato contro la parete, presi fiato e mi innalzai.

Altra immagine recente della parete nord dell’Ortles (dove si nota la quasi totale scomparsa dei seracchi un tempo presenti nel grande canalone).

Con la massima attenzione, per non sollecitare troppo il chiodo più dello stretto necessario, mi spinsi verso l’alto centimetro dopo centimetro. La trazione esercitata sul chiodo era notevole, il ferro scricchiolava in modo preoccupante. Ecco, uno schianto, un ultimo sforzo disperato; Dio sia lodato, ero arrivato là, proprio dove volevo! Lasciato il chiodo, scese tintinnando lungo la corda verso il basso. Ero riuscito a salire un metro.

Incastrai il pugno sinistro in una fessura dello strapiombo di ghiaccio e per un momento fui in grado di riprendere fiato. Qui, però, come sospettavo, non c’era un punto di sosta. La parete di ghiaccio si innalzava ripida ed uniforme verso l’alto. Piantai un chiodo fino all’anello e con lo schiocco del moschettone tutte le preoccupazioni scomparvero. Con maggiore facilità di prima, superai lo strapiombo, salendo sulla destra un canalino ghiacciato di una decina di metri. Lì, cercai di piantare l’ultimo chiodo ancora non deformato che avevo, ma non aveva intenzione di entrare. Gli altri chiodi, per lo più inservibili, erano nel sacco del mio compagno. Neppure con il chiodo che avevo piantato potevo assicurarmi perché mi sosteneva a malapena. Per giunta, le due corde non erano più tese.  

Però… forse quaranta metri sopra di me, sopra l’ultimo ostacolo, c’era un posto sicuro per sostare? Se noi ci fossimo slegati dalla seconda corda avrei potuto raggiungerla. Passai la corda nel moschettone. Con le due corde legate assieme continuai a salire. Dietro di me, penzolavano 40 metri di corda fradicia, come fossero una coda, facendomi continuamente perdere l’equilibrio.  

Non inciampare! Non scivolare! Avevo la fronte imperlata di sudore. Non c’era neppure l’ombra di una sicurezza vera e propria e con il mio compagno era legato solo moralmente. Soltanto in quel momento mi resi conto veramente di quanto cattive fossero le condizioni del ghiaccio e quanto insolitamente ripida fosse la parete. Fui ben lieto quando, superati gli ultimi metri, raggiunsi il punto di sosta.

Una spaccatura appena coperta di neve si apriva in corrispondenza del bordo superiore della terrazza e dopo essermi fatto largo nella coltre di neve scesi fino al fondo verdastro. Non avrei potuto trovare un posto migliore per fare sicurezza. Con un urlo da indiano invitai il mio compagno a raggiungermi. Lo zaino pesante lo rallentava mostruosamente e solo con uno sforzo indicibile arrivò al chiodo. Finalmente, riuscii a liberare la corda incastrata. Con una leggera pressione del becco della piccozza anche l’ultimo chiodo fu tolto e poco dopo Franz mi raggiunse. Rannicchiati l’uno vicino all’altro ci concedemmo la seconda sosta della giornata.

Mentre masticavamo qualche zolletta di zucchero studiammo la parete. A nostro parere l’inclinazione era sui 50 gradi, ma non pareva ci fossero altri problemi. In un attimo dubbi e perplessità sul successo della nostra salita scomparvero.

Tremando di freddo strisciammo fuori dal nostro gelido nido e attaccammo l’ultimo tratto. La salita nella neve profonda e crostosa era ancora terribilmente faticosa, ma quando raggiungemmo la cresta, anche questa sofferenza ebbe termine. Ancora pochi metri ed avremmo raggiunto la neve soffice dell’altopiano sommitale dell’Ortles. Avevamo attraversato la crepaccia terminale 17 ore prima. Lentamente, con il cuore festante, facemmo gli ultimi passi.

Hans e Monika Ertl

Alle 9 di sera eravamo sulla vetta. La serata era magnifica e per alcuni minuti dimenticammo la fatica. I momenti terribili, che spesso erano sembrati essere insuperabili erano alle nostre spalle. Eravamo stanchi, ma i nostri occhi brillavano di gioia per la vittoria. Era la soddisfazione per aver lottato e aver aperto una via alla quale altri, fino ad allora, avevano dovuto rinunciare.

Violente folate di vento ci annunciarono l’arrivo del maltempo e ci distolsero dall’idea di bivaccare sulla cima. Nell’oscurità della notte, attraversammo il labirinto di crepacci pur continuando ad affondare fino al ginocchio in una neve inconsistente.

Sotto l’ingannevole chiarore lunare ci avventurammo a tentoni su pendii sdrucciolevoli e sentieri di guerra abbandonati. Completamente esausti arrivammo alle 11 di sera alla Payerhütte. Questa era chiusa, ancora assopita nel profondo sonno invernale. Trovammo però aperta la porta della stalla dove trovavano riparo i muli. Accendemmo un fiammifero. Il pavimento era coperto di paglia e letame della scorsa estate. Poco dopo, su questo morbido giaciglio, due alpinisti felici si addormentarono e sognarono nuove imprese e nuove mete.

Hans Ertl
Nacque il 21 febbraio 1908 a Monaco, in Germania. E’ stato alpinista, cineoperatore e propagandista nazista. È noto soprattutto per essere il padre di Monika Ertl, la guerrigliera comunista che ha assassinato Roberto Quintanilla Pereira, l’uomo responsabile del taglio delle mani di Che Guevara.

Nel 1939, mentre si preparava a partire per girare un film in Cile, Ertl fu arruolato dal Terzo Reich come “corrispondente di guerra”. Come cameraman nella Germania nazista ha lavorato con la regista Leni Riefenstahl in molti dei suoi film di propaganda nazista , tra cui Olympia. Durante la seconda guerra mondiale fu tra i cameraman preferiti al seguito del generale Rommel, cosa che gli valse la reputazione di “fotografo di Rommel”.

Durante la prima parte della carriera, ha inventato una fotocamera subacquea e una fotocamera montabile sugli sci, che hanno entrambe trasformato il modo in cui sono stati girati i film. A metà degli anni ’50, dopo un arresto da parte degli Alleati e il divieto di lavorare professionalmente in Germania, Ertl fuggì in Cile e finalmente si trasferì in Bolivia, dove realizzò due lungometraggi documentari simili a “film di spedizione”. Si è imbarcato su un terzo ma ha smesso dopo che il suo trattore si è schiantato su un ponte di legno con a bordo due terzi delle riprese esposte non assicurate. Frustrato, decise quindi di diventare contadino e si ritirò a La Dolorida, un pezzo di terra semi-giungla nella Bolivia orientale, dove era conosciuto come “Juan”.

Delle sue tre figlie, quella preferita era Monika Ertl , con la quale Ertl si arrabbiò quando questa decise di unirsi al movimento di guerriglia ELN di sinistra nel 1969. Ha rifiutato di permetterle di convertire una parte della fattoria in un campo di addestramento militare. Quando Monika fu uccisa dall’esercito boliviano come punizione per aver presumibilmente contribuito all’assassinio nel 1971 del colonnello Roberto Quintanilla Pereira, console boliviano ad Amburgo, suo padre fu “sollevato dal fatto che fosse andata in pace”.

Era anche un conoscente di Klaus Barbie e, in precedenza, presumibilmente un amante della Riefenstahl. Raramente tornò in Germania, dove si era sentito defraudato del riconoscimento di un importante premio cinematografico, ma giorni prima della sua morte avrebbe chiesto a sua figlia Heidi, che viveva in Baviera, di inviargli una borsa di terra tedesca.

Morì 23 ottobre 2000 a Chiquitania e fu sepolto nella sua fattoria boliviana, che oggi è un museo.

La parete nord del Gran Zebrù. Da sinistra, n=via Minnigerode; na=variante Brigatti-Zangelmi; m=via Klimek-Gruhl; l=via Thomas Gruhl (Klimek-Grasegger); h=via Ertl-Schmid (con le due uscite possibili, a sinistra o a destra della “meringa” di ghiaccio finale; non sono segnate la variante Aschenbrenner e l’uscita diretta Diemberger sulla “meringa”.

In un articolo sul Time del 2008, la terza figlia di Ertl, Beatriz, ha negato che suo padre fosse un nazista, dicendo che ha servito per “obbligo” e che “ha fatto quello che poteva per sopravvivere”. Sua figlia ha anche affermato che la Riefenstahl era stata “l’amore della sua vita”.

Il secondo romanzo di Rodrigo HasbúnAffections, è vagamente basato sulla vita di Hans Ertl.

Tra le sue più famose salite
1930 (5 settembre): prima salita della via diretta alla parete nord del Gran Zebrù, con Hans Brehm;
1931 (22 giugno): prima salita della parete nord dell’Ortles, con Franz Schmid;
1934 (12 agosto): prima salita del Sia Kangri 7442 m, con Albert Höcht;
1950: Prima salita in solitaria dell’Illimani North 6380 m (Pico Khum) e ascensione (con Gert Schröder) dell’Illimani South 6462 m (Pico del Indio);
1951: seconda salita dell’Illampu 6368 m;
1953: fino al Campo 5, 6900 m, sul Nanga Parbat durante la spedizione tedesco-austriaca del Nanga Parbat del 1953, dove ha scattato le famose foto di Hermann Buhl di ritorno dalla sua prima salita in solitaria.

Tra I suoi lavori più importanti
1932: Assistente presso Arnold Fanck s’ SOS Eisberg;
1934: assistente presso The Eternal Dream di Arnold Fanck;
1935: Demone dell’Himalaya;
1936: Direttore della fotografia per Leni Riefenstahl s’ Olympia – Teil 1: Fest der Völker, Teil 2: Fest der Schönheit;
1938: Cameraman per Luis Trenker ‘s Liebesgrüße aus dem Engadin;
1939: Cameraman per A German Robinson Crusoe di Arnold Fanck;
1939: assistente per BDM-Werk Glaube und Schönheit nel Film Glaube und Schönheit 1953: regista e cameraman del documentario Nanga Parbat 1953.

Parete nord dell’Ortles ultima modifica: 2021-07-11T05:43:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Parete nord dell’Ortles”

  1. 1) Un italiano che in Italia si esprime in lingua italiana NON è necessariamente un nazionalista. Forse è solo una persona che ama la sua lingua madre.
    2) Un italiano che in Italia si esprime in inglese, anche quando compra il pane, non è necessariamente un uomo di mondo. Anzi, spesso è uno spocchioso o semplicemente un burino che scimmiotta gli inglesi o, meglio, gli americani, nel ridicolo tentativo di darsi importanza di fronte a chi si ostina a esprimersi nella propria lingua madre.

  2. Visto  un riscatto tecnologico:per le ferrate un aggeggio di  grande tecnica germanica , skylotec rider( marchio commerciale anglesizzante botta definitiva al nazionalismo)   che scorre sul cavo di acciaio ma si blocca in trazione verso il basso., evitando il volo con i 2 moschettoni fino al  fittone inferiore.Meno eroismi e piu’sostanza…funziona anche senza colonna sonora..tipo questa
    https://www.youtube.com/watch?v=A8mSFJDf_7U

  3. Portavano  cineprese pesanti  e macchine fotografiche , prevalendo l’ansia documentaristica al servizio prono della Propaganda,ma la suola di gomma carrarmato  la invento’  vitale Bramani, nel 1936. Eisenstecken( ingegnere inglese)con Grivel..perfezionarono i ramponi leggeri  in lega  cromolly.

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