L’Accademia della Crusca contro schwa, asterischi e genere neutro. La linguista Roberta D’Alessandro: “La lingua è parlata e decisa dall’uso dei parlanti, non può mai essere imposta”.
Per la Crusca la “schwa” è inaccettabile
di Ilaria Betti
(pubblicato su huffingtonpost.it il 28 settembre 2021)
“Il cambiamento linguistico non accade mai come risultato di un ragionamento a tavolino”: con queste parole, Roberta D’Alessandro, professoressa di Sintassi e Variazione linguistica presso l’Università di Utrecht, commenta ad HuffPost il caso dello schwa e degli asterischi sempre più impiegati nella lingua italiana per “opacizzare” le desinenze maschili e femminili, nel rispetto delle persone non binarie. L’Accademia della Crusca, in un lungo blog a firma del linguista Paolo D’Achille, si è espressa in modo deciso: “Non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo. […] L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale”. Lecito chiedersi quanto la lingua sia “imposta dall’alto” e quanto invece sia fatta dalle persone che la parlano e usano quotidianamente. Per la D’Alessandro, “non esiste regola imposta dall’alto che i parlanti abbiano acquisito – mai. Se da domani tutti volessimo cominciare ad usare l’abruzzese come lingua ‘ufficiale’ potremmo farlo senza problemi”.
″È sbagliato pensare che si tratti di un cambiamento in atto – aggiunge – si tratta di educazione linguistica, esattamente come quella che ci indica di segnare l’accento sulla è. L’accento sulla è, così come lo schwa, non sono parte della lingua: sono convenzioni ortografiche. Sbagliatissimo considerarle parte della lingua. La lingua è parlata e decisa dall’uso dei parlanti, non può mai essere imposta, e soprattutto deve essere acquisibile dai bambini che imparano. Una regola come quella dello schwa, nel sistema italiano che marca il genere binario e ha il maschile di default (cioè lo usa nei verbi impersonali o in quelli meteorologici) non è acquisibile. Ergo: occorre un esame di introduzione alla linguistica obbligatorio per tutti”.
Per la linguista, “D’Achille, che ha scritto per la Crusca, sa quello che dice”. L’Accademia, nel lungo blog pubblicato sul suo sito, ha specificato che la risposta al quesito posto dai lettori in merito all’uso della schwa “investe il piano strettamente linguistico, con riferimento all’italiano” e non il piano ideologico. E, tecnicamente parlando, il genere grammaticale e quello naturale nella nostra lingua sono cosa diversa e non hanno una sistematica corrispondenza. ”È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne. Arlecchino è una maschera, come Colombina”.
Anche far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone non binarie, non è sostenibile, secondo la Crusca. Questo perché “l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile. D’altra parte, per venire all’attualità, anche in inglese il rifiuto dei pronomi he (maschile) e she (femminile) da parte delle persone non binarie non ha comportato l’adozione del pronome neutro it, presente in quella lingua ma evidentemente inutilizzabile con riferimento a esseri umani, bensì l’uso del “singular they”, cioè del pronome plurale ambigenere they (e delle forme them, their, theirs e themself/themselves), come pronome singolare non marcato”. La linguista D’Alessandro aggiunge: “Il plurale misto non esiste tra l’altro nelle lingue del mondo – è un’invenzione – si usa sempre uno dei generi già presenti nella lingua”.
La lingua è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti: se non fosse così, Dante non avrebbe mai scritto la Divina Commedia dato che per scriverla scelse il volgare fiorentino, quello letterario e quello della vita quotidiana, inserendo anche termini popolari, gergali e osceni. Eppure l’Accademia della Crusca parla di “un sistema” ormai difficile da modificare: “Da tempo l’ortografia italiana è da considerarsi stabilizzata, il rapporto tra grafia e pronuncia non presenta particolari difficoltà e i dubbi si concentrano quasi esclusivamente sull’uso dei segni paragrafematici (accenti, apostrofi, ecc.). Questo non esclude che, almeno in àmbiti molto precisi come la scrittura in rete e quella dei messaggini telefonici, si possano diffondere usi grafici particolari, spesso peraltro transitori; ma il legame sistematico tra grafia e pronuncia, così tipico dell’italiano, non dovrebbe essere spezzato”.
L’introduzione dello schwa e dell’asterisco comportano delle complicazioni sia dal punto di vista dello scritto, sia del parlato. “L’asterisco, ad esempio, è impossibile da rendere sul piano fonetico: possiamo scrivere car* tutt*, ma parlando, se vogliamo salutare un gruppo formato da maschi e femmine senza usare il maschile inclusivo, dobbiamo rassegnarci a dire ciao a tutti e a tutte. Qualcuno ha proposto espressioni come caru tuttu, che a nostro parere costituiscono una delle inopportune (e inutili) forzature al sistema linguistico di cui si diceva all’inizio”, scrive Paolo D’Achille. Per quanto riguarda lo schwa, introdurlo nella norma sembra ancora più improbabile: prima di tutto, sul piano grafico, il segno per rappresentare lo schwa non è di facilissima realizzazione nella scrittura corsiva a mano e, in secondo luogo, nel parlato, non esistendo nel repertorio dell’italiano standard, non ha senso introdurlo.
La linguista D’Alessandro concorda sulle criticità “tecniche” dell’introduzione dello schwa, del genere neutro e dell’asterisco: “Importare un genere in un angolo della lingua implica importarlo in tutto il sistema. Lo schwa non è parte del sistema, l’italiano ha un sistema binario per tutto. Diciamo è piovuto (maschile di default), si è parlato (maschile di default). Il default dipende dalla frequenza – in inglese iniziare a usare they (tra l’altro già presente nella lingua) non comporta niente al resto della grammatica, perché l’inglese non marca il genere morfologicamente. L’italiano ha una morfologia molto ricca: il genere è espresso per esempio sugli articoli e sui participi. Non solo sugli aggettivi e i nomi”.
Se, come diceva Nanni Moretti, “le parole sono importanti”, la riflessione sull’evoluzione della nostra lingua, in segni grafici e fonemi che rispettino anche le persone non binarie, è lecita. Così come lecito è porsi domande sulla direzione che sta prendendo l’italiano e su nuovi, potenziali orizzonti. Per l’Accademia della Crusca, non si può ridurre il discorso linguistico ad un discorso ideologico: “Non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti”.
Non è la prima volta che il dibattito sullo schwa assume carattere di rilevanza. Michela Murgia, ad esempio, ha fatto da tempo delle “troncature” per questioni di genere il suo cavallo di battaglia, diventandone in qualche modo la paladina. Le questioni sociali solcano in ogni modo la lingua e a preoccuparsene devono essere soprattutto coloro che di lingua si intendono. Nell’edizione 2022 il dizionario Devoto Oli cambierà le definizioni di “uomo” e “donna”. “Il vocabolario – ha detto all’Ansa il linguista Luca Serianni – non è solo una rassegna utile di parole e definizioni particolari o difficili, ma la foto di un certo momento linguistico e quindi in certe fasi riflette il mutato senso di alcuni termini”. Fino alla scorsa edizione questa era la definizione di “donna”: “L’individuo femminile della specie umana: una bella donna; una donna colta, elegante, raffinata; scarpe, abiti da donna; i diritti, l’emancipazione della donna”. Nel nuovo testo è “essere umano adulto di sesso femminile”.
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No, Matteo, io mi sono limitato a una citazione. Chi “sbrodola” sarebbe semmai l’Accademia della Crusca, un’istituzione “leggerissimamente” piú autorevole di me e di te.
Apprezziamo l’esposizione della materia: si può essere favorevoli o no, ma in ogni caso la Crusca argomenta, soppesa i pro e i contro, considera i riferimenti storici e la situazione reale della lingua. Insomma, i suoi pareri sono ponderati, anche per argomenti di importanza assai inferiore a quella del genere.
Poi, naturalmente, ciascuno è libero di seguirne i consigli, perché soltanto di consigli si tratta.
Invito tutti a visitare il sito.
Minkia Bertoncé, ti ci metti anche tu a sbrodolare?!
…ekekazzo…
Dal sito dell’Accademia della Crusca, 9 marzo 2023.
L’Accademia risponde a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione.
Indicazioni pratiche
Evitare le reduplicazioni retoriche. In base al principio della concisione ai quali si ispira la revisione generale attualmente in corso del linguaggio giuridico, sono da limitare il più possibile interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi, espediente pur largamente utilizzabile in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Intendiamo riferirci al tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili. Per evitare questo allungamento della frase si possono scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale “inclusivo” (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile.
Uso dell’articolo con i cognomi di donne. Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, non solo nel femminile, ma anche nel maschile, che lo ammetteva, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto. Osserviamo ancora che, nel caso in cui si ometta l’articolo con preposto al cognome di persone celebri, non si verificano controindicazioni, ma in altri casi si manifesta un’evidente perdita di informazione (“La presenza di Rossi in aula” si riferisce a un uomo o una donna?); quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà sufficiente aggiungerne il nome al cognome, o eventualmente la qualifica (“La presenza di Maria Rossi” o “La presenza della testimone Rossi”).
Esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola (nei quali peraltro non compromette sistematicamente la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero, tra singolare e plurale). La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare. Ugualmente si potrà usare il maschile non marcato quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta: «Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 89, II c., Cost.).
Si tenga presente che il maschile non marcato è ben vivo nella lingua, nell’uso comune: “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, “Sono tutti sani e salvi!”, “Scendete tutti da quella barca: sta per affondare!”. In casi come questi, la reduplicazione, ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza. Inoltre, il maschile non marcato è in questi casi inevitabile: se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, occorrerebbe insomma riscrivere milioni di pagine, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine.
Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente…). Ecco alcune indicazioni in proposito.
In italiano esistono diverse classi di nomi:
1) i nomi terminanti al maschile in –o hanno il femminile in –a: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; segretario/segretaria, segretario generale / segretaria generale; delegato/delegata; perito/perita; architetto/architetta; medico/medica; chirurgo/chirurga; maresciallo/marescialla; capitano/capitana; colonnello/colonnella.
2) i nomi terminanti in –e non suffissati (quindi per i nomi terminanti in –tore e –sore si veda più avanti) sono ambigenere, cioè possono essere sia maschili che femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi…): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; ess. con aggettivo: il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente/studentessa (per professore/professoressa, vedi più avanti).
3) i nomi suffissati:3.1) i nomi terminanti in –iere: il suffisso –iere (pl. –ieri) al maschile, è al femminile –iera, (pl. –iere); ess: cavaliere (cavalieri) / cavaliera (cavaliere); cancelliere (cancellieri) / cancelliera (cancelliere); usciere (uscieri) / usciera (usciere), brigadiere (brigadieri) / brigadiera (brigadiere); nel caso di titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore va considerato che finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne;3.2) i nomi o aggettivi terminanti in -a e in –ista: al singolare sono ambigenere, mentre al plurale danno al maschile -i e –isti, al femminile -e e –iste; ess: il/la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa:3.3) i nomi terminanti in –tore: il suffisso –tore (pl. –tori) al maschile, è normalmente al femminile –trice (pl. –trici); ess: tutore/tutrice; rettore/rettrice; direttore/direttrice; ambasciatore/ambasciatrice; procuratore/procuratrice; istruttore/istruttrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria;3.3.1) eccezioni: hanno il femminile in –tora (pl. –tore) pretore/pretora; questore/ questora; e il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;3.4) nomi e aggettivi terminanti in –sore: il suffisso –sore (pl. –sori) al maschile, è al femminile –sora (pl. –sore); ess: assessore/assessora; difensore/difensora; estensore/estensora; revisore/revisora; supervisore/supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore/professoressa.3.5) nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone/commilitona; fa eccezione campione/campionessa.
4) nomi composti:4.1) composti con vice-, pro-, sotto– e 4.2) sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria/vicario, sostituta/sostituto; ess. Prosindaco (anche se il sindaco è donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco/vicesindaca; sottoprefetto/sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.
5) Pubblico Ministero: Pubblica Ministera.
Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio della potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).
@Grazia
Forse qualche minorato mentale potrebbe pensarlo…
— A PROPOSITO DI POLITICAMENTE CORRETTO —
Guida alpina, sentinella, guardia, vedetta sono sostantivi di genere femminile che molto spesso si riferiscono a maschi.
Per la par condicio del politicamente corretto, bisogna perciò introdurre i seguenti sostantivi di genere maschile: guido alpino, sentinello, guardio, vedetto.
Per esempio:
1) Il guido alpino Alessandro Gogna.
2) “Il piccolo vedetto lombardo” di Edmondo De Amicis.
3) Il Passo del Sentinello (Dolomiti di Sesto).
4) “Giochiamo a guardi e ladri?”.
“Però non uso l’asterisco e certamente qualcuno penserà che non sono rispettosa.”
Io invece penso che ti sei rifiutata di portare il cervello all’ammasso, dietro ordine di chi vorrebbe imporci una neolingua “politicamente corretta”.
… … …
In lingua italiana da sempre esiste il maschile neutro o maschile non marcato.
Se io dico: “Buonasera a tutti”, è ovvio che mi riferisco sia ai maschi che alle femmine. È un tipico caso di maschile neutro.
Amo molto l’italiano e la ricchezza linguistica in genere.
Non mi sono mai sentita esclusa se qualcuno dice o scrive “tutti”, poiché nel mio immaginario compaiono uomini, donne, bimbi e grandi, animali, piante e rocce.
Comincio sempre con un saluto quando scrivo a qualcuno e chiedo notizie sulla salute con la chiara intenzione di mettermi in ascolto. Mi fa piacere se quando parlo l’interlocutore mi guarda negli occhi e se sa essere descrittivo rispetto a luoghi e vicende, invece di tirare fuori il telefono per mostrare immagini. Faccio i complimenti ai lettori di libri cartacei sui mezzi pubblici. Lascio il posto ai più deboli e mi capita di portare borse pesanti a completi sconosciuti.
Però non uso l’asterisco e certamente qualcuno penserà che non sono rispettosa.
Felice di condividere Corrado. E il disastro che lui stesso vede.
La lingua è il tessuto di una società, le parole non solo esprimono concetti, ma ne sono anche i contenitori. I concetti esistono e si tramandano attraverso il linguaggio, senza un vocabolo a contenerlo il concetto evapora e svanisce.
La manipolazione del linguaggio operato dall’alto, soprattutto in un epoca di progressiva perdita d’identità – individuale e sociale – come quella che stiamo vivendo, ha più di una ragione per essere guardata con sospetto.
“Tu pensi, presumo, che il nostro lavoro principale sia d’inventare delle parole nuove? Ma neanche per sogno! Noi distruggiamo ogni giorno decine, centinaia di parole (…) Tu non capisci la bellezza che c’è nella distruzione delle parole. Tu sai che la neolingua è la sola lingua il cui vocabolario diminuisce ogni anno? Non capisci che il vero obiettivo della neolingua è di restringere il pensiero? Noi renderemo impossibile il crimine di pensiero perché non ci saranno più parole per esprimerlo”
https://www.ilgiornale.it/news/cronache/quanto-vale-libert-1930558.html
Si può sbattersene, ma così facendo si lascia campo aperto ad un’invasione culturale e politica terrifica. I cui costi umanistici saranno dazi a favore di chi comanda, malessere per chi li deve pagare.
La natura non ha a che fare con l’effimero.
Tutte fisime della modernità. Ci sono ben altri problemi sul tavolo (guerra, crisi energetica, recessione alle porte, inflazione, manca il lavoro…) che io personalmente di tutte ‘ste menate me ne sbatto alla grandissima. Chi è astuto farà lo stesso.
Già il fatto che di questo argomento se ne sia dovuta occupare l’Accademia della Crusca è per me motivo per pensare che stiamo vivendo tempi bui.
La vulgata se ne fotte della Crusca.
È di pari legittimità fottersene della vulgata.
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Argomenti utili nel pezzo.
Tranne che nella definizione del Devoto Oli, manca del tutto la natura.
Più che nella grammatica in essa non c’è che maschile e femminile.
Fate pure, progressisiti, le vostre terribili torri di babele erette sulla pornografia.