Quel misterioso vecchio chiodone

Quel misterioso vecchio chiodone
di Alberto Benassi
(Monte Procinto, parete est)

“Lo scoglio ove ‘l Sospetto fa soggiorno
È da mar alto da seicento braccia,
di rovinose balze cinto intorno,
e da ogni canto di cader minaccia.”
Così il poeta Ludovico Ariosto, che fu governatore della Garfagnana, scrisse a proposito del Monte Procinto.

Anche se oggi molti lo considerano una grossa falesia, non dobbiamo dimenticarci che sul compatto calcare e in mezzo agli strapiombi del Monte Procinto sono state scritte molte pagine della storia dell’alpinismo e dell’arrampicata apuana.

Senza dubbio assieme al Monte Forato e all’adiacente parete sud-ovest del Monte Nona, il Procinto con i suoi 1177 metri è la struttura rocciosa più caratteristica delle Apuane, dalla forma di un gigantesco “panettone” quadrangolare con pareti che si elevano verticali per 100-150 metri al di sopra di uno zoccolo altrettanto verticale.

Il Monte Procino come lo si vede dal rifugio Forte dei Marmi all’Alpe della Grotta. La via ferrata supera questo versante. La parete est è quella a destra, in ombra
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Tra lo zoccolo e il torrione vero e proprio corre una cengia circolare, la cosiddetta “cintura”, su cui un comodo sentiero permette di effettuare senza alcuna difficoltà il giro completo delle pareti.

Il Procinto è separato dal più alto Monte Nona dalla Foce del Procinto, dove un caratteristico ponticello in legno permette di superare un profondo crepaccio, dando così accesso alla Cintura, facilmente raggiungibile in circa 20 minuti dal rifugio Forte dei Marmi all’Alpe della Grotta risalendo il sentiero Aristide Bruni a tratti intagliato nelle rocciose pendici basali della parete sud-ovest del Monte Nona.

Sul lato ovest altri due più piccoli torrioni, la Bimba (o l’Ignorante) e il Piccolo Procinto formano l’aerea “Cresta dei Bimbi”.

La prima ascensione del Procinto viene attribuita ad alcuni boscaioli locali nel 1848; la prima salita alpinistica è di Aristide Bruni con le guide Angelo Bertozzi, Efisio e Giuseppe Vangelisti il 17 novembre 1879. Avevano collaborato pure Cesare Dinelli e la guida Celestino Bertozzi che però non erano giunti in vetta. L’itinerario fu aperto sul versante sud, dove nel 1893 e a cura della sezione CAI di Firenze fu inaugurata una via ferrata con tanto di gradini scolpiti nella roccia, cui un tempo si accedeva tramite una scala mobile in legno che veniva appoggiata alla parete dalle guide “Gherardi”, i “custodi” del Procinto, previo il pagamento di un pedaggio. Questa è la prima via ferrata d’Italia.

Il chiodone in questione
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Ma veniamo a quel misterioso vecchio chiodone.

In mezzo agli strapiombi e ai luccicanti spit del primo tiro di Confessioni di una strega, moderno itinerario sulla parete est, ecco che fa l’occhiolino un solitario e arrugginito chiodone a campanella. Ma chi l’avrà mai piantato quel vecchio e misterioso chiodone? Che ci fa lì?
Me lo sono sempre domandato, ogni volta che, arrivato alla sosta, dopo aver salito quel primo tiro, sporgendomi, me lo vedevo apparire e stimolare la mia curiosità. Certamente non l’ha messo qualche moderno climber armato di trapano o di qualche altra diavoleria di oggi.
Forse la muta testimonianza di gesta di altri tempi? Credo proprio di sì. La mia idea è che quel vecchio chiodo sia la firma lasciata, parecchi anni fa, da quattro ragazzi versiliesi.

La curiosità è tanta ma anche la vecchia e gloriosa Guida dei Monti D’Italia – Alpi Apuane edizione 1979 nel capitolo dedicato al Monte Procinto dà poche risposte: all’itinerario 166g) parla di “Parete est – è la parete più bella e difficile… fu vinta da A. Bresciani, E. Genovesi, G. Venturini e F. Viviani, l’11 settembre 1960 (RM 1975, 81); questa via si svolge tra la via Buscaglia (a destra) e la via Gamma (a sinistra), tocca la seconda a due terzi d’altezza, poi con una lunga traversata verso destra incrocia la prima e va a ricongiungersi al tratto finale della via Ceragioli-Capanna sullo spigolo nord-est”. Poi all’itinerario 166gb) descrive molto sommariamente una: “via Bresciani con variante finale. Si svolge pressoché al centro della parete. Era stata schiodata e abbandonata, ma è stata ripresa di recente”. Anche lo schizzo a pagina 419 dà un tracciato approssimativo.

Gian Carlo Dolfi
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Su alcuni punti però è decisamente chiara: la data della salita, il nome degli autori e che si tratta della prima salita della parete est.
(Nota della Redazione: Anche la piccola monografia di Giustino Crescimbeni pubblicata sulla RM 1975 a pag. 81 cita la via dei versiliesi “che aprivano la prima via della parete est”. Ma aggiunge: “In pratica questa via non esiste più, perché il percorso non è ben noto (sic!!) e fa lunghi giri poi con una lunghissima traversata va a ritrovare la via Ceragioli-Capanna dello spigolo nord-est. Via completamente schiodata, divenuta illogica da percorrere dopo l’apertura dei vari itinerari sopra descritti”).
Per trovare una risposta alle nostre domande la cosa più ovvia da fare è andare direttamente alla fonte: parlare con i primi salitori. La cosa più naturale sarebbe quella di parlare con Agostino Bresciani. Purtroppo Agostino non c’è più, quindi chiedo al mio amico Alessandro Angelini di contattare Galileo Venturini, uno dei quattro ragazzi. Alessandro lo conosce bene e non credo ci saranno problemi.

Così per soddisfare la nostra curiosità, la sera di martedì 12 luglio 2016 assieme ad Alessandro eccoci a Pietrasanta a casa di Galileo Venturini per sentire direttamente dalla sua bocca, la storia di quei quattro ragazzi.

Prima di venire mi sono preparato tutta una serie di domande per non lasciare nulla al caso. Dopo un buon caffè, preparato da sua moglie, ecco che inizia il nostro interrogatorio. Nonostante siano passati da allora ben 66 anni, la memoria di Galileo è ottima e risponde a tutte le nostre domande. A sentirlo raccontare sembra di essere lì. Poi con non poca sorpresa ci fa un bel regalo: il racconto che aveva scritto di quell’avventura.

L’11 settembre 1960 quattro ragazzi versiliesi, Agostino Bresciani, Elio Genovesi, Franco Viviani e Galileo Venturini, che arrampicano autodidatti da poco più di un anno, vincono con 65 chiodi l’ultima parete ancora vergine del Procinto: la parete est, la più bella e difficile. Le difficoltà che incontrano sono molto alte. Nessuno di loro ha mai incontrato prima di allora difficoltà del genere. Così prima della riuscita gli sono necessari ben due tentativi anche perché il tempo che hanno a disposizione è poco. Non possono di sicuro permettersi di bivaccare. I genitori non vogliono! Inoltre l’indomani sarebbe inconcepibile mancare al lavoro. Siamo in Versilia e l’alpinismo non è certo visto di buon occhio: una cosa inutile, per persone che se le vanno a cercare.

Dedicano questa loro grande prima ad Angelo Pasquini detto il Gioli, un marmista di Pietrasanta, un personaggio decisamente particolare che li aveva iniziati alla montagna e la chiamano appunto via Gioli.

Negli anni successivi molti altri itinerari e varianti verranno aperti sulla parete est, una vera ragnatela. Agostino Bresciani sarà protagonista in diverse di queste nuove aperture: via Gamm (che diventa poi Gamma), via Stefania, via Grabriela che diventeranno delle classiche.

Ma il tempo passa. Le mode, gli stili, le tecniche cambiano. L’arrivo dell’arrampicata sportiva e l’avvento del trapano rivoluzioneranno un po’ tutto. Da diversi anni gli spit hanno oramai mandato in pensione la gran parte dei ferri vecchi. La storica via Gioli è stata oramai cancellata dagli itinerari moderni anche se agli occhi attenti qualche vecchio chiodo ne testimonia ancora l’esistenza. Non so dire quante ripetizioni abbia avuto. Io non l’ho mai salita. Anche se, ripetendo gli altri itinerari, ne ho sicuramente percorso, inconsapevolmente, diversi tratti. Molti sicuramente ne ignoreranno addirittura l’esistenza.

La storia che adesso leggerete è il racconto della via Gioli, l’avventura di quei giorni, che Galileo Venturini, anche con un po’ di sano orgoglio, ha deciso di scrivere dopo la morte di Agostino Bresciani, loro capo cordata “il nostro grande, forte e buon Agostino”.

Anche perché la storia non sempre è raccontata come è avvenuta. Il numero 228, anno XXI della rivista ALP, dedicato alle Apuane, non fa nessun cenno alla via Gioli, attribuendo erroneamente la prima salita della Est del Monte Procinto ai fiorentini Gian Carlo Dolfi e Marco Rulli con l’apertura della via Luisa che invece è del 1961.

Ma quel vecchio, arrugginito e storto chiodone è ancora lì a testimoniare che quei quattro ragazzi versiliesi sono passati di lì per primi.

 

La prima salita della parete est del Monte Procinto
di Galileo Venturini

In occasione della presentazione in anteprima, a Stazzema in provincia di Lucca, sulla rivista della montagna Alp, anno XXI, n. 228, di un ampio servizio sulle Alpi Apuane a cura di Mario Verin e Giulia Castelli, Agostino Bresciani ha espresso il desiderio di aver, ancora una volta, riuniti attorno tutti gli amici con i quali, nel corso della sua vita di alpinista, ha condiviso tante soddisfazioni. Abbiamo risposto tutti all’appello dell’amico, che tanto ha dato al mondo alpinistico della nostra zona, dalle numerose prime come quella di cui parlerò in seguito, realizzate sulle “Apuane” alla promozione e direzione della stazione del “Soccorso Alpino” di Querceta che oggi raggiunge il 50° anno di vita.

Sfogliando la rivista, apprendo che la prima salita della parete “Est” del “Procinto” se la sono attribuita i fiorentini Gian Carlo Dolfi e Marco Rulli che l’hanno effettuata nel 1961 (RM 1975, 80): questo non è esatto. Loro sì, quella parete l’avevano salita, ma era la seconda via che veniva tracciata sul versante est di quella parete. Bastava consultare la Guida delle Apuane, edizione del 1979, per conoscere la situazione storica dell’apertura delle varie vie. Dopo aver letto la notizia ho preferito tacere per non sollevare polemiche anche se, qualche amico mi aveva sollecitato a scrivere alla redazione di Alp pregandola, documentando la richiesta, di pubblicare sulla stessa rivista una correzione dei fatti.

La parete nord del M. Procinto con a sinistra e di profilo, la Est, in ombra. Dietro, il Monte Nona e il Monte Matanna
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Recentemente però (2007) è avvenuto un evento che mi ha fatto decidere a scrivere la storia di quell’impresa per noi molto grande: Agostino Bresciani ci ha lasciato per andare ad arrampicare su montagne più grandi di quelle che abbiamo qui sulla terra e questa storia conosciuta nei dettagli, solo da pochi intimi, la scrivo anche per lui il nostro grande, forte e buon Agostino.

Il Procinto 1177 m è la struttura rocciosa più caratteristica della Alpi Apuane, ricordata da tutti coloro che hanno visitato la zona. Al di sopra di uno zoccolo verticale alto sui 100 metri, interrotto ad est e ad ovest rispettivamente dalla Foce del Procinto e dalla Foce dei Bimbi, si innalza un torrione quadrangolare che misura circa 150 m sia alla base che in altezza, con pareti ad andamento verticale. Sulla sommità, a forma di cono prospera una fitta macchia di essenze varie di cui alcune rare. Tra lo zoccolo e il torrione corre attorno la Cintura, pittoresca cengia ricca di vegetazione, con un comodo sentiero che gira tutto intorno. Pochi metri sotto la vetta, in un antro, gocciola una piccola fonte.

Dopo la prima ascensione e la costruzione della via ferrata, il 14 ottobre 1933 Francesco Capanna e i fratelli Sergio e Vinicio Ceragioli salirono per primi il torrione dallo spigolo nord-est, superando la difficoltà di 5° grado per la prima volta sulle Apuane. Ancora i fratelli Ceragioli vinsero nel 1937, la parete ovest con difficoltà di 5+: successivamente furono aperte molte vie sulle pareti sud, ovest e nord mentre l’unica a resistere ai vari tentativi era rimasta la parete est perché, oltre ad essere la più alta, era anche la più difficile.

Pareti est e nord del Monte Procinto. A destra, i Bimbi
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Questa parete fu vinta dopo alcuni tentativi, da quattro alpinisti locali appartenenti alla sezione CAI di Pietrasanta: Agostino Bresciani, Elio Genovesi, il sottoscritto Galileo Venturini e Franco Viviani, l’11 settembre 1960 (RM 1975, 81). Fino ad allora, ad eccezione dei fratelli Ceragioli che erano della zona, tutte le varie vie del Procinto erano state aperte da gente di fuori: Firenze, Pisa, Lucca, ecc. Questa impresa, per noi Versiliesi, è stata motivo di grande soddisfazione e, diciamolo, anche di una punta di orgoglio.

L’idea di tentare là dove molti avevano rinunciato è venuta a Elio; ne ha parlato a me e ad Agostino che abbiamo subito accettato con grande entusiasmo, pur rendendoci conto che per noi era una cosa grossa. Avevamo iniziato ad arrampicare l’anno precedente, in maniera autodidatta, istintiva; non avevamo fatto alcun corso di alpinismo perché dalle nostre parti certe cose non esistevano ancora. I primi chiodi che avevamo visto e usato erano quelli lasciati in parete da chi aveva effettuato le salite prima di noi. La nostra tecnica era molto rudimentale; ci eravamo preparati guardando arrampicare la gente di fuori che veniva dalle nostre parti e leggendo tutto quanto si trovava sulla rivista del CAI.

Cominciamo a mettere insieme il materiale che ci serviva: chiodi, moschettoni, staffe e cordini vari. La corda la prendiamo nella nostra sezione CAI che l’aveva acquistata da poco. Era una corda di 60 m in nylon ritorto.

Parete est del Monte Procinto. A destra, il Bimbo
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La sera di sabato 27 agosto 1960, con l’ultima corsa del bus di linea arriviamo a Stazzema e da lì abbiamo raggiunto una casetta in località Aglieta, che è proprio alla base del versante nord del Procinto; casetta che serviva ai proprietari come alpeggio estivo, e che molto gentilmente da tempo ci consentivano di usare. Abbiamo con noi un amico, Giuseppe che è venuto a farci compagnia. Passiamo lì la notte e al mattino presto partiamo con tutto il materiale che abbiamo potuto mettere insieme. Arrivati in breve tempo alla base della parete si compiono i soliti preliminari: ci leghiamo con la corda usando il nodo delle guide (gli imbrachi e attrezzi simili non erano ancora stati inventati): Agostino in testa, io secondo ed Elio al ricupero. Si attacca nella parte centrale della parete, in un punto precedentemente individuato, che ci darà la direttrice della salita. Mi metto in posizione di sicurezza e Agostino inizia a salire. Dopo alcuni metri trova due chiodi (Cassin), sono molto lunghi, da fessura orizzontale, ma piantati per 1/3. Ci sembra strano questo modo di chiodare e anche poco sicuro; in caso di volo possono venire via. Sono sistemati paralleli, poco distanti fra loro e questo ci fa pensare che chi li ha messi aveva intenzione di usare il sistema della forbice, con due corde. Noi non lo possiamo fare perché di corde ne abbiamo una sola: le nostre finanze non ci permettono questi lussi. Era già molto aver fatto un buon rifornimento di chiodi e moschettoni. Agostino prosegue la salita, raggiunge un terrazzino dove trova altri chiodi. E’ un buon punto di sosta, si ferma e io vado a raggiungerlo. L’andamento della parete è verticale, sopra le nostre teste sporge un tetto abbastanza marcato e per proseguire dovremmo superarlo. Ma!?! Ci si farà? Vedremo quando ci si arriva. Agostino riprende a salire, arriva sotto al tetto e trova due chiodi legati con un cordino, questo ci fa intuire che è servito per scendere a corda doppia da chi ci ha preceduto nel tentativo. Da lì in poi non abbiamo trovato più segni di passaggio di persone.

Il tempo è passato senza accorgersene: siamo già oltre mezzogiorno e la fame comincia a farsi sentire. Dal basso Elio ci comunica che sta scaldando con il fornellino a gas un barattolo di spaghetti al ragù. Appena pronti aggancia il pentolino a un cordino che ci unisce, e io lo ricupero. Appena mi arriva ne mangio una parte poi Agostino provvede a fare la stessa manovra. Caliamo il pentolino e ci manda su una fetta di carne, che nel frattempo aveva preparato. Appena mi arriva ne mangio metà, poi su come prima, stessa cosa per la mela. Per completare il pasto manca ancora una cosa… il vino e puntualmente arriva su anche quello. Forse questo nostro comportamento non è il più ortodosso, ma noi, goliardicamente, lo intendevamo così; ci comportavamo come durante un’escursione, che, invece di essere su un sentiero orizzontale, era in verticale.

Guida dei Monti d’Italia, Alpi Apuane, 1979
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Finito il lauto pasto, è mancato solo il caffè, Agostino riprende a salire, affronta il tetto sulla destra e lo supera, prosegue per un piccolo canalino e arriva più in alto a un buon punto di sosta.

Il tempo è passato veloce e giudichiamo che non è il caso di procedere oltre e così decidiamo di scendere a corda doppia. Non possiamo perdere il pullman delle 20 a Stazzema per il rientro a Pietrasanta, altrimenti restiamo bloccati qui e domani non possiamo andare a lavorare: e questo è inconcepibile.

Mi sciolgo dalla corda e Agostino la ricupera e la passa dentro l’anello di un chiodo e si cala giù. Quando mi passa vicino si lamenta perché la corda gli brucia fra le gambe. Arrivato alla base, libera la corda e mi grida di scendere. Cosa che faccio, potendo così constatare quanto è verticale la parete. A un certo punto della discesa sono sospeso nel vuoto perché la parete strapiomba, poi riprendo contatto con la roccia, arrivo alla fine e capisco perché Agostino prima si lamentava: la corda brucia tremendamente fra le gambe (benedetto chi poi ha inventato i discensori). Ci carichiamo in spalla il materiale e rientriamo alla base decisi a ritentare domenica prossima.

Durante la settimana ci ritroviamo e, constatato che in tre siamo lenti nella progressione, decidiamo di dividerci in due cordate: la prima sale veloce e la seconda recupera il materiale e lo riporta alla cordata di testa. Proponiamo all’amico Franco Viviani, uno che va molto forte, con il quale ho salito il Procinto da diverse vie con lui come capo cordata, di unirsi a noi e dopo un po’ di titubanza questi decide di far parte del gruppo. Le cordate verranno così formate: in testa va Agostino con Elio da secondo: è naturale per Agostino fare il capo cordata per la sua agilità e la capacità di individuare la via da seguire. Alla seconda cordata vado in testa io e Franco al ricupero. Gli abbiamo chiesto di farlo lui il secondo perché è molto allenato con le braccia: di mestiere fa lo sbozzatore, cioè toglie da un blocco di marmo tutto quello che non serve, per poi consegnare allo scultore l’opera per la rifinitura e questo lavoro lo porta a usare la mazzetta per giornate intere.

La domenica 4 settembre, successiva al primo tentativo ci ritroviamo alla partenza del pullman per Stazzema. Il gruppo si è allargato, oltre a Franco, si sono uniti alcuni amici che, saputo cosa andavamo a fare, si sono offerti di farci assistenza alla base della parete. Arriviamo a Stazzema, ci carichiamo in spalla gli zaini molto pesanti e via verso il nostro obbiettivo. Il tempo non è buono: speriamo bene! Arrivati alla base della parete ci prepariamo a partire, il tempo non è migliorato ma decidiamo di tentare. Agostino inizia a salire veloce sul terreno già attrezzato nel tentativo precedente, Elio lo segue e, appena libero il tiro di corda, salgo anch’io. Franco schiodando mi raggiunge al primo punto di sosta. Intanto gli altri vanno avanti. Vedo che Agostino, dopo aver raggiunto il punto da dove si era calato a corda doppia domenica scorsa, procede dritto ancora per alcuni metri, superando una placca, poi fa una lunga traversata verso destra dove trova un buon terrazzino per la sosta e invita Elio a raggiungerlo. Parto anch’io per il secondo tiro e salgo veloce sfruttando il materiale lasciato sulla via dai primi. Franco recupera il tutto poi io lo riconsegno a Elio e lui ad Agostino. Non so se questa tecnica che usiamo sia giusta. La nostra scarsa esperienza ci fa pensare, così facendo, di essere più veloci perché il nostro problema è sempre il dover rientrare a casa alla sera.

Guida dei Monti d’Italia, Alpi Apuane, 1979
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Le difficoltà che incontriamo su questa parete sono molto forti come non ne avevamo mai incontrate nelle nostre precedenti salite sulle altre vie. L’andamento della parete è verticale con tetti e placche lisce. La roccia però è buona, ben fessurata e gli appigli sono solidi, questo ci dà molta fiducia. Quello che non ci dà per niente fiducia invece è il tempo che si è messo decisamente al brutto. Il cielo è diventato molto scuro con nuvoloni che si rincorrono veloci da est verso ovest. Arriva il vento che precede la pioggia. La nebbia si infittisce sotto di noi così da non poter vedere da dove siamo partiti. Udiamo i richiami che ci fanno gli amici alla base, invitandoci a scendere. E’ evidente che sono in pensiero per noi perché, con questo tempo non riescono neppure loro a vederci. Comincia a piovere abbastanza forte, fortunatamente siamo sotto agli strapiombi che costituiscono l’uscita dalla parte centrale della parete, e ci riparano in parte dalla pioggia. La situazione è critica; ci consultiamo e decidiamo di ritirarci, loro attrezzeranno per la corda doppia il punto di sosta del terrazzino che è alla fine della traversata. Noi scenderemo dal punto di sosta da dove si era calato Agostino nel precedente tentativo. Sono in una situazione abbastanza precaria. Un piede infilato per metà in un buco nella roccia, l’altro appoggiato di piatto alla parete. Con la corda ho fatto un’asola e con un moschettone l’ho fissata a un chiodo, grosso e lungo (circa 20 cm) infisso quasi tutto in una fessura. Penso che sia un buon ancoraggio, almeno lo spero. Sono rimasto in questa posizione almeno quattro ore. Il vento turbina forte, alza la corda fissata in alto sopra di me poi, quando la raffica rallenta, mi casca tutto addosso. E’ veramente una situazione poco piacevole.

Finalmente Franco mi raggiunge e così possiamo prepararci per la discesa. Ci sleghiamo e passiamo la corda nell’anello del chiodo già usato in precedenza da Agostino. Franco si passa la corda fra le gambe, sopra la spalla e inizia a scendere. A ogni sosta che fa, lungo la discesa il contraccolpo fa piegare l’anello del chiodo verso il basso perché è stato messo orizzontale e ho paura che la torsione lo faccia rompere. Non posso non pensare al dramma che ne seguirebbe: Franco che precipita e io che rimango in parete senza mezzi per scendere su una via quasi completamente schiodata: roba da far accapponare la pelle! Man mano che procede nella discesa la pressione sul chiodo diminuisce, perché la corda allungandosi diventa più elastica poi sparisce nella nebbia e dopo poco, sento il richiamo: “Vieni, la corda è libera”. Ora tocca a me. Con il cuore stretto dall’angoscia, inizio a calarmi molto delicatamente, guardando con attenzione il chiodo e posso constatare che non fa più nessun movimento e questo mi rassicura molto. Proseguo la discesa più tranquillo, ad un tratto mi trovo sospeso nel vuoto e comincio a girare su me stesso, poi riprendo contatto con la parete e finalmente vedo nella nebbia gli amici che mi aspettano sulla cintura e la gioia è tanta nel ricongiungermi a loro, che fa passare in secondo piano il bruciore che la corda mi ha procurato fra le gambe durante la discesa. Ora siamo di nuovo tutti insieme, al riparo dalla pioggia in una delle numerose cavità che ci sono alla base di questa parete. Gli amici, che ci assistevano dalla base, ci fanno capire quanto sono stati preoccupati per la situazione che si era creata e la felicità che provano nello scampato pericolo ritrovandoci tutti insieme. Il ricupero della corda è molto difficoltoso perché, durante la discesa quando si penzolava nel vuoto, si è attorcigliata parecchio e temiamo di doverla abbandonare in parete ma, dopo molti sforzi e un grappolo di persone a tirare, finalmente è venuta giù; riponiamo il materiale nei sacchi e scendiamo alla casetta di Aglieta, dove ci riscaldiamo con un bel fuoco e dopo esserci rifocillati ci incamminiamo sotto la pioggia verso Stazzema a prendere il pullman che ci ricondurrà a casa, sconfitti ma non domati, anzi, ancora più decisi a ritornare la prossima domenica a ripartire.

La settimana sembra non finire mai tanto è il desiderio di riprovarci. Inoltre c’è il rischio che qualcuno, interessato alla cosa, possa soffiarcela. Ci riuniamo di nuovo e decidiamo, essendo ancora lungo il tratto da salire, di andare a dormire la sera del sabato successivo alla casetta di Aglieta, così la mattina, possiamo attaccare molto presto. Ciò avviene ma, essendosi sparsa la voce nel gruppo delle nostre amicizie, della notizia del tentativo che stavamo facendo, ad Aglieta ci siamo ritrovati in una dozzina. Fra una bevuta (magari anche più di una) e una cantata, abbiamo rispolverato tutto il repertorio di canti di montagna e si sono fatte le ore piccole. Normalmente prima si compie l’impresa, si raggiunge l’obiettivo, poi si festeggia. Gli amici lo hanno fatto ma l’impresa non è ancora compiuta. Forse la serata ci ha sollevato lo spirito ma sicuramente non il fisico. Non penso proprio che sia il modo migliore di preparare una salita così impegnativa. Finalmente gli amici si sono decisi a farci riposare un po’, ci sdraiamo su alcune brande e il sonno non tarda a venire.

Monte Procinto, via Gamma, Luca Massei sulla 2a lunghezza, 26 aprile 1980
M. Procinto, via Gamma, 2a lunghezza , Alpi Apuane

Alle cinque Agostino ed Elio, con il fido Giuseppe si preparano e via all’attacco. Bisogna cominciare presto perché dobbiamo richiodare i primi due tiri che Franco domenica scorsa aveva schiodato. Dopo poco anche noi ci alziamo, più assonnati di quando ci siamo messi a dormire. Cerco di fare una colazione sostanziosa, perché ad eccezione di un pacchetto di biscotti e di una borraccia d’acqua non ci sarà altro. Non siamo abituati ad arrampicare con lo zaino e dal basso non possono farci avere nulla, in mancanza di un cordino da ricupero così lungo. Arrivati all’attacco vediamo che sono già abbastanza in alto perciò ci prepariamo e io inizio a salire. Bisogna raggiungerli al più presto per fargli riavere il materiale ricuperato, altrimenti rischiano di rimanere senza. Prima di iniziare a salire avevo la bocca asciutta, forse per la festicciola di ieri sera, oppure, cosa più probabile, il timore o – per chiamarlo con il nome giusto – la paura che ti prende quando stai per iniziare una salita impegnativa. Ma superati i primi passaggi, e lì sono subito impegnativi, la concentrazione su quello che devi fare ti fa passare come per incanto tutte le paure del mondo. Noto che Agostino ha usato per salire meno chiodi dei tentativi precedenti. Passaggio dopo passaggio arrivo al punto di sosta, da dove ci eravamo calati domenica scorsa e chiamo Franco che inizia a salire. Intanto alla base della parete si è formata una piccola folla composta di amici ed escursionisti di passaggio. La giornata è stupenda, cielo azzurro e sole splendido, anche se noi non lo vediamo (il Monte Nona incombe, NdR). Sento Franco, più in basso, che smartella a tutto spiano per ricuperare i chiodi che ci serviranno per proseguire. Quando arriva a levare il chiodo sotto di me, quello dal quale ci siamo calati a corda doppia nei tentativi precedenti, deve lavorare parecchio perché è infisso in un buco chiuso e ha fatto il ricciolo. Decidiamo di toglierlo perché non lo riteniamo un chiodo sicuro a causa della torsione che ha fatto. Agostino è già alto sulla verticale di Elio che è fermo al terrazzino. Lascio il punto di sosta e vado a raggiungerlo. Pur essendo su parete verticale la traversata non è eccessivamente difficile: ci sono buoni appigli per le mani e appoggi per i piedi. In breve lo raggiungo, gli consegno il materiale ricuperato e lui va a raggiungere il suo capo cordata che intanto ha trovato un buon punto di sosta. Il terrazzino dove mi trovo è abbastanza comodo tanto da potermi sedere con le gambe penzoloni nel vuoto e dico al mio secondo di raggiungermi. Riparto e raggiungo Elio al punto di sosta. Nel frattempo, mentre salgo vedo Agostino che effettua una traversata verso destra, si cala con un cordino, per circa 3 o 4 metri e dopo un’ulteriore breve traversata, riprende a salire poi scompare dalla nostra vista; evidentemente la parete si inclina perdendo la verticale: forse è verso l’uscita. Elio mi spiega il motivo di quella ulteriore traversata: si è fatto tardi, siamo già nel pomeriggio inoltrato e bisogna concludere la salita. Non possiamo proseguire diritti e uscire nel centro della parete perché, per farlo, ci impiegheremmo molto tempo e bisognerebbe bivaccare in parete e questo per le note ragioni, non lo possiamo fare. Peccato il dover deviare dalla linea logica, sarebbe stata una via stupenda! Da dove sono vedo bene il percorso che avremmo potuto seguire. E’ molto difficile, specialmente gli strapiombi in uscita, ma nel centro, si vede un camino dal quale saremmo potuti passare. Siamo due cordate molto affiatate e, nonostante la serata un po’ strana come preparazione, andiamo molto forte e, con Agostino come capo cordata di punta, niente ci avrebbe fermato. Bisogna però sapersi accontentare.

Luca Massei sulla 4a L della via Gamma al Monte Procinto, 26 aprile 1980
Luca Massei sulla 4a L della via Gamma al M. Procinto (Alpi Apuane). 26.04.1980

Le difficoltà fin qui incontrate sono state, a nostro giudizio, sulla base delle descrizioni indicate per le varie vie del Procinto che abbiamo fatto, di 5° e 6° grado con un passaggio di 6° superiore. Ora, con questa traversata le difficoltà diminuiscono e, ad eccezione di una fessura verticale che abbiamo superato con il sistema Dülfer siamo sul 4° e 5° grado. Comincio a vedere ciuffi di paleo (erba molto resistente che dalle nostre parti usiamo anche come appiglio) e in breve raggiungo il pendio terminale. Salgo con foga e allegria gli ultimi metri e raggiungo Agostino ed Elio che, comodamente sdraiati sul paleo ci stanno aspettando. Poco dopo ci raggiunge anche Franco e tutti insieme arriviamo sulla vetta dove ci abbracciamo felici della, per noi, grande impresa che abbiamo portato a termine dopo tante peripezie. Sono le ore 19 dell’11 settembre 1960.

Questa è la storia che abbiamo vissuto in quelle tre indimenticabili domeniche di tanto tempo fa e la voglio dedicare ad Agostino, compagno di tante avventure, che ci ha lasciati.

Quel misterioso vecchio chiodone ultima modifica: 2016-12-19T05:20:36+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Quel misterioso vecchio chiodone”

  1. sono storie d’altri tempi cadute nel dimenticatoio. Fa piacere tu l’abbia apprezzato.

  2. Bellissomo tacconto che mi ha fatto tornare in mente l’alpinismo eroico ma casareccio degli anni 60 e 70, con pantaloni alla zuava, calzettoni e scarponazzi a salire vie di quinto e sesto con preparazione tecnica e attrezzatura primitiva. C’era solo l’incoscienza e l’entusiasmo della gioventù. Ho salito, per la prima volta,  la Capanna Ceragioli a diciotto anni e il mio secondo, di anni, ne aveva solo sedici. Andammo allo sbaraglio e sbagliamo pure via perché ad una sosta seguiamo dei chiodi sulla destra finendo su un tratto vergine e difficile che saliamo con la forza della disperazione e l’angoscia del buio che stava per giungere ( era il 20 dicembre del 1970)  riuscimmo poi a traversare e uscire lungo il tratto finale della Dolfi-Melucci.

  3. “In pratica questa via non esiste più, perché il percorso non è ben noto (sic!!) e fa lunghi giri poi con una lunghissima traversata va a ritrovare la via Ceragioli-Capanna dello spigolo nord-est. Via completamente schiodata, divenuta illogica da percorrere dopo l’apertura dei vari itinerari sopra descritti”).

    non sono completamente d’accordo con questa affermazione del caro Giustino.
    Visti gli ottimi rapporti di amicizia che aveva con Agostino Bresciani è strano che non abbia chiarito con lui quale era il percorso della via prima di scrivere la sua monografia.
    Inoltre la via non è “completamente schiodata” diversi chiodi vennero lasciati dagli apritori e tuttora sono presenti.
    E’ vero invece che le successive aperture delle via GAMMA (soprattutto) e della STEFANIA risolsero in maniera impeccabile e con logica la salita diretta della parete est.
    Questa pecca nella mancanza dell’uscita diretta è riconosciuta dallo stesso Galileo Venturini.
    Ma le ragioni di questa deviazione dalla linea diretta non stanno in una macanza di capacità da parte di quei “4 ragazzi” .
    A mio avviso sono piuttosto da ricercare in una forma di alpinismo casalingo che veniva dopo gli impegni della vita di tutti i giorni.
    Fare un bivacco e rischiare di mancare al lavoro il giorno dopo, era impensabile.

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