Ricordo di un ragazzo

Mi sorprendo ogni volta di fronte a chi è innamorato dell’Alto Adige/Suedtirol perché, dice, è tutto pulito e ordinato. Mi è sempre sembrata una visione moto superficiale e neppure così reale. I motivi per apprezzare o meno un luogo e un popolo, secondo me, sono molto più profondi e dopo 40 anni di vita tra queste valli, mi sento di raccontarlo con una semplice storia di vita, ambientata nei miei primi anni, quando era ancora obbligatorio il servizio militare (Marcello Cominetti).

Ricordo di un ragazzo
di Marcello Cominetti
(pubblicato su marcellocominetti.blogspot.com il 12 febbraio 2024)

Nei primi giorni del gennaio 1982 giunsi a San Candido in Val Pusteria, assegnato al Battaglione Alpini Bassano e più precisamente alla Compagnia Comando e Servizi in qualità di comandante di plotone esploratori.
Gli esploratori, poi denominati alpieri, rappresentano quello che nell’immaginario collettivo è il vero alpino.

Sciatori, alpinisti, fondisti, marciatori e sportivi della montagna in genere vengono assegnati a questa specialità delle Truppe Alpine, costituendo una élite di 21 soldati con compiti svariati che vanno da quello di fuciliere assaltatore al soccorritore alpino e all’attrezzatore di vie per fare salire tutto il resto dei reparti in montagna, sia d’estate che d’inverno con armamenti pesanti e leggeri. Nonostante i miei 21 anni non ancora compiuti, mi ritrovavo ad essere responsabile dell’addestramento e dello svolgimento di varie attività in montagna, di un gruppo di ragazzi verso i quali mai mi riuscì di applicare la disciplina ferrea che pretendevano i miei superiori. La passione per l’alpinismo e lo sci, sia di fondo che alpinistico, ci faceva sentire un gruppo di privilegiati che raramente dovevano “giocare alla guerra”, perché impegnati per lo più in attività sportive di soddisfazione.

Scialpinismo in Arhntal/Valle Aurina, Sattelspitze 2850 m

Per un periodo venimmo assegnati a svolgere il soccorso piste nel comprensorio Baranci-Monte Elmo, trascorrendo giornate che sembravano più di vacanza che di servizio militare. Fuori dalla caserma il nostro punto di aggregazione era la pasticceria Wachtler dove lavoravano cameriere bellissime e molto bella era pure la proprietaria, una certa Silvia che dopo poco più di un anno dal nostro arrivo convolò a nozze con un mio collega.

I miei alpini erano quasi tutti di lingua tedesca e, a parte un lombardo e un trentino, erano tutti sudtirolesi.
Villgrater, Stauder, Gschnitzer, Preindl, Spiess, Oberrauch, Steinwander, Daverda, Schönegger erano alcuni dei cognomi che ricordo oltre a Munari e Andreatta, gli unici due italiani. 

Arco (TN), 1982. Con i miei allievi. Indossavo le scarpette SanMarco Berhault appena uscite.

Tre sergenti comandavano tre squadre composte da 6 alpini cadauna e la loro gestione era per me la cosa più complicata, perché ero un loro superiore ma loro erano militari professionisti, mentre io lo ero per un periodo di 15 mesi perché dopo sarei tornato alla vita civile. Ciò nonostante, avrei avuto la possibilità di fermarmi nell’esercito come ufficiale effettivo e non più di complemento come ero in quel periodo.

Soggiornavo presso l’hotel Aquila Nera, in centro paese, non perché fosse particolarmente economico, ma perché mi ero invaghito della figlia dei proprietari, che però era già promessa a uno degli imprenditori della valle. Poco prima di essere assegnato al reparto a San Candido la mia fidanzata mi aveva lasciato per uno che restava a casa, perché non so per quale motivo non doveva fare il servizio militare, mentre io terminavo il durissimo corso per allievi ufficiali alla Scuola Militare Alpina di Aosta, che non mi aveva lasciato energie neppure per piangere come avrei voluto. Avrei voluto dimenticarmi di lei e pensavo che un’altra ragazza avrebbe fatto al caso, ma con quella che avevo scelto non c’era speranza perché era guardata a vista da sua madre e dal suo promettente fidanzato. Una soddisfazione, però, me la presi la sera che lei mi raccontò che voci di caserma dicevano che era arrivato un nuovo comandante del plotone esploratori che era molto benvoluto dai suoi soldati. Siccome lei non sapeva quali mansioni io avessi, me lo disse pensando che si trattasse di un altro ufficiale e non certo di me.

Sass Pordoi, 1982. L’attrezzatura da sci militare aveva fatto passi da gigante: sci Maxel, attacchi Zermatt Nepal e scarponi SanMarco Raid!

Quel mese di gennaio stava passando abbastanza piacevolmente perché a breve ci sarebbero stati i campionati di Brigata di biathlon, e con alcuni dei componenti del mio plotone ci allenavamo giornalmente e ci spartivamo i turni del soccorso piste.
Ero già stato in vacanza diverse volte con i miei genitori in Alto Adige, e quindi sapevo benissimo che gli abitanti delle valli erano quasi tutti di etnia e lingua tedesca e che non avevano in simpatia gli italiani, o almeno queste erano le voci che giravano. Loro per noi erano crucchi  e noi eravamo walschen.

Questi luoghi comuni non mi hanno mai convinto e infatti ho sempre trovato persone buone e cattive in ogni etnia, quindi i miei alpini crucchi a me piacevano e cercavo di avere il rispetto che si meritava un popolo che suo malgrado si era ritrovato italiano dopo la prima guerra mondiale. Cercavo di far capire loro che eravamo tutti sulla stessa barca e che avremmo dovuto cercare di trascorrere al meglio quell’anno di leva che la legge imponeva. Spesso firmavo dei permessi a quello che poteva essere un mio compagno di cordata per andarci a fare un’ascensione o una gita sci alpinistica, intanto non avevo di certo l’esigenza di andare in licenza fino a Genova, vista la lontananza, e questo contribuì a farmi vivere il posto e la sua gente anche al di fuori del ruolo militare che avevo.

Nei fine settimana quelli che avevano diritto a una licenza di almeno 24 ore raggiungevano spesso casa, e chi aveva un automobile lo faceva guidando come un pazzo per avere più tempo da dedicare alla ragazza o alla famiglia. Gli incidenti stradali, anche gravi, non mancavano.
Il Caporale Hartmann Daverda, oltre alla ragazza e alla famiglia, dedicava tempo alla sua passione per lo scialpinismo che aveva imparato nella sua bellissima valle al confine con l’Austria, la Valle Aurina. Anzi, se guardiamo una carta geografica noteremo che la Valle Aurina, o Arhntal nel suo nome originale, altro non è che una penisola in territorio austriaco i cui confini sono una linea politica che nulla ha a che fare con l’effettiva geografia del luogo. E’ la parte più settentrionale del nostro paese, dove la cima Klockerkarkopf è stata rinominata Vetta d’Italia.

Arhntal, 2024. Verso la Sattelspitze, sullo sfondo l’abitato di Prettau/Predoi.

Io sono italiano, ma uso più volentieri le denominazioni tedesche di questi luoghi perché sono quelle originali. Durante il fascismo ci fu un certo Tolomei che il Duce aveva designato come colui che avrebbe dovuto italianizzare tutti i toponimi tedeschi, spesso senza tradurre semplicemente il nome ma attribuendone uno di fantasia che nulla aveva a che vedere con il significato di quello originale.
Se nella storia si sviluppò un odio verso gli italiani da parte di molti alto-atesini (o sudtirolesi), il motivo va cercato anche nei modi autoritari, colonialisti e irriverenti verso la cultura sudtirolese che i politici italiani hanno usato fino agli anni ’80.

Nel 1956 si costituì in Alto Adige un gruppo irredentista tirolese che voleva l’indipendenza dall’Italia e che pose tra i suoi primi obiettivi, come gesto altamente simbolico, la distruzione della tomba di Ettore Tolomei. Fino alla fine del 1988 ci furono 361 attentati dinamitardi e/o armati con un totale di 21 morti e diversi feriti. Lo Stato Italiano, per combattere l’ondata terroristica, istituì una task force costituita da Carabinieri, Finanzieri, Poliziotti, Paracadutisti e Alpini che agiva nelle valli di confine con l’Austria, perché molti dei terroristi andavano e venivano da quest’ultima.
Tra le fila nazionali c’erano ufficiali e sottufficiali spesso razzisti e un po’ esaltati. Ne ho conosciuto qualcuno restandone impressionato non proprio positivamente e uno di loro era un mio diretto superiore. Costoro parlavano dei sudtirolesi come avrebbero fatto i cowboy degli indiani d’America ed era evidente che un clima simile non avrebbe di certo favorito un rapporto civile tra i due gruppi etnici.

I primi di febbraio del 1982 un venerdì sera consegnai dei permessi agli alpini che durante il fine settimana avrebbero avuto una breve vacanza dall’Esercito, chi solo il sabato e chi, più fortunato, sarebbe rientrato la domenica sera in tempo per il contrappello che veniva fatto alle 23.
Il lunedì successivo all’adunata di tutto il Battaglione nel cortile principale della caserma General Cantore la fila di una delle mie squadre aveva un “buco” perché un alpino mancava dal suo posto. Era il posto del vice-comandante di squadra, ruolo di solito ricoperto da un Caporale. Prima dell’alza bandiera uno scritturale di fureria della mia Compagnia mi avvicinò sussurrandomi che Daverda era morto sotto una valanga il giorno prima.

Ci dovemmo comporre velocemente per la cerimonia giornaliera in cui ogni singolo comandante di Unità riferisce al comandante del Battaglione eventuali novità.
Il tutto avviene in maniera assai formale e veloce con at-tenti, riposo e saluti al cappello senza lasciare spazio a ulteriori convenevoli, che semmai possono poi seguire una volta terminata l’adunata nei rispettivi uffici dei comandanti.
Dovetti dire senza fronzoli o emozioni al Tenente Colonnello: 20 alpini presenti di cui uno assente perché deceduto in licenza.

1982, esercitazione con barella Mariner sulle Torri di Sella

Rotte le righe, ognuno si dirige ai suoi compiti ma io dovetti passare per l’ufficio del comandante a riferire con più dettagli cosa fosse accaduto a Daverda.
Dovetti anche andare dai Carabinieri a denunciare l’accaduto, e assieme chiamammo a casa del povero Daverda per sapere più dettagli e quando ci sarebbe stato il funerale.

Era chiaro a quel punto che tutto il mio plotone avrebbe dovuto essere, secondo me, a Prettau (Predoi) due giorni dopo al funerale del nostro amico Hartmann.
Non era così chiaro, però, secondo il mio comandante, che era uno di quelli che fino a poco tempo prima aveva fatto parte di quella Unità Speciale di Rinforzo per l’Alto Adige che contrastava il terrorismo. Alla mia richiesta di farci partecipare al funerale del nostro amico mi rispose che quella era una zona “calda” per l’attivismo sudtirolese e che non sarebbe stato prudente andare come militari proprio lassù. D’altro canto, non concedeva un permesso a tutto il mio plotone per farci andare al funerale, quindi ci saremmo dovuti andare mentre eravamo in servizio! Ovviamente in divisa e con i mezzi militari.

Per me era la prima volta che perdevo un amico in montagna. Sentivo come un dovere il dargli un ultimo saluto e l’avrei fatto con tutti i compagni di caserma!
Hartmann era un tipo in gamba, ottimo sciatore, di poche parole, specialmente in italiano perché oltre a: fucile, zaino e licenza, non sapeva dire di più, ma il suo sguardo intelligente era sufficiente per capirci e poi era sempre di buon umore e aveva carisma sugli altri. Per quello l’avevo fatto promuovere Caporale e, anche se lui rideva del fatto che l’Esercito di un paese “nemico”, perché quella era la sua percezione, gli avesse addirittura dato delle mansioni di comando, sapevo che ne era anche un po’ fiero. Si vedeva da come si rivolgeva ai suoi compagni ai quali ironicamente dava degli ordini con voce marziale che puntualmente venivano derisi scherzosamente, lasciando però trasparire negli altri una sorta di ammirazione per quel ragazzo tarchiato che sugli sci era una forza della natura anche sulle nevi più difficili.

1982, Val Badia. Diedro Mayerl, Sass dla Crusc.

Daverda aveva una sciata molto naturale e solo apparentemente aggressiva. Si capiva che comandava lui e non la neve. Teneva gli sci paralleli ma non uniti come si usava allora. Sciava con gli sci alla distanza naturale secondo la larghezza del proprio bacino, tecnica che di lì a poco sarebbe divenuta “ufficiale” perché garantisce un maggior equilibrio e un’azione sterzante in curva più efficace.

Era mitragliere e portava a tracolla la mitragliatrice MG 42/59 dal peso di una dozzina di kg più il nastro di cartucce! Durante un’esercitazione a Passo Montecroce Comelico si era lanciato giù da un canale ripidissimo in un bosco fitto di larici con ai piedi gli scarponi da sci d’ordinanza, che erano gli stessi in cuoio che tenevamo ai piedi in caserma, gli sci di legno con le lamine avvitate e l’attacco Silvretta-Kandahar, sparando (a salve) all’impazzata sul nemico mentre io scendevo lo stesso versante coadiuvato dal Sergente Costa e la sua squadra in cui un membro portava un lanciarazzi leggero anticarro (detto bazooka), ma su terreno aperto. Daverda ci copriva. Avevamo tutti lo zaino pieno di cose inutili, quindi piuttosto pesante, le tute mimetiche bianche in spesso cotone che non permettevano di certo movimenti sciatorii fluidi e il FAL (fucile automatico leggero, ma solo di nome) a tracolla, più le munizioni, qualche bomba a mano in tasca e l’elmetto d’acciaio calcato in testa. Per fortuna che eravamo giovani e forti!

Dietro di me c’era sempre il fido radiofonista, un trentino di Tione che, oltre allo zaino sulla schiena e l’armamento d’ordinanza come gli altri, aveva appesa sul petto una radio RV3 per una buona dozzina di kg più l’antenna lunga 3.5 m che si impigliava ovunque nel bosco. Eppure riuscivamo a muoverci abbastanza agilmente nella neve fonda fino a che ci ritrovammo su un versante dove la neve era durissima, la pendenza piuttosto ripida e dovevamo assolutamente ripararci dal tiro nemico. Andreatta, il radiofonista, slittò perdendo il controllo travolgendomi e insieme iniziammo a ruzzolare verso valle con tutte le nostre pesanti attrezzature. Ci arrestammo fortunosamente su un balcone da dove Daverda/Rambo poteva vederci, ma non si spiegava perché fossimo uno addosso all’altro. Mentre ci districavamo cercando di darci un contegno, mi scappò un: Andreatta, che cazzo fai! La risposta fu: zio can, tenente, go ciapà l’giaz!

La sera, da Frida, sul lago di Dobbiaco, dove andavamo ogni tanto a berci una birra, dovetti offrire da bere per tutti.

Il tempo che mancava al funerale era sempre meno e il comandante non si decideva ad autorizzare la nostra partecipazione. Ci trovavamo in una situazione in cui avremmo fatto anche la cazzata di contravvenire agli ordini ammutinandoci, tanto era la convinzione che avevamo di andare a salutare l’ultima volta il nostro amico a casa sua. Lo riferii al Colonnello che, seppure contrariato, capì che nel nostro plotone c’era un forte sentimento di amicizia e di tristezza per avere perso un compagno di avventure. Perché sono lo sforzo e il disagio a creare le vere amicizie. Alla fine ci consentì di andare a Prettau ufficialmente, al funerale del nostro amico Hartmann.

1982, Hans Peter Steinwander sulla via Cassin, Cima Ovest di Lavaredo

La mattina presto feci preparare un autocarro Lancia ACL e un FIAT ACM sui quali prendemmo posto. A febbraio in Alta Pusteria le temperature erano tutt’altro che alte. Direi che nella maggior parte dei giorni erano decisamente polari! A quei tempi la truppa viaggiava armata sul cassone degli autocarri con il telone sollevato per motivi di sicurezza, tanto più da quelle parti, e gli spostamenti erano un vero supplizio dato il freddo. Arrivati a Prettau parcheggiammo i due autocarri sotto la chiesa davanti agli sguardi stupiti degli astanti. Feci lasciare le armi sui camion con a guardia i due autisti, armati a loro volta. La funzione fu semplice e commovente pur nella sua freddezza teutonica e il prete ringraziò anche in italiano, cosa stupefacente, noi che eravamo intervenuti. Dopo la sepoltura ci fu un rinfresco, cosa per me inusuale, e tutto si svolse in un modo a me sconosciuto, ma che in qualche modo mi faceva capire che c’era dell’affetto tra tutte quelle persone, anche verso di noi in divisa “nemica”, e che la passione per la montagna ci teneva uniti ben oltre l’obbligo militare.

Aprile 1982, Val Mesdì, Corvara

Nel 2021, in piena epoca Covid 19, andai a fare una gita di scialpinismo con un amico proprio sopra al paese di Prettau. Al ritorno chiesi all’ amico di fermarsi un momento con la sua macchina davanti alla chiesa attorno alla quale c’è un giardino costellato di tombe. In Sudtirolo i cimiteri sono intorno alla chiesa. C’era quasi un metro di neve e cercare la tomba di Hartmann non era facile, anche perché non ricordavo dove fosse. Non la trovai e tornai alla macchina.
Nel 1983 a Finale Ligure avevo aperto una nuova via di arrampicata a Monte Cucco su una parete alta poco meno di un centinaio di metri. L’avevo chiamata Hartmann e ogni volta che risalgo con le pelli di foca sotto agli sci una laterale della Arhntal per raggiungere qualche cima, mi ricordo con nostalgia di quel sorriso irriverente.

Ricordo di un ragazzo ultima modifica: 2024-04-30T05:21:00+02:00 da GognaBlog

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40 pensieri su “Ricordo di un ragazzo”

  1. Ciao Alessandro,

    Sono la nipote di Hartmann e ho inoltrato il tuo meraviglioso articolo (complimenti!) a mia madre, sorella di Hartmann. L’ha commossa fino alle lacrime. Oggi è l’anniversario della morte di Hartmann e i tuoi ricordi sono stati come un regalo. Grazie di cuore per questo.
    Mia madre e il resto della famiglia di Hartmann sarebbero felici di conoscerti (anche se pure noi, in Italiano, non sappiamo dire molto di più che “zaino” e “licenza” 😉 ).
    Ti lascio il mio indirizzo Email:
    tiina.hofer@gmail.com

  2. Ho conosciuto Marcello ad Aosta nell’81, Scuola Ufficiali, entrambi esploratori. Splendido ragazzo, grande alpinista, vero amico. Ricordo la Vinatzer al Sella con lui, ovviamente capocordata. E poi le amicizie che nascono ad Aosta sono eterne.  Il suo racconto mi ha fatto rivivere sensazioni forti che , anche se diverse, sono ancora vive in me. 
    Un abbraccio dalla “macchietta” del 104!!

  3. Hoi Marcello! Mi ha girato Peter Paul l’articolo….. L’ho letto ormai più volte , sempre con le lacrime che mi scendevano giù per le guance. Hai uno stile di scrivere invidiabile, profondo, obiettivo, una dote che pochi hanno ….. Complimenti!  Bergheil Caporale Johannes Oberrauch, uno di quelli senza disciplina – selvaggio delle montagne.
    Ti lascio il mio indirizzo mail, sperando che tu ti faccia vivo, a stretto giro: j.oberrauch@inode.at

  4. Ecco un nuovo e bel racconto di montagna vissuta e di amicizia da parte di Marcello Cominetti.
    Viaggiatore, Alpinista e Guida Alpina che non ho mai avuto il piacere di incontrare e conoscere personalmente da qualche parte sulle Alpi, Dolomiti oppure a Finale Ligure.  Però un comune e speciale Amico che ci accomuna lo abbiamo, anche se ora: purtroppo, ci osserva dalle cime del Paradiso o meglio da Chomolungma come usano dire gli Sherpa del Khumbu quando una persona cara ha lasciato la vita terrena.
    Il mitico Icaro, compagno di parecchie e stravaganti giornate sui monti e non solo. L’ultima volta che l’avevo incontrato: ormai qualche anno è trascorso da allora, tra saluti e ciacole varie, si era parlato pure di Te, stava scendendo con un gruppo di Vostri clienti dal sentiero che porta a Namche Bazar nella valle del Khumbu, io invece stavo salendo per tornarmene a casa dopo un ennesimo e lungo giro tra le vallate e le cime dell’Himalaya.
    Il Sud Tirolo e la regione dell’Everest non sono poi così distanti come dicono.  Se per caso un giorno dovessi transitare da queste parti una  birra fresca la tengo sempre in fresco per amici e conoscenti. Ciao Floriano     

  5. Bellissimo racconto, un intreccio di ricordi di avventure in montagna, gioventù e naja, in una regione che agogno sempre di tornare. La perdita di un amico in gioventù,  triste filo conduttore, ma efficace soprattutto se a dividere sono la lingua e una cultura differente. Ma la montagna unisce tutti.

  6. Bellissimo racconto scritto veramente bene.  Complimenti all’autore. Mi ci sono ritrovato sia nell’ambiente (fatta la naia negli alpini nel 78/79) sia nello spirito montanaro, ma soprattutto nell’approccio culturale alla questione altoatesina e alla temperie politica di quegli anni.
    Bravo 

  7. Ringrazio tutti i lettori che hanno apprezzato, ma ci tengo a precisare che il mio racconto non vuole esaltare il servizio militare che, se avessi potuto, avrei senz’altro evitato volentieri. 
    Quando era obbligatorio faceva parte della nostra vita in maniera normale e si accettava senza troppi problemi. Sapevi che finiti gli studi, partivi. Lo mettevi in conto.
    Che poi per quasi tutti si sia rivelata un’esperienza positiva, secondo me, è dovuto alla giovane età che avevamo e che ci ricordiamo ovviamente con piacere.
    Mi sono scritto questo racconto perché la perdita di un amico in montagna era una cosa che non mi era mai successa prima.
    Con l’occasione ho parlato dell’Alto Adige-Suedtirol perché la storia si era svolta lì e il fatto che poi io mi ci sia fermato a vivere è semplicemente perché ci sto bene.
    È tutto semplice, nei fatti e nei significati che ognuno vuole attribuirgli.
     
    Peter Paul, ti chiedo scusa per averti chiamato Hans Peter e mi ricordo benissimo con piacere di te. Ma quando abbiamo spinto (in salita) la mia Fiat 128, rimasta senza benzina, eravamo sul Passo Gardena. Ciao. 

  8. Bellissimo ricordo Marcello!
    Un plauso per la vostra sensibilità e vicinanza nel triste accaduto.  Uno di voi se ne era tragicamente andato. Un profondo momento di riflessione e di raccoglimento per ricordare un compagno, che come voi aveva condiviso passione e sogni.  Mi hai fatto tornare ai miei ricordi! Gli anni sono quasi lo stesso del mio trascorso in Alto Adige ’80/81, come istruttore guida su CM, CP68/70 e Tir Fiat 170. Fu per me un’esperienza indimenticabile. Tanto avrei voluto e desiderato essere assegnato ad un reparto speciale come il tuo e poter così continuare la mia passione per la montagna. Ma, per “buffa” coincidenza, mi destinarono a tutt’altro incarico, quello di istruttore guida. Riconosco nel tuo racconto, lo stretto rapporto con i commilitoni altoatesini, rigorosamente di lingua tedesca. Ricordo le micidiali bevute di birra che si sorbivano. Ricordo i racconti più intimi, quelli veri, venuti dal cuore: la “morosa” tragicamente perita in un incidente, gli animali da acudire al maso quasi fossero loro figli abbandonati. Struggenti storie di ragazzi che per la prima volta, erano usciti dai confini naturali del loro maso. Quante risate, quanta spensieratezza, e qualche volta tristi episodi che ci hanno uniti nella condivisione del dolore.
    Caserma Arturo Mercanti, Eppan – Bz, 4°CA anno 1980/’81

  9. Complimenti, letto con gli occhi lucidi 
    Ci siamo “sfiorati” ero a S.Candido per i CASTA sia nel 80 che nel 81.  Non a gareggiare ????
     

  10. Una storia, anzi, un vissuto, illuminanti… Che spazza luoghi comuni e fa capire a chi di quei luoghi ha solo sentito parlare (e dovrebbe valere per tutti gli Italiani che ignorano) che la realtà altoatesina o meglio sudtirolese, come del resto in Trentino e a Trieste e dintorni (anche se da noi la maggioranza è di nazionalità italiana), è ben diversa dal resto del Paese. Bisognerebbe avvicinarsi a tali realtà un po’ di più in punta di piedi, senza pregiudizi, cercando di ascoltare e intercettare storie, culture e la Storia che sono ben diverse da quella italiana.

  11. Ezio, la mia voleva essere solo una notazione antropologica di come sia facile cader preda di pregiudizi, come hai fatto tu estendendo la tua personale esperienza a “noi italiani”.
    Dove pregiudizio è inteso in senso etimologico, senza alcun riferimento morale; è in realtà pratica comune a tutti nella vita quotidiana, ma credo che si debba esserne consci e prestare attenzione.
    La riflessione (oltre che, credo, interessante in sé) mi è parsa importante in questo momento anche alla luce delle infinite discussioni nate in questo blog che prendono spunto talora da pregiudizi spesso infondati eletti a norma generale.
     
    D’altra parte il banchetto funebre è tradizione risalente almeno ai tempi di Omero…non è così strana né così strano che sia ancora praticata!

  12. Hoi, ciao Marcello, sono io Steinwandter,abbiamo fatto insieme la via Cassin,il diedro Maryerl e altre cose proibite ???? per esempio spingere la tua Fiat 128 sul passo Falzarego perche siamo rimasti senza benzina. Ti mando la mia Mail , e magari ci vediamo qua a Dobbiaco. Bravo e una bella storia!

  13. @Matteo:
    Nin è (almeno, mi piace credere che non sia) questione di pregiudizio. E’ semplicemente che pur essendo di Verona, in Italia non avevo mai fatto esperienza di funerali conclusi, se non con un vero e proprio banchetto funebre, nemmeno con un’agape di qualche tipo. Pensavo quindi che questa tradizione, pur essendo beninteso amche nostra, fosse ormai andata del tutto persa in Italia – da cui la mia totale sorpresa quando la incontrai in Germania. E’ stato un po’ come scoprire che qui l’ uso del “tu” nei rapporti interpersonali è ancora quello dei miei nonni , e in particolare è del tutto inconcepibile in ambienti di lavoro.
    Per chi volesse divertirsi: nella società editoriale per cui lavoravo, ero responsabile per tutte le riviste in lingue diverse dal tedesco. La lingua di lavoro ewra quindi l’inglese, ed era perciò normale che persone al mio stesso livello o superiore si rivolgessero a me come, “you, Ezio…”- ma se per qualsiasi motivo ad un certo punto si usava il tedesco, le stesse identiche persone persone passavano immediatamente, e senza perdere una battura, a “Sie, Herr Doktor Bonsignore…”

  14. Grazie Marcello, rappresenti un orgoglio per i genovesi appassionati di montagna (e per gli amanti delle San Marco Patrick Berhault).

  15. Grazie per questi ricordi. Il tuo racconto è davvero bellissimo e mi emoziona.
    In Valle del Biois, in Agordino, fino alla fine degli anni 50 (forse per qualche anno dopo?) si preparava la zuppa d’orzo dopo i funerali. Veniva offerta prima di tutto ai bambini. 
    La montagna è casa. Anche nell’ anima.
    Grazie ancora 
    Franca 

  16. È un racconto struggente, limpido e chiaro; andar per monti unisce Tutti, chi frequenta sentieri, chi scala pareti, chi lo fa per mestiere e chi lo fa per diletto. Mio nonno era capitano degli Alpini e con la famiglia ha vissuto a Bressanone per alcuni anni e in eredità mi hanno lasciato un profondo rispetto per le diverse etnie di quelle zone. Grazie per la storia! 

  17. Ho letto con piacere questo bellissimo ed emozionante racconto. Alcuni anni piu’ tardi, nel 1986,  ero anche io  alla caserma Cantore come fuciliere assaltatore ed ho condiviso con i miei compagni questi  momenti di vita indimenticabili. Sono tornate alla memoria emozione del tempo passato, ma tutt’ora piu’ che mai vive. Grazie Marcello… 

  18. Se vuoi fare un “investimento” su di una persona, fallo quando è viva che così si vede come va a finire.

  19. “A noi (inteso come italiani, anche se ho la doppia nazionalità) sembra inconcepibile…”
     
    Sia detto senza alcun intento polemico o censura morale, anzi, ma guarda come si cada e si sia schiavi del pregiudizio.
    Noi italiani…data la mia famiglia, per metà veneta e giuliana, il ritrovarsi dopo il funerale, il condividere il cibo e il vino con tutti, amici e parenti, vicini e venuti appositamente da lontano, è l’espressione più vera e sentita della vicinanza nell’addio

  20. La morte è l’Armageddon dell’individuo: la fine di tutte le sue cose. E noi ci ammazziamo l’un l’altro dalla notte dei tempi per cose che, al confronto, sono bagattelle.
     
    Ho il vago sospetto che esista qualcosa di bacato nel cervello umano…

  21. E’ vero , diversi gruppi hanno diversi comportamenti di fronte al lutto e alla perdita.
    Mia mamma ricorda che i cosacchi , che invasero semi-pacificamente il Friuli prima della fine della seconda guerra , avessero dei funerali conviviali.
    .
    Io piu’ invecchio e piu’ sono restio ad indossare forzosamente un “abito” durante una cerimonia di commiato : per mio padre ho portato la sua parte piu’ vera , le sue poesie , e agli ultimi funerali e’ successo spesso che fra amici cazzari ricordassimo chi non c’era con sorrisi , battute e amarcord.

  22. Non c’entra nulla con la montagna, ma siccome vivo in Germania da oltre 40 anni e ho quindi purtroppo fatto l’esperienza di un buon numero di funerali, posso testimoniare che la faccenda del rinfresco dopo il funerale (pressoché obbligatorio da queste parti) è forse uno dei più grossi casi di spettacolari incomprensioni tra i due gruppi etnici. A noi (inteso come italiani, anche se ho la doppia nazionalità) sembra inconcepibile che si possa volersi sedere tutti assieme in una trattoria a sbafare (pagano sempre i parenti stretti del defunto) appena seppellito o bruciato il morto, e a loro risulta altrettanto inconcepibile che ci si squagli subito all’uscita dal cimitero (come mi venne detto al funerale di un collega in Italia, “ma perché se ne vanno tutti? Si vergognano di averlo conosciuto?” – e questo detto da una persona che pochi mesi prima aveva proprio offerto un rinfresco per il funerale della figlia morta a 18 anni per un tumore al cervello, e che era stato lieto che ci fossero dozzine di amici).

  23. Arco (TN), 1982. Con i miei allievi. Indossavo le scarpette SanMarco Berhault appena uscite.

    Scarpette S.Marco, ma zuava e calzettoni.
    Tra sacro e profano.

  24. significativa quella sul traverso della Cassin in pantaloni alla zuava e scarponi

  25. Grazie Marcello, un bel racconto che suscita in chi legge ricordi diversi, ma spesso collegati alla tua esperienza. Le tue parole sono lievi ma vanno dritte al bersaglio: perché ci fanno condividere un pezzo importante di vita

  26. Grazie, Marcello, mi hai fatto rivivere la mia esperienza a Tai di Cadore molto simile alla tua, su e giu’ per le Tofane col plotone alpieri.

  27. è tutto pulito e ordinato. Mi è sempre sembrata una visione moto superficiale e neppure così reale. I motivi per apprezzare o meno un luogo e un popolo, 

    i motivi per apprezzare o no  un popolo sono certo altri. Però quando si vede buttare qua e là i rifiuti e lasciati li a marcire perche nesduno li toglie, non riesco a rimanere indifferente. Non capisco perchè? Ma forse sono solo superficiale.

  28. Che racconto!
     
    E come spesso accade rimane la sensazione che se si lasciasse mano libera alla “bassa forza” piuttosto che ai “superiori” le cose andrebbero molto meglio…e non solo in campo militare!

  29. Grazie per la condivisione.. si percepiscono emozioni intense, che si assaporano e acquisiscono ancor più valore con il passare del tempo.

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