Ridare dignità a ogni essere umano
(Percorsi del riconoscimento, la lezione del filosofo Paul Ricoeur)
di Filippo La Porta
(pubblicato su ilriformista.it, 24 giugno 2021)
Destra e sinistra sono categorie obsolete? Forse in parte sì, anche se Norberto Bobbio osservava che chi lo dice è di destra. In ogni caso andrebbero rivitalizzate cercando di capire qual è il vero nodo del conflitto politico e sociale della nostra epoca, qual è insomma – ora parlo della sinistra – la posta in gioco della lotta di classe, l’equivalente dello sfruttamento di cui parlava Marx (declinato oggi in modi spesso irriconoscibili). Provo a formulare un’ipotesi, partendo dal bellissimo, ultimo libro di Paul Ricoeur (Percorsi del riconoscimento, Cortina 2005).
Lo sfruttamento classico, nella nostra società tecnologica del post-lavoro, dove a ognuno è richiesto di essere imprenditore di se stesso (di “sfruttare” e valorizzare se stesso), non è del tutto scomparso, però il problema fondamentale della grande maggioranza della popolazione non è tanto lo sfruttamento o la privazione di libertà essenziali quanto la sensazione di irrilevanza. In Rete e fuori uno vale zero, altro che uno! Lo storico israeliano Harari già lo diceva qualche anno fa immaginando una economia del futuro in cui i lavoratori non saranno più necessari neanche come consumatori. Verranno sostituiti dalle macchine: oggi in borsa gli algoritmi diventano gli acquirenti di obbligazioni e merci! Ci sentiamo tutti irrilevanti, sostituibili, superflui. Come scriveva il grande Belli: semo pesci de frittura «che se butteno a la mucchia de mattina». Il quarto d’ora di celebrità del reality show è solo una illusione che conferma la sostanziale, anonima irrilevanza dei più. Abbiamo disperatamente bisogno di essere riconosciuti. Ma che significa essere riconosciuti?
Rivolgiamoci, come già anticipato, all’ultimo saggio di Paul Ricoeur – un saggio problematico ed esplicitamente aperto – , dedicato a questo tema. Il riconoscimento implica la mutualità (che non significa equivalenza), una relazione di reciprocità. Io desidero essere riconosciuto da te nella mia identità, nel mio valore (devo sentire di valere), nei miei diritti, così come io sono pronto a riconoscerti, senza che ciò, beninteso, significhi appropriarmi di te. Si tratta di una dialettica tra il sé e l’altro. Ci troviamo qui oltre ogni solipsismo. Non solo non basto a me stesso ma solo se gli altri mi riconoscono, e mi comunicano la loro stima, posso costruire la mia autostima. Prendendo le mosse dalla celebri, imprescindibili pagine della Fenomenologia dello spirito Ricoeur si differenzia però da Hegel: non necessariamente il riconoscimento reciproco avviene attraverso il conflitto e dunque con l’esito finale di una relazione tra servo e padrone.
Tra le varie forme del riconoscimento – ad esempio il diritto stesso (il crimine come rottura della relazione riconoscente, come misconoscimento, mentre il diritto riattiva questa relazione) – Ricoeur si sofferma sul perdono e sul dono, tra loro intrecciati. Il perdono apre alla dimensione del dono, paradigma alternativo alla cultura utilitaristica emblema del mutuo riconoscimento. Proprio il dono, studiato dal pensiero antropologico e non privo di ambiguità (chi dona crea un obbligo), diventa per Ricoeur ciò che unisce gli «stati di pace» (ovvero: «esperienze pacificate del mutuo riconoscimento»), le diverse declinazione dell’amore: agàpe, philìa ed eros. In particolare si identifica con l’agàpe (poi tradotto come “carità” nel mondo romano), con l’amore gratuito, disinteressato, oblativo, espressione di una sovrabbondanza (non ha a che fare come l’eros col senso di una privazione), e perciò oltre ogni logica mercantile di equivalenza. Il dono rivela la dissimmetria di ogni rapporto e trascende ogni logica (va oltre la giustizia stessa, ma di questo adesso non ci occupiamo). Eppure questa dissimmetria non esclude la mutualità. Ora, perché donando non creo un obbligo? Perché, risponde Ricoeur, chi è oggetto del dono deve non tanto contraccambiare o restituire qualcosa quanto “riconoscere” il donatore, la sua unicità; in un certo senso rispondere al suo appello. Questo è un passaggio decisivo del ragionamento, che forse Ricoeur non chiarisce fino in fondo. Provo a farlo.
In che modo posso sentire di valere? A me pare che l’accento che Ricoeur mette sul ricevere, dunque sul nesso tra “riconoscenza” e “riconoscimento” (presente nella lingua francese e in quella italiana) ci porta a una ulteriore considerazione: l’azione morale più alta non consiste, paradossalmente, nel dare ma nel saper ricevere (o meglio: nel mettersi in condizione di ricevere da qualcuno). Non nel dare all’altro ma nel permettergli di dare a me, nel riconoscere dunque la sua unicità e insostituibilità, il suo assoluto valore in quanto capace di darmi qualcosa che nessun altro può darmi. In che modo tutto ciò ha ricadute politiche e investe la questione della esistenza di destra e sinistra? Le enormi, ingiustificabili differenze di ricchezza, di privilegi e di potere – perlopiù arbitrarie o casuali – del mondo contemporaneo impediscono qualsiasi riconoscimento individuale (tendono anzi a umiliare la persona, a minarne l’autostima), fanno sentire chi sta in basso – la stragrande maggioranza dell’umanità – come tanti pesci da frittura (insignificanti, massa anonima destinata a sparire).
Non possiamo realisticamente costruire il legame sociale sull’amore oblativo, sull’agàpe (forma principale del dono ) – benché il dono stesso sia contagioso – perché si tratta di un sentimento comunque instabile, non prescrivibile (il legame sociale è fatto di interessi collettivi, bene comune, cose più stabili). Eppure un orizzonte di agàpe dovrebbe ispirare il comportamento: riconoscere a ogni essere umano, indipendentemente dal merito, la sua dignità e unicità – anche, come abbiamo visto, quando ci permette di donargli – appartiene al Dna della sinistra. Discostarsene significherebbe per la sinistra non essere più “riconosciuta”.
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allora per banalizzare :un inquilino soprastante che mi scuote tappeti o tovaglie dal suo poggiolo in casa e in testa mi sta facendo un dono..basta cambiare prospettiva…mettere o avere gia’questa verita’dentro di noi. Forse e’ un modo per attivare un approccio!Vanno bene anche cicche accese che entrano in un poggiolo e appiccano fuoco..(ipotesi circa l’origine dell’incendio del grattacielo di Milano)…era un dono ma la colpa e’stata del vento.La dissimetria e’che da sotto a sopra il rifilare’ i medesimi doni e piu’complicato e sarebbero comunque considerati dai riceventi le stesse particelle solide proprie , atti ostili.
Appunto! Sono i nostri convincimenti che in qualche modo “creano” la realtà (ancorché non tutti i convincimenti funzionino…)
“Valgono finché ci crediamo”. La realtà prima di essere fuori è dentro noi.
Capisco (e in parte condivido) il pessimismo di Lorenzo Merlo nel commento che precede. Se le nuove tecnologie prospettano questo scenario è però perché siamo all’interno di una narrazione predominante in cui appunto è importante la sopraffazione, il rapporto padrone-servo, “io valgo perché tu non conti niente”. Ma le narrazioni non sono eterne, valgono finché ci crediamo
Il piede che spinge l’acceleratore del tempo digitale rende forse obsolete, antistoriche queste note. Lacrime analogiche capaci di bagnare una mappa dell’umano che non c’è nelle politiche, nelle concezioni economiche, nell’idea di sviluppo globale, nella – così ancora la chimano – democrazia.
Note che sono adatte ad un popolo che poggia i piedi sul solido plinto della storia, dove la tradizione umanistica è rimasta la centro nonostante le sue brutture. Dove chiunque capiva ciò che accadeva nonostante le sue bugie. Dove un sentiro indicava la via per andare a monte o a valle.
Ma il plinto è venuto meno. La tradizione non conta più. I tempi del potere sono inaccessibili a quelli di chi lo subisce. Ciò che esso immagina e realizza nulla ha a che vedere con il nostro benessere. La discerpanza cresce, il distacco tra le parti è frattura che i bugiardi di corte eludono dai loro discorsi.
Prima carne da cannone. Eravamo patrioti e non lo vedevamo.
Poi, da mercato. Eravamo in corsa e sembrava bello.
Ora da contenere, controllora e/o eliminare. Diremo e ci giustificheremo dicendo che eravamo distratti dai diversivi messi in campo.
Siamo nell’epoca dell’incantesimo. E guai a dirglielo.