Riflessioni (GPM 021)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, giugno 1971)
II buio ci aveva raggiunti all’inizio del grande anfiteatro dominato dall’elegante parete del Corno Stella, ai piedi della quale era posto il rifugio. Camminavamo in silenzio, aprendo lentamente la nostra traccia nella neve profonda e polverosa: una neve leggera, impalpabile, asciutta come la sabbia del deserto.
Varcando la porta del rifugio, ci lasciammo alle spalle un paesaggio tetro e spettrale, reso ancor più freddo dalla luce biancastra della luna. E noi, al sicuro nel comodo e accogliente rifugio, ci demmo da fare per rendere il nostro soggiorno ancora più confortevole: chi spaccava la legna e ne segava i pezzi per la stufa… chi si dava da fare per disciogliere la neve sul fornello a gas, chi ancora liberava la stufa dalla cenere. La gran parte degli uomini che vivono nelle grandi e piccole città ha perso il gusto sano delle cose semplici: spaccare la legna, accendere un fuoco in un rifugio in una notte d’inverno, starsene seduti attorno alla fiamma a fantasticare.
Eravamo seduti attorno al tavolo e assaporavamo la meravigliosa sensazione di calore e di sicurezza che danno questi istanti. Davanti alla luce un po’ fioca di due candele, non vi era nulla di meglio che gustare lentamente un caldo minestrone fumante.
Il rifugio Bozano e il Corno Stella
Allora qualcuno di noi introdusse un discorso molto interessante, chiedendosi che razza di uomini dovevamo essere se ancora avevamo il gusto di queste cose, se amavamo isolarci nella grande solitudine della montagna invernale, se ci attiravano il freddo, il silenzio, la neve. Certo, amavamo la natura in tutte le sue espressioni, ma esaminandoci a fondo, non eravamo forse un po’ misantropi, non c’era in noi un forte disadattamento sociale?
Resterei a volte delle ore davanti al fuoco senza dire nulla e pensando a me stesso; vi è nella fiamma qualcosa di pagano e di ingenuamente primitivo che mi ha sempre affascinato. Davanti alla luce della piccola candela fu più facile parlare di se stessi.
Io, risposi, ero ben conscio di non essermi inserito, di non essermi adattato a questa società che non amo. A ventiquattro anni forse non avevo ancora concluso nulla di positivo nella vita: c’è chi realizza se stesso nello studio, nel lavoro… no, nulla di tutto ciò. Ben presto avevo capito che lo studio non mi dava null’altro che una vasta informazione su molte cose del tutto inutili: preferii interrompere l’università e crearmi una cultura per conto mio, leggendo e rileggendo ciò che più mi piaceva e che più ritenevo utile per la mia formazione spirituale. Già, ma in questo modo non ci si crea una posizione… Il lavoro, il futuro, la famiglia, la vita: problemi enormi, dal cui peso sovente mi sentivo schiacciare.
A volte incontravo vecchi compagni di liceo: erano cambiati, diversi da allora; no, forse io sono cambiato molto, non ci intendiamo più. Li guardavo: maxi-cappotto elegantissimo, camicia, cravatta, mocassini con fibbia, una ragazza ancor più elegante sotto braccio. Loro guardavano me, stranamente, forse con una certa diffidenza. Per lo più indosso un paio di blue jeans di velluto e un maglione, non amo la moda. Ma quando sentivo che alcuni di loro si erano già laureati, che altri stavano per sposarsi, che altri ancora avevano trovato ottimi impieghi e raggiunto una solida posizione, sovente mi ponevo la domanda se per caso non fossi stato io a sbagliare tutto, se non sarebbe stato meglio mettere da parte i sogni e gli ideali troppo grandi e discendere un po’ nella realtà.
«E tu, Gian Piero, cosa fai? Non frequenti più Lettere?» «No – rispondevo – non mi dava nulla; vado in montagna e scrivo, cerco di arrangiarmi nell’ambito della montagna».
«Ah, ho capito – aggiungeva con un sorriso sarcastico – la montagna…».
Pezzo di cretino, cosa ne sai tu della montagna, cosa ne sai tu della mia vita, delle mie idee? Certo, tu ti senti a posto, ti senti sicuro, hai raggiunto una posizione, hai il futuro spianato; ma sei proprio sicuro di essere felice, hai tu provato una sola delle sensazioni che io ho provato?
No, non avevo sbagliato tutto, in montagna realizzavo me stesso. Altrimenti mi sarei sentito alienato, spersonalizzato. Ma fino a quando avrei potuto vivere così? La luce della candela si faceva sempre più fioca, gli amici ascoltavano in silenzio. Lo sapevo, un giorno sarei stato solo davanti a questa grande incognita che è la vita, e non sarebbero serviti a nulla tutti i miei sogni, i miei ideali.
Oggi vivi solo se produci, se ti inserisci nel sistema; sei un piccolo ingranaggio di una grande ruota che fa parte di un meccanismo ancora più grande.
Eppure continuavo a scrivere articoli, a compilare guide, monografie, a redarre riviste di montagna, e lo facevo con passione enorme, ricavandone le più grandi soddisfazioni. Ma materialmente, nulla.
Ecco quale dovrebbe essere il mio lavoro: mettere a frutto anni e anni di letture appassionate e vivaci, di pazienti consultazioni di guide, di riviste di ogni nazionalità. Ma tutto ciò sarebbe stato possibile o forse anch’io avrei avuto un momento molto difficile al leopardiano apparir del vero? È una domanda che sovente mi ponevo.
«Hai ragione – disse Piero – siamo veramente dei delusi e dei disadattati. E anche dei presuntuosi».
Certo, sovente pensiamo di provare sensazioni uniche, irripetibili, pensiamo di possedere una sensibilità del tutto particolare, siamo certi di vivere in un modo completamente diverso, ci atteggiamo a ribelli e anarchici. Ma in fondo ad ognuno di noi vi è un fremito di ribellione: ribellarsi a tutte le costrizioni, essere insofferenti a ogni forma di imposizione… Per questo cerchiamo la libertà e la troviamo in montagna: siamo liberi di muoverci nell’infinito, liberi di disporre della nostra vita, liberi di affondare lo sguardo nel cielo libero, non racchiuso fra i grigi tetti delle case.
Gian Piero Motti (a sin), notte in rifugio. Foto: Gian Piero Motti
E io pensavo a Gervasutti, all’ultimo capitolo del suo grande libro, dove seppe esprimere così bene i motivi che lo spingevano all’alpinismo. È vero, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, nella dolcezza un po’ stanca dei tramonti, nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, ritrovava la serenità e la tranquillità di spirito perdute nelle lunghe ore monotone trascorse in città. Pensavo alle rare volte in cui, a causa del maltempo, ero costretto a trascorrere la domenica in città: il cinema e poi la passeggiata in via Roma. Vedevo intorno a me una folla anonima, assente, individui e individui catalogati, assimilati, identici. E tutti con lo stesso sguardo, spento, vecchio; anche i giovani. Pensavo ancora a Gervasutti quando, prima di salire da solo al Cervino in inverno, guardava la grande città ai suoi piedi dalla chiesetta dei Cappuccini: laggiù, rinchiusi nel recinto sociale che si erano costruiti sotto il libero cielo, gli uomini gli parvero prigionieri. Lui, solo per un giorno, sarebbe stato libero.
La luna illuminava le montagne attorno al rifugio e la luce penetrava anche dalla finestra.
«Ricordo – disse Vincenzo – le prime avventure in montagna. Allora forse era più bello. Per tutti ci sono stati una valle, un monte, un colle che appartengono ai ricordi più intimi e cari. Ed è quella valle, quel monte, quel colle che ansiosamente andiamo cercando, ma che non ritroveremo più. Il fascino pagano del mistero, dell’arcano, la gioia di percorrere gli ultimi metri per salire a un colle e subito affacciarsi a vedere ciò che vi è al di là; il ricordo di lunghe camminate tra foreste e pascoli, mentre da lontano salivano lo scampanìo delle mandrie, il grido dei pastori e, nel sole di mezzogiorno, le campane del fondovalle… Tutti andiamo in cerca di questo e lo ritroveremo forse un giorno, se avremo la fortuna di ripercorrere le stesse strade e di guardare ancora con gli stessi occhi le grandi montagne al fondo della valle: lontane, come fu un giorno, irraggiungibili».
Mi venne allora in mente Georges Livanos, che a conclusione del suo libro ribadì questi concetti.
Certo un giorno dovrà finire la fase dell’azione intensa, un giorno forse non si avrà più nemmeno la forza per salire a un rifugio e le montagne dovremo guardarle dal basso. Ma ci salverà il loro ricordo. Forse però, aggiungeva Livanos, è facile parlare così, quando ancora attendono pareti fredde e lontane che faranno dono del loro silenzio, della loro luce e del loro cielo.
La stufa lentamente si spegneva; aggiungemmo un bel ceppo e andammo a dormire. L’indomani avremmo salito la parete del Corno, c’era molta neve e forse sarebbe stato difficile…
Da alcuni giorni sono tornato a casa, ho ripreso la mia vita normale. Camminando per le vie della città mi imbatto in una folla festosa; il Natale è prossimo. Ho bisogno di tutto questo, non fosse altro che per ritornare ancora lassù e poi ancora discendere e incontrare per strada uno sguardo, un sorriso. Forse ciò che mi fa amare enormemente la vita è il contrasto delle sensazioni.
Tra le vie della città il cielo appare a strisce: sovente camminando lo interrogo, lo scruto. Qualche cirro va formandosi qua e là, forse il tempo cambierà…
Davanti al rifugio, la sera, la neve era rossa, lucente; camminando il vento la sollevava creando grandi drappeggi rosati, fantastici, evanescenti…
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Gian Piero Motti ci ha lasciato troppo presto.
A chi, tra quelli che leggono queste pagine, non piacerebbe vivere una vita al di fuori dell’esistenza borghese? A me stavano confezionando una vita di solo lavoro per cui arrivare ad avere un giorno libero la settimana in cui non restare intrappolato in città è stata una prima conquista. In montagna i miei limiti sono arrivati un pò troppo presto rispetto a quanto avevo sognato per cui mi sono adattato ad una esistenza normale intervallata da momenti di evasione che con l’avanzare degli anni cerco di sfruttare il più possibile.
grazie, troppo buono WOODY.ALLEN.
il grande sei te. Come regista poi sei una fonte d’ispirazione.
Fantastici i commenti di Benassi. Ti allargano l’orizzonte. Grazie Benassi. Sei veramente un “GRANDE”.
Sono molto d’accordo con l’ultimo commento di Antonio Arioti e lo ringrazio per avere parlato con più chiarezza di quello che penso anch’io e, appunto, percepisco.
Sì Antonio, con “etico” intendo un agire umano che si percepisce come “giusto” in senso universale.
“Se oggi fosse ancora vivo forse vedrebbe le cose in maniera un po’ diversa, senza necessariamente doversi rimangiare le parole spese.”
certamente se fosse ancora vivo avrebbe fatto un cammino di esperienze, che a 24 anni non hai, che l’avrebbero influenzato e portato , forse, a ragionare e agire in maniera diversa.
Dai Paolo, non essere così pessimista 🙂 E poi le cose non sono così semplici.
Infatti non per niente ho detto che la via di mezzo è la più sfidante. In ogni caso bisogna sputar sangue comunque perché anche chi raggiunge l’unità (pochi, forse, non si sa con precisione, non ci sono statistiche) ben difficilmente può starsene per i fatti propri immergendosi in essa. Fra l’altro questa unità dev’essere qualcosa di dinamico, sempre nuova, se no sai che palle!
Secondo me, ma questa è filosofia allo stato brado, ciò a cui ambiamo realmente, talvolta consciamente, il più delle volte inconsciamente, è uno stato in cui non c’è separazione ma se ci mettiamo a riflettere con la nostra mente limitata ciò ci spaventa maledettamente perché immergersi nell’unità significa dare un calcio a quegli schemi mentali che ci fanno vivere come esseri separati. Lo stesso concetto di libertà, almeno dal punto di vista etimologico, ha senso nell’ambito della separazione perchè nell’unità non può esserci né libertà né costrizione.
L’agire umano etico.. Non so se interpreto bene il tuo pensiero ma non penso tu voglia riferirti all’etica umana perchè può darsi benissimo che questa vada a cozzare con un’etica universale. Io penso invece che tu voglia porre l’accento sull’agire in sintonia con un qualcosa che si percespisce come giusto. Cosa sia questo qualcosa è difficile dirlo, alcuni lo chiamano Dio, altri Coscienza o Energia cosmica, altri ancora il Tutto. Diciamo che si tratta di agire con la consapevolezza che si sta’ facendo la cosa giusta in quel momento anche se potrebbe essere una cosa sbagliata e deprecabile in un altro contesto.
Per questo ho scritto che la libertà è forse una forma d’adattamento, perché aldilà del significato etimologico del termine non credo si possa essere liberi nel senso di poter agire senza costrizioni. C’è sempre un minimo di costrizione, anche e a maggior ragione nell’unità. Molto probabilmente la vera libertà è proprio racchiusa nell’accettazione dinamica e quindi nell’adattamento. Per noi adattarsi ha un significato negativo perché pare comportare la rinuncia a qualcosa ma tutti i grandi alpinisti ed arrampicatori parlano sempre di sintonia con la montagna, con la roccia, e dicono che non bisogna forzare bensì diventare montagna, diventare roccia.
Forse è più difficile mischiarsi con gli altri stronzi al supermercato? Può essere, soprattutto se si ha avuto un barlume di qualcosa di più elevato, ma questo accade solitamente all’inizio del percorso, andando avanti si sviluppa, o almeno si dovrebbe sviluppare, la compassione unita all’umiltà.
Le riflessioni di Motti sono quelle di un ragazzo. Tanto di cappello ma comunque di un ragazzo, avanti sicuramente rispetto ad altri ma sempre di un ragazzo. Se oggi fosse ancora vivo forse vedrebbe le cose in maniera un po’ diversa, senza necessariamente doversi rimangiare le parole spese.
Noi siamo schiavi della nostra evoluzione culturale e religiosa. Sono alcune migliaia di anni che la Bibbia ci ha insegnato che noi siamo separati dalla natura. E noi ci crediamo. E noi ci evolviamo così. Pensiamo non solo di essere altro dalla natura, ma anche di poterla controllare. Ma non è così! La natura fa quello che vuole per mantenere la sua capacità di esistere.
Le religioni della maggioranza dei popoli non la pensano come noi e non si evolvono coi nostri principi.
Il nostro tentativo di dominio continua, ma penso che dovremo cambiare credenze.
Devo aggiungere che per poter continuare a credere nella separazione e nella nostra superiorità a tutto, negli ultimi millenni abbiamo “scoperto” un mucchio di banalità e le abbiamo mitizzate; gli indiani erano arrivati qualche migliaio d’anni prima del nostro inizio a capire come gira. Gli aborigeni ancor prima.
In più noi popoli della Bibbia facciamo molto casino fra di noi, spesso non ci tolleriamo.
@Giorgio
“vivere appieno poiché non ci sarà data altra occasione.”
è una roba che credo dicesse anche Alessandro (Gogna), parlando di treni da non perdere. In effetti parrebbe la cosa giusta da fare.
Sul fatto che il capriolo “non sappia”, nutro dei dubbi, ma non vorrei mai aprire un pippone animalistico/panteistico.
p.s. l’ultima frase non l’ho capita: è un riferimento a fatti e/o persone ? 🙂
@Antonio
La terra di mezzo… pardon, scherzo; la “via di mezzo” che tu menzioni è quella che io chiamavo il “fardello”, e farei coincidere con l’aspettativa di un agire umano “etico”. Semplificando: è “essere persone”.
Però scusami il nichilismo, non la vedo rosa e fiori: Alessandro per esempio mi parlò di “martirio” (avrà provocato?).
Tornando alle vie da te citate, mi pare che, una volta che percepisci l’unità (ammettiamo per ipotesi) e poi vai a far la fila al supermercato sorridente con gli stronzi che superano la fila ognidì, perchè “tu sai e sei (unità)” … e quindi vivi realizzato/appagato tra gli zombie… mi sà sei un poraccio di prigioniero anche te! (parlo in generale nè, niente di personale, intendiamoci).
Semplifico rendendomi al solito risibile:
– nell’unità -> casi limite di cui è meglio non parlare.
– nella molteplicità -> siam in tanti dabbasso a sputarci odio addosso
– nella via mediana -> sei uomo “etico” (forse), ma devi sputar sangue per raggiungere sta benedetta montagna di luce, coglionato dai più. mi sà 🙂
grazie
Hai ragione: un uomo non potrà mai diventare capriolo poiché, la differenza non è da poco, egli sa di dover morire e il capriolo no. Noi ci costruiamo tutta una serie di schemi e caselle per razionalizzare l’angoscia della morte.
Ti rispondo dunque: vivere la Natura intensamente è accettare la nostra precarietà; in altre parole, ribaltando i fattori, vivere appieno poiché non ci sarà data altra occasione.
Ciao Giorgino (non mi chiamare Giorgino perdio!)
Noi viviamo in uno stato di separazione nell’ambito di una vasta, probabilmente infinita, unità, solo che quest’ultima non la percepiamo. Mentre la separazione è evidente (se siamo degli esseri umani non possiamo essere dei caprioli, delle pietre o delle gocce d’acqua) l’unità non lo è. La possiamo immaginare, razionalizzare ma attraverso i sensi non la percepiamo. I sensi (udito, tatto, vista, gusto e odorato) ci permettono di vivere la separazione ma non l’unità. Quest’ultima può essere percepita extrasensorialmente, quando cioè si raggiungono stati di coscienza particolari (che la scienza definisce alterati per distinguerli dagli stati di coscienza ordinari).
Ma dobbiamo renderci conto che è tutto relativo perché ciò che i sensi ci consentono di percepire influisce sul nostro stato di coscienza. Se godessimo della vista del falco o se avessimo le dimensioni di una formica, giusto per fare degli esempi, la nostra coscienza, per quanto possa sembrarci assurdo, verrebbe conseguentemente modificata. Quale sarebbe, a parità d’intelligenza, il nostro rapporto col mondo se avessimo le dimensioni di una formica? La terra ci sembrerebbe immensamente più grande e probabilmente non riusciremmo ad esplorarla tutta. Al tempo stesso potremmo avere una conoscenza molto più vasta dei microorganismi.
Nello svolgere determinate attività, molto coinvolgenti a livello psicofisico, è possibile, per così dire, varcare la soglia, espandere la propria coscienza normalmente convogliata sulle occupazioni ordinarie (come mangiare, lavorare, guidare la macchina, fare la fila al supermercato, ridere e scherzare con gli amici, amare il/la proprio/a partner, incazzarsi con chicchessia, ecc.) e cominciare a percepire questa unità che per quanto logica e scientificamente evidente (tutto è costituito da atomi e da energia) non è assolutamente percepibile a livello sensoriale.
A questo punto si possono seguire due strade: la prima porta all’abbandono, alla rinuncia, per così dire, del mondo (che poi è anch’essa una rinuncia relativa perché l’unica vera rinuncia è il suicidio), la seconda porta a tuffarsi nella vita di tutti i giorni rinunciando ad espandere la propria coscienza.
Ma esiste anche una via di mezzo, che a mio avviso è la più sfidante, la quale consiste nel portare questa espansione di coscienza nel quotidiano. E’ un po’, esposto in altri termini, più filosofici, ciò che dice Giovanni Massari. Ma in ultima analisi è solo una questione di coscienza, di come ci rapportiamo con ciò che ci circonda. Possiamo impegnarci per percepire l’unità, e allora tutto ci si sembrerà più bello, più profondo, più giusto, più vero, insomma più.. Oppure possiamo ostinarci a percepire la separazione e allora ogni cosa ci sembrerà difficile, brutta, complicata, ingiusta, e quant’altro. Se ci pensiamo un attimo è così e, quindi, quell’espansione di coscienza che possiamo percepire praticando l’alpinismo in un certo modo dovremmo cercare di esportarla nella vita di tutti i giorni, senza rattristarci perché magari siamo in fila in autostrada quando invece potremmo essere sul cocuzzolo di una montagna.
Poi per carità, come ho già detto, ciascuno ha un suo percorso indivduale. Come cè lo yogi himalayano che vive nelle grotte allo stesso modo ci può essere l’alpinista ramingo che passa la sua vita da un rifugio all’altro facendo ogni tanto qualche lavoretto giusto per avere quei due-tre soldi che gli bastano per non morire di fame. Ma alla resa dei conti chi è meglio, colui che vive da eremita o colui che vive nel mondo? Nessuno dei due, si tratta semplicemente di trovare una propria dimensione.
senza tempo, da brivido, oggi più che mai! altro che frutto dei pensieri di un ventiquattrenne…
ciao Giorgio,
cosa intendi per “vivere la Natura intensamente” ?
ovvero cos’è quello che non-è Natura ? la vita urbanizzata e/o la razionalizzazione del mondo (ovvero per esempio la scienza) ?
Io non riesco a veder chiara la differenza tra “umanità” ed “animalità” come atto di scelta individuale dell’uomo “libero” (dalla cività?), dell’uomo “alpinista” (tanto per rimanere in tema di questo blog). Detta diversamente: temo che noi umani non possiamo essere nient’altro che persone, e se volessimo essere solo scimmie …caprioli o addirittura pietre o acqua di torrente o nuvole… saremmo (considerati) dei malati di mente, anzi saremmo senza meno dei malati di mente. Ma forse la mia visione (razionalista?) dell’ineluttabile è troppo pessimista.
Chi vive la Natura intensamente è più animale che uomo. Lascia libera la parte istintuale di sé a scapito della razionalità. Chiaramente sarà un disadattato in un mondo che vive di copioni, cliché, schemi, convinzioni, concezione della vita, ruoli, educazione, religioni, sentire comune, morale; cioè tutti schemi che tendono a imbrigliare la realtà in qualcosa di prevedibile o matematico, in modo che non faccia paura, allontani il terrore che deriva dalla semplice constatazione che vivere significa morire (prima o poi).
Imparare ad utilizzare l’istinto animale che è in noi, riconoscerne le capacità benefiche sulle nostre decisioni, ci permette di allenarci a scalzare tutti gli schemi razionali per poter vivere una vita come vogliamo e che soddisfi le nostre aspirazioni.
Chi vive la Natura intensamente è più animale che uomo:
Tra le vie della città il cielo appare a strisce: sovente camminando lo interrogo, lo scruto. Qualche cirro va formandosi qua e là, forse il tempo cambierà…
Davanti al rifugio, la sera, la neve era rossa, lucente; camminando il vento la sollevava creando grandi drappeggi rosati, fantastici, evanescenti…
” come in una sorta di andirivieni tra sogno e realtà in cui uno alimentava l’altro e per cui ,attraverso entrambi, mi sono potuto sentire non tanto “libero” ma perlomeno “realizzato”. ”
Giovanni, complimenti per la tua serenità.
Per carità Alberto, il mio è stato solo un modo per esprimere un pensiero personale.
Sono Siciliano e amo la montagna in ogni sua forma, ma la vivo come posso visto che non mai avuto la possibilità di viverla come avrei voluto. Per tutti è difficile tornare alle “catene” dopo aver assaporato la libertà, immagina quanto possa esserlo per me. Ognuno di noi deve trovare la propria dimensione, fare i conti con le proprie difficoltà e andare avanti, non è facile certo, e per una persona come Motti deve essere stata durissima.
Dal canto mio a giorni parto per le Alpi, e la cosa mi consola non poco. Tornerò nuovamente alle catene certo, ma per un po saró libero!!!
Saluti…max
Il pezzo di Gian Piero e’ scritto bene, suggestivo e suggestionante ma appare lampante come fuoriesca da un ragazzo di 24 anni che, come abbiamo fatto tutti noi, rifiuta il potere costituito, il futuro già segnato e si chiede che ne sarà di lui e che cosa sarà capace di realizzare a 30, 40, 50 anni; le stesse domande che si ponevano probabilmente tantissimi giovani, anche quelli che lo incrociavano anonimi sotto i portici del centro di Torino, e altrettanti pochi anni prima di lui e tanti spero ancora in futuro in una società come la nostra dove, comunque sia, abbiamo il privilegio di un assistenzialismo che dà ancora spazio ai voli della mente senza la stringente necessità di combattere ogni giorno anche solo per mangiare.
I passaggi di età e “l’inquadramento” all’interno del sistema sono duri per tutti anche se, singolarmente, tendiamo, ancor più noi alpinisti, a sentirci diversi, forse non migliori, ma sicuramente tra coloro che hanno “capito” quale possa essere la via che porta dentro quell’intima soddisfazione che nessun altro ci sembra possa trovare nella vita di tutti i giorni.
Per me la verità sta esattamente nel mezzo e con gli anni ho capito, naturalmente nel mio caso specifico, che fare dei mio sogno l’unica realtà rischiava di mandarlo in pezzi ma poi, subito dopo, quello che sarebbe finito in pezzi sarei stato io…
Quindi, fermo restando che l’arrampicata mi ha dato tantissimo, tantissimo mi ha dato anche socializzare, vivere e lavorare con gli altri e per gli altri, portando avanti, parallelamente all’arrampicata e alla montagna, una vita “normale” senza sentirmene avulso e non “inquadrandomi” ma “restituendo” alla società in cui vivo quei privilegi, anche di benessere, che ho avuto e che mi hanno spesso permesso di vivere intense e totalizzanti avventure nel corso di molti anni della mia esistenza come in una sorta di andirivieni tra sogno e realtà in cui uno alimentava l’altro e per cui ,attraverso entrambi, mi sono potuto sentire non tanto “libero” ma perlomeno “realizzato”.
” La montagna per chi ancora riesce a viverla in modo totalmente emozionale, non rappresenta certo una prigione, ma una porta verso una seppur momentanea libertà.”
Massimo io non ho inteso dire che la montagna è una prigione. Ho riflettuto sul fatto che per chi è abituato a certe EVASIONI , rientrare e stare poi nel quotidiano, in questa società che ci inquadra e ci mette la targa, come fossimo tante macchinine, è molto difficile.
Almeno lo è per me.
Ma può darsi che, la mia, sia solo mancanza di coraggio per evadere definitivamente.
E credo lo sia stato, difficile, anche per Motti. Lo deduco da quello che leggo di lui.
Ma la mia è solo un’opinione non certo un giudizio. Non lo mai conosciuto ne ci ho mai parlato. Quindi mi posso sbagliare.
Il pensiero di Motti era sicuramente avanti riguardo a quello di una generazione che mirava per lo più al benessere economico. Non che adesso le cose siano cambiate di molto, le persone cercano una stabilità che le rende sicure, ma non per questo felici. Personalmente sento una sorta di prigionia anche nello stare in fila al supermercato, preferirei certamente una vita diversa, che molto si avvicina a quella di cui Motti parla. Ebbene, qualcuno quella vita ce l’ha tolta, per il profitto e per i vantaggi economici che in fondo a cosa portano? Ci hanno promesso benessere e serenità, ma non sarebbe forse ora di fare un passo indietro? La montagna per chi ancora riesce a viverla in modo totalmente emozionale, non rappresenta certo una prigione, ma una porta verso una seppur momentanea libertà. Una fuga da questa civiltà che di libero non ha proprio nulla…
Grazie Alessandro. Penso sia importante lanciare questi messaggi che arrivano dal passato. E’ importante che si leggano idee come queste, che ci si distragga dal fare e dai numeri dei record, dal sensazionalismo e dall’omologazione dello scalare oggi, che ci si ricordi di ricercare una sfera più intima alla base del nostro “fare” .
Per me il vivere è voler conoscere.
Se rinuncio non solo nego me stesso, ma anche la vita.
Un poeta sciita scriveva:
Così fa la vita
Gioca con te
A vole ti ama
A volte ti umilia
Così forse mi resta solo l’illusione di riuscire a conoscere
Alberto, non siamo tutti uguali e quindi diventa impossibile tracciare delle linee guida. A me certe esperienze, non solo montanare, la zavorra me l’hanno alleggerita, ad altri forse no. Ci sono persone che fanno scelte radicali e abbandonano la vita di tutti i giorni proprio perchè non ce la fanno più. Hanno ragione o hanno torto? Boh, chi lo sa. Ognuno ha il suo percorso individuale. Personalmente non so nemmeno più cosa sia la libertà, forse è solo una forma d’adattamento ma faccio fatica a spiegarlo in poche parole.
L’alpinismo, l’avventura, vivere la natura, gli spazi aperti, provare certe emozioni. Ci possono liberare, magari per alcuni brevi ma intensi momenti.
Ma è proprio così vero che queste attività ci liberano?
Non sarà che queste attività e le emozioni che ci fanno provare ci fanno sentire ancora più prigionieri della vita di tutti i giorni…?
Ci fanno sentire ancora più pesante la quotidianità?
Io non credo che alleggeriscono la zavorra. E per quel poco che posso aver capito, ma forse dico un’ eresia e se così mi scuso, non l’abbiano alleggerita nemmeno a Motti.
Sono d’accordo sulla riflessione di Giorgio, l’essere umano (ma non solo) è prigioniero. Il corpo stesso è una prigione perché con la mente si può spaziare ben oltre (e in ogni caso anche la mente ha i suoi limiti).
Va detto che l’alpinismo o anche il semplice escursionismo, sempreché vissuti in un certo modo, consentono di affacciarsi su orizzonti inesplorati del nostro essere e di tutto ciò che ci circonda, prendendo coscienza, magari solo per pochi istanti, di sfaccettature sconosciute della realtà. In questo modo ci si può liberare, per tempi più o meno lunghi (a seconda dell’intensità con cui si vive l’esperienza) dall’orrendo fardello.
Più queste esperienze diventano ricorrenti e più si alleggerisce la zavorra, zavorra che comunque ci accompagnerà sempre, almeno fino a quando esaleremo l’ultimo respiro. Poi si vedrà..
Ciao Alessandro,
è divertente leggere il tuo lavoro di connettività: una strategia di comunicazione a vortici concentrici, atemporali. Un pò come un uccello che con cerchi concentrici si avvicina accennando due parole di avvertimento va via, ritorna per vedere l’effetto che fà, etc.
Ma tu poi, in quante epoche vivi esattamente ? Sei come quei vecchi capi vampireschi che hanno quel tot di centinaia di anni e vedono le cose in archi temporali amplissimi ? Scherzi a parte, quoto qui sotto la frase di Gian Piero Motti:
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“Oggi vivi solo se produci, se ti inserisci nel sistema; sei un piccolo ingranaggio di una grande ruota che fa parte di un meccanismo ancora più grande.”
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Ecco, sull’ “oggi” della prima frase avrei da ridire: penso che la politicizzazione / storicizzazione fosse una affermazione legata a qual periodo storico (gli anni 70). Intendo cioè che: essere ingranaggio del “meccanismo ancora più grande” non è una faccenda del sistema sociale “moderno” (capitalistico?), ma una orrendo fardello dell’essere umano (addirittura di qualsiasi creatura animata e pietra?); è quello che tu chiamasti se non erro: “essere prigioniero” nella bella conversazione a casa tua esattamente un anno fà il 14 luglio 2015; “La pervicace ricerca del destino” è un compleanno (di consapevolezza?) che festeggio. Grazie.
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Fuori dai criptomessaggi penso questo: non è che l’uomo che si stacca (un attimo o per sempre) dalla urbanizzazione, stando sul Corno Stella o sull’Everest, sia necessariamente un uomo “diverso”, che ha “scelto”. Siamo tutti prigionieri, i primi più degli ultimi addirittura.
O nò ?
Letto con semplicità, anche se chi legge Motti è sempre in cerca di una verità. Certo che nel 71 era avanti!