Cerca duro e ne troverai tanto in giro
Intervista ad Alexander Ruchkin per www.Russianclimb.com
In un tempo in cui si discute se l’alpinismo tradizionale sia finito già un bel po’ di anni fa con le figure di Bonatti e di Messner, diamo il via a una serie di informazioni sull’attività nel mondo che contribuisca al generale dissenso.
Dal 2 al 5 maggio 2011 gli scalatori russi Alexander Ruchkin (St. Petersburg) e Mikhail “Misha” Mikhailov (Bishkek) salirono sulla vetta inviolata dello Shark’s Tooth 1555 m in Groenlandia (Regione di Renland) per la cresta nord-ovest. La via, Dance on tiptoes (Danza in punta di piedi), presenta un dislivello di 915 m m, uno sviluppo di 1200 e difficoltà di VII, dal 6a al 6c e A2.
Si tratta della stessa cima salita da Matteo Della Bordella e compagni nell’estate 2014: di questi, che hanno salito la parete nord-est per la nuova via The Great Shark Hunt, parleremo in un prossimo post. Le difficoltà della via, lo stile dell’impresa, il luogo remoto di questa montagna, unitamente alla complessa logistica ne fanno uno splendido esempio di avventura moderna, un’impresa che a buon diritto s’iscrive nel solco dell’alpinismo tradizionale (quello di cui oggi si paventa la scomparsa…).
Lo Shark’s Tooth 1555 m e il tracciato della via Dance on tiptoes
All’inizio del canale che porta alla cresta nord-ovest dello Shark’s Tooth
Mikhail “Misha” Mikhailov in arrampicata sulla cresta nord-ovest dello Shark’s Tooth
Mikhail “Misha” Mikhailov in arrampicata sulla cresta nord-ovest dello Shark’s Tooth
– Lo Shark’s Tooth è bello, grandioso… ma come avete fatto a trovarlo, e come mai l’idea di andare in Groenlandia?
– C’è un mucchio di cime mai salite. E su quell’isolona ghiacciata è possibile ogni forma di avventura, te la giochi con l’inesplorato. È questo l’allettante. Più difficile è raggiungere l’obiettivo, più è allettante. Questo non è solo quello che l’avventura dovrebbe sempre essere, ma ridà valore alla parola spedizione. La Real Adventure.
– Negli anni ’60 era così. Poi… è cambiato proprio tutto… guarda, c’è Edurne Pasaban che ha scritto che ogni mattina c’è un taxi-elicottero che ti aspetta all’Everest Base Camp per Kathmandu. Soffri in montagna… e già il giorno dopo sei sotto la doccia, in piscina. E ogni giorno di più l’EBC assomiglia a quello del film Vertical Limit. Ma non è così facile uccidere lo spirito d’avventura, vero? Mi sembra che quelli che sono attirati dalla Real Adventure alla fine diano luogo a progetti dove la scalata è alla pari con il viaggio per arrivarci, tipo le cose del team di Andrew Lebedev, dove non si capiva più dove cominciava la scalata e dove finiva l’escursione. Pensi che il vostro progetto fosse così?
– Sì, molto simile. Quando cominciai nel 2009 il progetto The unclimbed peaks, l’idea era di allontanarsi dagli stereotipi accettati dai più. Le condizioni erano chiare. Prima avevo visto tanti articoli, che predicavano “basta con i posti inesplorati”, “gli ultimi problemi da risolvere”, ecc. Non potevo capire, cosa si poteva fare di nuovo, allora? Poi parlai con Tamotsu Nakamura, secondo lui solo in Tibet ci sono più di tremila cime inviolate!
Alexander Ruchkin
Questo mi aveva davvero incuriosito, cominciai a prendere nota meticolosamente di tutte le cime da fare, anche quelle nelle zone più remote. Mi hanno aiutato gli amici, i redattori delle riviste, me ne sono arrivate centinaia, specialmente dal Pakistan. Ma la maggior parte non mi interessava tanto… erano troppo facili… E invece a me piace la via difficile. Cominciai così ad affinare la ricerca, mettendo tre paletti: la cima dev’essere vergine, bella e tecnicamente significativa. Cerca duro e vedrai che ne trovi tanto…
Ho sognato la Groenlandia parecchio tempo, anche prima dello Jannu (Ruchkin e Mikhailov hanno partecipato alla spedizione russa sull’inviolata parete nord dello Jannu, culminata nel maggio 2004 con la cima di Ruchkin e Dmitry Pavlenko. Questa salita è stata premiata con il Piolet d’Or 2004, non senza critiche per l’impiego di corde fisse, NdT). Pensavamo di andare con Valery Rozov, ci piacevano quelle pareti così simili a quelle dell’isola di Baffin.
– Come vi siete preparati alla spedizione tu e Misha?
– Beh, abbiamo fatto vari errori. La questione è che i miei desideri vanno più forte delle mie possibilità… Abbiamo iniziato troppo presto, sarebbe stato meglio andare a luglio o agosto, non avremmo dovuto fare così tanta pista nella neve…
– Hai visto altri obiettivi per il futuro?
– Altro che! Dobbiamo tornare! In più la Groenlandia l’abbiamo vista poco con il tempo che c’era quando abbiamo fatto il volo. D’estate puoi raggiungere in barca un posto assai vicino al nostro campo base.
– Hai detto che molti disagi li avete avuti per le restrizioni in aereo al peso totale del vostro equipaggiamento? Quindi non avevate portaledge, periò avete deciso di salire la cresta, non una parete.
– Sì, in effetti mi interessava la parete. C’è una fessura bellissima al centro, ripida, circa a 80°. Ma il limite di 40 kg ci ha imposto di rinunciare. In primavera, non si poteva fare senza portaledge. Non c’è spazio per le tendine, e fa troppo freddo per dormire seduti.
– E davvero la vostra real adventure è cominciata ben prima della scalata?
– Allora, siamo arrivati con le motoslitte a circa 10-12 km da quello che avevamo previsto essere il campo base. I piloti avevano paura di cadere in qualche crepaccio coperto. Proseguimmo con gli sci, con tutto sulle spalle. Fu massacrante, giorni e giorni nella neve fresca, continuava a caderne di nuova.
In Groenlandia ti svegli ogni mattina e pensi la stessa cosa – che hai dormito troppo! Perchè in questo periodo dell’anno c’è sempre la luce del giorno! Quando siamo arrivati faceva un freddo terribile e la nostra prima impressione è stata che ci fossimo tristemente sbagliati, e che non avremmo avuto alcuna chance di salire qualcosa. Tutto era semplicemente troppo; la neve, le temperature fino a -20C, l’umidità molto elevata e il vento fortissimo sembravano ridurre le nostre possibilità a zero. Gli orsi, le loro tracce e le armi che avevamo affittato hanno aggiunto un elemento di vivacità alla nostra spedizione ed eravamo nel più alto stato di allerta. Andavamo a dormire mettendo da parte una pistola carica, fumogeni ed una pistola per lanciare un segnale per spaventare i nostri bianchi “ospiti”. Abbiamo vissuto, dormito e mangiato sempre in uno stato di allerta, per essere pronti se per caso “gli ospiti” fossero venuti a visitarci. Per fortuna non sono mai arrivati!
– Che impressione avete avuto della montagna, quando l’avete vista?
– Coincideva con le aspettative, la parete è molto difficile, impossibile in quelle condizioni. Le previsioni ci davano cinque-sei giorni di bel tempo. E dopo, niente. Comunque ne avemmo sette. Non sapevamo neanche la quota della vetta… alla fine scegliemmo di fare la cresta e non ce ne siamo pentiti. Era al sole al pomeriggio e fino alle 22 si poteva scalare con una certa comodità.
– Come l’avete fatta?
– Ci sono voluti quattro giorni.
Giorno 1, 2 maggio. Piantammo il campo base sull’Edward Bailey Gletscher, a circa 40 m di quota. Alle 11 cominciammo a salire sui pendii della morena, circa 600 m, poi entrammo nel canale. Eravamo alla base della grande parete, a circa 640 m. Il couloir era ripido, speravamo non ci cadesse niente in testa, visto che lì il sole non ci arriva mai. In tutto è alto 300 m, circa 8 lunghezze. Lo salimmo tra le 15 e le 21, alla fine trovammo un buon posto per la tenda. Ci mettemmo a dormire all’1.30.
Giorno 2. Sveglia alle 10, verso le 13.30 iniziai il primo tiro sulla parete. Dopo qualche risalto di neve, una paretina, poi una placca quasi verticale a sinistra portava a una serie di buoni camini (70°-90°), con buona aderenza e lastre per riposare. La prima lunghezza l’ho fatta con gli scarponi. Cambiate le scarpe, sono andato avanti per tre tiri e mezzo con le scarpette, non c’era un gran freddo, -5°, -10°. Andavamo su bene, tutta la scalata si fa in arrampicata libera, anche il pezzo più difficile. Solo in due pezzettini da 2 metri abbiamo fatto un po’ d’artificiale. Non c’era nulla, solo delle fessurine microscopiche, ho dovuto usare qualche gancio. Ci sono un po’ di tratti di 6c. Quel giorno abbiamo fatto 4 lunghezze e mezza.
Giorno 3. Anche Misha ne ha salite quattro e mezza. Due sulla cresta, affilata, ricoperta di neve che lui ha dovuto rimuovere. La neve tendeva ad appiccicarsi alla roccia! Non si capiva se c’era da fidarsi con l’aderenza o no. Una brutta sensazione.
Meno male che c’erano parecchie cenge per le tende. Io credo che d’estate questa via si può fare in due o tre giorni, se si è veloci, e magari senza la tenda, solo i sacchipiuma.
La notte la passammo su una sezione orizzontale della cresta. Misha salì ancora due tiri, un camino pieno di neve e un diedro. Sopra c’era una cresta senza cenge. Lasciammo tutta la roba al bivacco e decidemmo di proseguire alleggeriti la mattina dopo. Eravamo a circa 1300 m, speravamo di farcela a scendere alla tenda prima di notte.
Giorno 4. Salii quattro lunghezze bellissime (6a-6c) e una quinta, facile, ci portò in cima. Sul punto più alto eravamo alle 18.30, tempo buono. Da lì vedevamo altri ghiacciai e altre cime, per tutti i gusti, dalla big wall allo stile alpino. Dopo un’ora in vetta, cominciammo a scendere a doppie. Subito siamo andati veloci, poi ci siamo un po’ incasinati e non speravamo più di arrivare alla tenda, le corde non scorrevano… ci dispiaceva di non avere con noi almeno un cordino di servizio, da poter lasciare
– Quando siete stati in Cina, e anche qui in Groenlandia, scalavate in due, e non c’era nessuno al campo base. Come vi trovavate?
– In quelle condizioni devi andare con ancora più prudenza, bisogna avere ancora più margine. Certo, ci mancava chi ci seguisse, se non altro sarebbe stato un buon conforto. Ma in caso di aiuto serio, c’è comunque bisogno di una cordata che sia allo stesso livello, se no… La cosa migliore sarebbe di essere in due cordate, magari che salgono su vie vicine.
Noi avevamo un satellitare e l’abilitazione a chiamare un elicottero. Non è come essere sulle Alpi, con gli elicotteri svizzeri o francesi… però avremmo potuto scendere un poco e farci recuperare. Sapevano dove eravamo. Ci eravamo portati un buon kit di pronto soccorso.
Lo schizzo tecnico di Dance on tiptoes
postato il 25 settembre 2014
0
Ho letto recentemente una seconda intervista a Messner, il quale ha colto l’occasione per precisare meglio alcuni passaggi della precedente rilasciata a La Repubblica.
Sta di fatto che la conclusione, anche in quest’ultima, è la medesima: sì è vero, ci sono dei giovani che fanno dell’alpinismo seriamente. Ma sono pochissimi; la stragrande maggioranza fa semplice turismo….
Io ho un anno di meno di Messner e seguo l’Alpinismo fin da giovane. Non ricordo che ai tempi d’oro dell’altoatesino ci fosse una moltitudine di alpinisti-veri, tale da ridicolizzare il complessivo numero odierno.
Deve essere proprio difficile accettare che la propria fama sia sì intatta ma non più al centro dell’attenzione generale. E ciò nonostante si scriva settimanalmente sulla Gazzetta dello Sport, ci si faccia intervistare dai maggiori quotidiani nostrani e, senza dubbio, tedeschi.
Perché non accontentarsi del tanto fatto e riconosciuto?
E’, questo, un comportamento offensivo di un’intelligenza che non lo merita.
Tutto ciò, a mio modesto avviso…
Ma infatti non è finito proprio niente, semplicemente sono cambiate alcune cose. Il problema di fondo è che quando parla uno come Messner anche i muri drizzano le orecchie mentre quando degli emeriti sconosciuti (al grande pubblico ma non solo) compiono un’impresa rilevante nessuno se ne occupa (salvo poche riviste specializzate).
Il mondo alpinistico è pieno di persone, più o meno talentuose, che superano pareti difficili nella quasi totale indifferenza generale. Viceversa viene dato risalto mediatico a spedizioni commerciali che trascinano decine di persone sull’Everest. Tutto ciò, se ci pensiamo bene, è normale. Anche un analfabeta sa qual’è la montagna più alta del mondo mentre, molto probabilmente, anche un esperto del settore sa poco e niente dei monti della Groenlandia, dell’Antartide e di tutte le cime himalayane tutt’ora inviolate.
L’alpinismo è più vivo che mai ed eventualmente si potrà dire che ci sono diversi modi per andare in montagna ed ancora più modi per muoversi sulla roccia e sulla neve. Dire che era meglio prima, che si stava meglio quando si stava peggio, ecc., è molto spesso un modo per nascondere la propria inadeguatezza ad accettare lo scorrere del tempo, e ciò si verifica soprattutto quando su quel “prima” si è costruita la propria immagine.
I miei complimenti per la traduzione ma ancora di più per il fatto di aver riportato alla luce questa intervista