Metadiario – 229 – Tavolara (AG 2000-005)
Tornando con la memoria ai tempi del mio primo viaggio in Sardegna (1980), mi sovviene il primo colpo d’occhio sull’isola di Tavolara. Ero affamato di roccia e quella gigantesca isola non così distante dalla costa ne prometteva a iosa. Ma mi fu subito chiara l’impossibilità di risolvere, in breve tempo, le difficoltà di accesso. In più si vociferava della proibizione di molte aree. Parcheggiai l’isola in un angolino della mente e me ne occupai solo l’anno successivo, tornato in Sardegna per scrivere Mezzogiorno di Pietra.
L’isola di Tavolara, alta fino a 565 m sul livello del mare e 5,9 kmq di superficie, è una tozza, rettangolare e pressoché disabitata «mesa» sorgente dal mare che precipita quasi da ogni parte con pareti calcaree verticali.
Venni a sapere delle sue restrizioni militari NATO e che il naturalista trovava lì uno degli ambienti mediterranei più intatti, anche se i prolaghi erano scomparsi, assieme all’avvoltoio monaco, al falco pescatore e alla foca monaca che una volta si riproduceva nella Grotta del Papa.
Due sono le punte, molto vicine tra loro, che costituiscono la sommità di Tavolara (il Monte Petrosu): a sud-ovest la Punta di Lucca 552 m e a nord-est la più alta, la Punta Cannone 565 m. Tra le due è il lieve valico del Buco del Cannone, al quale giunge la via normale del versante ovest (munita di qualche corda fissa), ovviamente già percorsa da pastori e cacciatori. Potevo presumere che anche il versante sud-est fosse percorso da una vecchia via di pastori e cacciatori, che in seguito scoprii chiamarsi la via delle Scale, caratterizzata da alcune scalette di legno per superare i tratti rocciosi più ripidi, oggi non più presenti.
Sapevo della campagna sarda del finanziere (mio coetaneo) Alessandro Partel e compagni nel 1973: un’impressionante successione di vie, un giorno dietro l’altro o quasi in un sistema molto simile a quello del nostro team di Mezzogiorno di Pietra. Ma le differenze erano tante: scarponi rigidi, classico sistema dolomitico, scrupoloso rispetto della richiesta permessi al Comando. In vari casi i finanzieri erano ricorsi all’uso spinto di mezzi artificiali, raggiungendo quindi gli obiettivi prefissi senza però realizzare sempre vie belle davvero. Il 6 ottobre 1973 la squadra era a Tavolara, raggiunta con la motovedetta e ricevuta con tutti gli onori da Carlo II, il “Re di Tavolara”: puntarono subito al bel pilastro ovest di Punta di Lucca, circa 200 m di dislivello. Partel e Aldo Caurla ne affrontarono la parete nord-ovest (via Caduti dell’Hercules, fino al VI e A1/A2, 80 chiodi e 3 cunei) e la lasciarono quasi tutta attrezzata. Il giorno dopo Emilio Beber, Carmelo Andreatta e Giovanni Cagnati seguirono invece il più logico ed estetico filo del pilastro ovest (via Sergente Gavino Caria, fino al V+, lasciata attrezzata integralmente con 45 chiodi e 3 cunei).
Questo era quanto sapevo della storia alpinistica dell’isola. Solo molti anni dopo, in seguito alle mie ricerche, sarei venuto a sapere che quei due itinerari erano stati sicuramente ripresi, almeno in modo parziale, dalle successive esplorazioni di altri che comunque hanno dichiarato prime ascensioni, nonostante i numerosi chiodi lasciati dai finanzieri, che non avevano alcun problema di sperpero materiale. Anche Cesare Maestri pare avesse programmato una visita a Tavolara, ma il viaggio fu cancellato non appena informarono il Ragno delle Dolomiti che ben due “problemi” dell’isola erano già stati risolti dai finanzieri.
In più, sembra che lo stesso Partel non abbia pubblicizzato più di tanto le due vie (le relazioni uscirono solo su Lo Scarpone) forse perché non regolarmente autorizzate dal Comando. E ciò è dovuto ai pretesi diritti di proprietà privata del “Re di Tavolara”. Wikipedia, ancora oggi, assume acriticamente come valido il divieto imposto dal proprietario terriero. Tanto bastò a Gino Buscaini, direttore della collana Monti d’Italia, per stornare l’isola dalla guida Sardegna di Maurizio Oviglia, il quale, per lo stesso motivo, decise di escluderla dalle edizioni del suo Pietra di Luna.
La prima volta che misi piede a Tavolara fu per salire la bella cresta sud-sud-ovest di Punta di Lucca, di certo la struttura più evidente dell’isola intera. Gli amici di Levanto Paolo e Giovanna Giusto avevano invitato Guya e me qualche giorno nella loro bella villetta di San Teodoro. Il soggiorno fu piacevolissimo, punteggiato da consistenti mangiate e bevute nella simpatia. Io avevo preso accordi con Guido Daniele, che venne da casa sua a Posada portando con sé l’amico Marco Marrosu, un giovane studente sassarese di notevoli capacità arrampicatorie.
Il 23 agosto 2000 Paolo Giusto gentilmente ci diede un passaggio in barca da San Teodoro: di mattina presto eravamo saltati sugli scogli di Punta della Mandria e avevamo afferrato l’evidente cresta pensando d’essere i primi, e soprattutto di fregare gli eventuali controlli che comunque avvenivano al porticciolo di Punta Spalmatore, a circa mezz’ora di cammino dal nostro approdo.
Nell’individuare il nostro percorso cercammo di scegliere un itinerario che avesse una logica moderna, dunque evitando troppi giri tra i vari risalti. Purtroppo, nel punto che poi risultò essere il più impegnativo della via (VII-) occhieggiava un chiodo arrugginito.
Marco risolse brillantemente quel passaggio, che però ci aveva fatto capire che qualcuno ci aveva preceduti. Non ci rimase che gustarci il resto della salita fino al trionfale arrivo in vetta. Uso la parola “trionfale” non perché avevamo fatto una grande impresa, bensì perché la gioia d’essere lì riusciva a far dimenticare qualunque ansia da prestazione.
Scendemmo sfruttando qualche malandata corda fissa nel canalone a nord-ovest e non facemmo fatica a reperire il buon sentiero che ci avrebbe portati a Cala Spalmatore, dove avevamo appuntamento con Paolo, Giovanna e Guya. Ci fece effetto l’inserimento nell’unica realtà turistica di Tavolara, servita da un traghetto che da Porto San Paolo porta con più corse all’isola il suo quotidiano carico di turisti-bagnanti.
Dopo la nostra rapida salita del 2000 alla cresta sud-sud-ovest della Punta di Lucca a Tavolara, mi ero sempre proposto di fare una ricerca su chi aveva salito per primo quell’estetico crestone che si alzava dal mare e terminava in vetta a ben oltre 500 metri sul livello del mare.
Fino a che mi capitò in mano un libro, l’atto d’amore per Tavolara scritto da Giuliano Stenghel, il grande arrampicatore di Rovereto: Nonno… perché abbiamo i denti d’oro? (Associazione Serenella, 2009). Lì erano le risposte alle mie domande: lessi tutto con grande sorpresa.
Grazie al libro di Bodo Habel Faszination Tavolara, donatogli da un amico, e grazie alla disponibilità di Heiner Habel, il figlio di Bobo, Stenghel aveva potuto stendere in coda al suo libro una piccola monografia alpinistica dell’isola (senza però citare, perché non ne era a conoscenza, le due vie dei Finanzieri). La prima ascensione della Cresta di Monte Petrosu, cioè la cresta sud-sud-ovest, fu merito di Winfried Eberhardt, Rosi Maltusch e Bodo Habel, il 16 ottobre 1979. I tre avevano evitato il tratto più difficile, passando più a destra su difficoltà meno impegnative. Ancora in seguito venni a sapere della ripetizione nel dicembre 1988, di Mauro Soregaroli, Demetrio Ricci e Luca Serafini, gli apritori della variante da noi seguita, che ovviamente avevano parlato di prima ascensione.
Oggi purtroppo la cresta è devastata dalla costruzione della via Ferrata degli Angeli, parzialmente poi smantellatam ma che mi risulta ugualmente percorribile.
Guido mi aveva parlato di una linea che lui da tempo aveva individuato, proprio in bella vista dalla sua casa di Posada: l’evidente pilastro nord-nord-est del Monte Albo. Nel 1981 avevo colpevolmente trascurato il versante di questa montagna.
La mattina del 26 agosto convinsi Guya ad abbandonare per un giorno le amate spiagge di San Teodoro, nonché la compagnia dell’amica Giovanna, per seguirmi nella nuova avventura programmata con Guido. Questi ci portò con sicurezza alla base riarsa del Monte Albo. Purtroppo, a dispetto del versante settentrionale e della quota prossima agli 800 m, faceva un caldo esagerato. Lasciammo la predestinata sotto una quercia gigantesca, in vista del nostro sperone.
– Guarda che tra un po’ arriverà un gregge di pecore – le disse Guido.
– Ma c’è anche il pastore? – chiese lei.
– Non so se si paleserà, ma di certo un pastore c’è sempre…
A Guya l’idea di essere spiata non andava per nulla a genio, ma fece buon viso a cattiva sorte.
– Nel caso urla, che ti sentiamo – conciliai io, raccomandandole anche di bere dalla borraccia.
Il pilastro nord-nord-est della Punta Su Pigiu del Monte Albo era già stato teatro di un tentativo da parte di Guido Daniele con un suo amico. Avevano salito il primo tiro. Alla base il pilastro non è così ben delineato, ma il calcare si presenta ottimo. E anche le difficoltà appaiono subito, specialmente dopo la prima sosta (VI+). Dopo qualche lunghezza il pilastro si delinea maggiormente a spigolo, per di più movimentato prima del quinto tiro da una breve corda doppia di 8 m per scendere dalla vetta di un torrione staccato.
Vedevamo la zona della quercia, sotto la quale era Guya, letteralmente invasa da pecore e capre, ma per fortuna niente pastore.
L’arrampicata continuò aerea e splendida fino alla vetta, che raggiungemmo molto assetati. Eravamo entrambi molto contenti, perché questo pilastro è una vera chicca. Chiamammo questa via di 6 lunghezze Bella orientale.
In breve fummo di nuovo alla base: ero ansioso di sapere come la mia compagna avesse preso quella forzata solitudine. La trovai sorridente: le bestie si erano un po’ allontanate, non aveva visto alcun pastore, e in compenso aveva passato il suo tempo a osservare il comportamento dell’intero gregge. Sapevo quanto lei amasse, da buona veterinaria, seguire attentamente il movimento, le espressioni, i versi di tutti gli animali, di solito attribuendovi i significati più vari. Ma provate voi a stare più di quattro ore al caldo feroce, senza leggere, in un assordante scampanio le sole varianti al quale erano i periodici, ma rari, “molla tutto” e “vieni” urlati dai due pazzi.
In Marco Marrosu avevo subito visto il ragazzo promettente che era, lo alimentava una passione molto simile alla mia. Anche con lui ero rimasto in contatto e ci eravamo accordati per una visita al gruppo delle Torri di San Pantaleo, dove lui aveva adocchiato una bella via da fare.
Il 29 agosto 2000 ci trovammo a San Pantaleo, questa volta ero solo e avevo graziato Guya. Con lui invece era la sua fidanzata di allora, la simpatica Paola, la “mantovana”. Sarebbe stata lei, invece di Guya, a guardarci dal basso…
Ci dirigemmo allo Stazzo Manzoni e alla svettante e granitica parete sud del Balbacanu, dove riuscimmo a tracciare T 39°, che si rifaceva ai vecchi tempi del mio libro Mezzogiorno di Pietra e di T 38°). La via, di 7 lunghezze, si rivelò molto faticosa e di severo impegno, sia per le difficoltà in libera (fino al VII-) sia per un ostico passaggio in artificiale (A2), sia per il caldo bestiale. Secondo Marco la parete avrebbe dovuto essere a ovest e invece è in pieno sud.
Ritornammo da Paola e, subito dopo, storica bevuta di birra in un bar di San Pantaleo. Ci salutammo con un “a nos bidere”.
8
A cavallo tra gli anno ’80 e i ’90 sono andato a Tavolara ogni anno, anche più volte. Organizzavo il Barcatrek, una crociera di una settimana tra Bonifacio e Arbatax facendo escursioni a piedi e vivendo sulla barca trasferendoci via mare anche di notte.
L’imbarcazione era una vecchia paranza su cui ci accampavamo qua e là, montando anche qualche tenda a igloo. Un giorno arriviamo a Tavolara e un Tizio con l’aria poco amichevole ci ferma dicendoci che l’isola è privata e che non si può passare per accedere al sentiero per Punta del Cannone, l’escursione che prevedeva il nostro programma. Tornati in barca sconsolati, il nostro “comandante” Antonello Erittu, nonché mio amico fin dall’adolescenza si offrì di andare a parlare con il guardiano, che nel frattempo si era messo a tracolla una doppietta.
Scoprirono di avere delle conoscenze in comune in Barbagia. Saltò fuori dell’acquavite e la doppietta fu riposta in un angolo. “Ebbè? I tuoi compari restano sulla barca? Mi, che se non vengono a bersi un bicchiere mi offendo”.
Ci saranno stati 38 °C e il nome di Abba Ardente ci sembrò molto appropriato. Poco dopo il guardiano ci invitò a farci la nostra escursione mentre avrebbe tenuto in ostaggio il nostro comandante. Negli anni che seguirono la tappa di Tavolara la chiamavo la visita a Pasquale e ogni volta mi presentavo con un piccolo regalo per il guardiano. Era lì esiliato per scontare una pena detentiva e non poteva lasciare l’isola. Ci raccontò anche perché, ma questo non lo scrivo qui.