È noto come il fascismo, nella sua ascesa prima e nel mantenimento del potere in seguito, fu ampiamente foraggiato e sostenuto, contro il così detto “pericolo rosso”, da un blocco reazionario che vide saldati gli industriali del Nord con gli agrari del Sud. E, tuttavia, come spesso accade sia nelle piccole che nelle grandi vicende della storia e della vita, vi furono le eccezioni più o meno significative. Vi fu, infatti, anche fra gli industriali chi, da sempre antifascista per cultura e convinzioni, ritenne insostenibile collaborare con quel regime i cui valori e princìpi risultavano inconciliabili col proprio modo di essere. In seguito, questo atteggiamento culturale, ancor prima che politico-ideologico, fu portato fino alle estreme conseguenze… È giusto, quindi, dare i dovuti meriti a chi, pur potendo vivere allora in assoluta (complice) tranquillità, si oppose al fascismo in vario modo e spesso pagando di persona.
Per questo vi proponiamo il breve racconto di un fatto realmente vissuto da una Signora torinese, intitolato Una visita inaspettata. Si tratta di un nitido ricordo denso di particolari sfumature, che rendono egregiamente l’atmosfera del tempo. La Signora (che appartiene ad una famiglia antifascista di facoltosi industriali torinesi) non è una scrittrice di professione, ma semplicemente, come tante o tanti, ama scrivere quasi per sé, per ricordare, per… lasciare traccia di sé.
Noi, d’altro canto, amiamo “cercare” e “cogliere” soprattutto tra i “fiori” spontanei che affiorano dal terreno della Storia e della vita, come quello che la Signora oggi ci offre, derogando, una volta tanto, dalla sua riservatezza.
La signora Maria Ornella, in quel tempo appena una bambina di sei o sette anni (estate 1944), non ci fa ”udire” il crepitio delle armi, né assistere ad audaci azioni di guerriglia, ma ci presenta semplicemente, come in un film neorealista a episodi, lo scorrere d’una “tranquilla ” giornata estiva, improvvisamente rotta da un’inattesa… “visita” (Democratici di Sinistra – Terrasini).
Una visita inaspettata
di Maria Ornella Ghisotti
Mio padre è sempre stato antifascista e con lui i suoi fratelli: erano sette e uno solo fra loro si iscrisse al partito poiché, essendo industriale, come gli altri, d’altronde (avevano tutti assieme una ditta di colori) si era trovato, diciamo così, nella necessità, per poter lavorare più in pace, di iscriversi al fascio, Questo però fu causa, in una famiglia che fino ad allora era stata molto unita, di un certo raffreddamento che li portò addirittura per un certo periodo a non parlarsi più, perché per tutti gli altri fratelli quello del primo (era infatti il più anziano) era un vero e proprio tradimento al loro credo, essendo tutti di idee liberaldemocratiche, da non intendersi in senso strettamente partitico, ma piuttosto di comportamento nella vita, sia nel campo del lavoro che nel rapporti col prossimo e coi dipendenti: questo per dire come a persone così, il regime stesse veramente molto, molto stretto.
Avevano tutti, inoltre – ma a quel tempi era una cosa comune a tanti – un senso del dovere e della deontologia professionale che, viste di questi tempi, parrebbero qualità quasi incredibili, mentre per loro era una cosa assolutamente normale essere così. Nel lavoro, quindi, in tutto il periodo del ventennio, ebbero spesso problemi, proprio per la loro ostinazione (con l’eccezione di uno) a non volersi iscrivere al fascio.
Stavamo a Torino prima della guerra e ci restammo anche il primo anno del conflitto, sino al primo bombardamento, un po’ violento (crollò una palazzina vicina alla nostra). Ci trasferimmo così in una villa di campagna vicino a Torino.
Papà in quel periodo non aveva voluto neppure che i due miei fratelli più grandi, io e l’altra mia sorella eravamo troppo piccole, avessero la divisa da Balilla il maschio, e quella da piccola italiana la femmina; si era rifiutato ostinatamente di fargliela fare. I giorni in cui da scuola mandavano a dire di presentarsi in divisa, per qualche manifestazione, i miei fratelli rimanevano a casa, con loro dispiacere perché si sentivano diversi dagli altri per non avere la divisa, ma il loro dispiacere durò poco. Capirono presto che la libertà di idee non ha prezzo e non c’è divisa che tenga, per quanto bella sia, se bisogna pagarla a certi costi.
Succedeva così che in tutti i libri, anche scolastici, in cui c’erano immagini del duce, queste fossero ritoccate con l’aggiunta di grandi baffoni o riccioletti sulla testa, rendendo l’immagine abbastanza ridicola. A scuola forse nessuno se ne accorse, ma, dopo qualche anno, sfollati in campagna, in piena guerra, poco ci mancò di far pagare caro a tutta la famiglia questo innocente passatempo.
Era piena estate, e faceva un gran caldo, giornate limpide ma ferme d’aria, saranno state forse le 13.30 o le 14.00, avevamo già pranzato e c’era silenzio perché ognuno a quell’ora e con quel tempo sentiva il desiderio di riposare, e papà che quel giorno non era al lavoro (che fosse domenica?) si riposava sotto un tiglio. Noi figli eravamo chi a leggere e chi a disegnare in casa, al fresco, mamma e le tate in cucina. Devo aprire una parentesi a questo punto. Papà aveva già una certa età, aveva fatto la Grande Guerra, e ho già parlato delle sue idee liberali; ora, durante questo secondo conflitto mondiale, era attivamente impegnato nella propaganda antifascista, in casa nostra si tenevano riunioni a cui partecipavano sacerdoti impegnati sullo stesso fronte, mascherate da incontri per un tè pomeridiano, nelle quali uno di questi sacerdoti, ho ancora viva la sua immagine, alto, dinoccolato, con la lunga tonaca sempre svolazzante perché era in perenne movimento, nei momenti in cui si temeva una intrusione poco simpatica, si lanciava verso il pianoforte a coda e iniziava a suonare; benissimo tra parentesi, come se fosse venuto lì solamente per quello, e papà, mamma e le altre persone lì riunite si mettevano a mangiare pasticcini (di guerra) e a bere tè con aria innocente e salottiera.
Ricordo anche l’ascolto di Radio Londra (ascolto proibito), la sera nel tinello; papà attaccato alla radio, io bambina avvertivo qualcosa di misterioso nell’aria e rammento che mi domandavo perché dicessero quelle frasi senza senso dopo il bong bong bong iniziale, frasi tipo: «Gianni prendi il fucile» o «Giuseppe ammazza i leoni» e altre cose simili. Mio fratello si chiamava Gianni e il nostro giardiniere Giuseppe ed io, per un po’ di tempo, ho creduto che la radio si rivolgesse a loro… Erano i messaggi in codice.
Ma torniamo a quel pomeriggio caldo d’estate. Come ho detto erano forse le 13.30 o le 14.00 e il nostro grande giardino, che circondava la villa formando un quadrato chiuso su due lati da muri ricoperti di rampicanti e nascosti da piante e da cancellate sugli altri due lati, improvvisamente si riempì di repubblichini (soldati fascisti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, NdR), per l’esattezza 52 persone in tutto, che avevano scalato i muri e scavalcato le cancellate, coi fucili imbracciati e sacche di bombe a mano appese alle spalle, e concentricamente e silenziosamente avevano circondato la casa. Papà si trovò con un fucile puntato addosso, e vide arrivare, pallido come un morto e stretto fra due soldati armati, il giardiniere che, essendo a fare dei lavori in qualche angolo del giardino, era stato prelevato e portato vicino a casa perché non potesse scappare.
Mio padre è sempre stato una persona molto corretta, anche nei modi, e quindi fece notare che c’era un cancello, con annesso campanello per essere ricevuti e che il metodo usato non gli pareva il più elegante per entrare in casa d’altri. Fu zittito seccamente da un ufficiale che gli intimò: «Sappiamo che voi avete qui una radio ricetrasmittente e ve la dobbiamo requisire». Alla risposta che non c’era nulla di tutto ciò (infatti l’apparecchio non era da noi, non vorrei sbagliare, ma mi pare fosse nel collegio dei salesiani, collegio in cui stava il prete pianista), non cedettero e fecero quindi una perquisizione in casa, che dette fortunatamente esito negativo. Nel frattempo noi quattro fratelli eravamo usciti nella veranda e di lì scendemmo in giardino per andare vicino a papà. Sotto i tigli c’erano tavolini e sedie, sul tavolini noi ragazzi avevamo appoggiato dei libri di scuola, sui quali c’erano immagini del duce conciate allo stesso modo di quelle di cui ho parlato prima, segni del fascio completamente cancellati da grossi tratti di matita e via di questo passo. C’erano anche del libri d’inglese, che studiavamo con un amico di famiglia, anglo-italiano; c’era il tavolo del bridge con il notes per i punti scritto in inglese, e, dulcis in fundo, il nostro cane si chiamava Black!
Quel che dico ora può sembrare incredibile, ma erano cose PERICOLOSE per quei tempi.
L’atmosfera era tesa, c’era sospetto da una parte e rabbia dall’altra. Ad un certo punto, improvvisamente, l’aria si distese perché mentre stavano facendo la perquisizione in casa un ufficiale vide un quadro appeso in una stanza che rappresentava le cascate di Tivoli (donato a mio padre dall’autore che era stato suo compagno d’arme nella Grande Guerra) e dopo averlo guardato a lungo chiese da dove venisse; alla spiegazione di mamma egli rispose: «Io sono il figlio di M. L». Luciani?
Di colpo l’atmosfera si rilassò, per una specie di miracolo, ci fu anche, forse, della commozione da parte sua e dei miei genitori nel ricordare il pittore scomparso e da quel momento tutto cambiò.
Mia sorella Franca, che nel frattempo si era seduta su un tavolino, e noi non capivamo perché non ne scendesse più, riuscì velocemente a far sparire i libri scarabocchiati, quelli di inglese e i notes del bridge, che allora si doveva chiamare “gioco del ponte”.
I ragazzi coi fucili, alcuni di loro molto giovani, poco per volta posarono le armi e si misero a chiacchierare con noi. Ve ne era uno che disegnava molto bene, e con pochi esperti tratti, mia sorella ha ancora quei disegni, eseguì una serie di scenette che illustravano l’invasione nel giardino, con soldati che scendono dai muri, il cane che li accoglie abbaiando, ed altre immagini.
Il pomeriggio intanto passava, e l’atmosfera era quasi amichevole, in fondo non avevano trovato nulla di molto grave, salvo le cose di cui ho parlato prima, ed anche uno dei nostri giochi, una piattaforma costruita con delle tavole da noi ragazzi in cima ad un alto faggio e su cui andavamo a giocare agli indiani, fu oggetto di grande attenzione essendo parsa un possibile punto da cui fare segnalazioni ai partigiani. Anche i panni del bucato, già ben stirati e piegati, e messi sul davanzale di una finestra del piano superiore da una delle cameriere, fu oggetto di infinite domande. Perché erano lì, che significato avevano, potevano essere visti da qualche postazione partigiana sulle colline di fronte e quindi servire da segnalazione. Alla fine anche questo si chiarì: la roba stirata era ancora un po’ umida e semplicemente era stata esposta al sole perché asciugasse in fretta!
A sera se ne andarono, finalmente, quasi in amicizia.
Come ho detto prima, erano tutti molto giovani e forse a qualcuno la nostra famiglia aveva suscitato ricordi di una… famiglia lontana.
3
Grazie per questi frammenti di vista vissuta che ci rammentano di tenerli bene a mente.
Un blocco sociale tra industriali settentrionali e agrari meridionali? Vale la pena ricordare che lo squadrismo agrario fu un fenomeno soprattutto settentrionale, anzi padano, anzi romagnolo con epicentro a Bologna e Ferrara.