Valore pieno
di Karen McDiarmid
Illustrazioni di Andreas Schmidt
(pubblicato su Alpinist n. 87)
“Prima c’è una montagna, poi non c’è, poi c’è”, dalla canzone di Donovan Leitch There Is a Mountain, 1967.
Prima c’è una montagna
Gennaio 1987. Si tratta di una lenta presa di coscienza. Se scivoli qui, morirai, dice una piccola voce exracorporeaa. Un pugno a tradimento sussurrato.
Sono senza corda. Non c’è nessuno che possa salvarmi. Mi avvinghio alla cascata di ghiaccio e stringo con forza le piccozze, mentre i ramponi cercano di fare presa. Sento sul viso la brezza del mattino, spiacevole.
Pochi istanti fa mi sono riposata, ho sbirciato sopra le mie spalle e ho osservato tutto ciò che mi circondava: i cristalli che luccicavano nell’aria, la sfumatura bluastra del ghiaccio, il grigio cupo della roccia, il verde spento degli alberi spolverati di neve. Mi voltai verso il ghiaccio e feci un altro passo verso l’alto. Poi mi sono fermata e a quel punto ogni gioia era svanita.
Mi arrivava da molto in alto il rumore sordo e regolare che gli attrezzi della mia compagna facevano. “Mary”, come la chiamerò in questa storia, sta avendo una buona giornata. Il cielo è di un azzurro intenso, un cielo che ti chiede “Cosa può mai andare storto?”. Stringo gli occhi, abbandono il mio corpo e volo verso l’alto, in alto e in alto fino a quando non vedo noi due molto in basso, minuscoli puntini contro una scia scintillante sulla parete desolata della Cascade Mountain.
Figlia del mare, avevo ventidue anni quando sono arrivata sulle Montagne Rocciose canadesi alla fine dell’estate del 1975. Un corso biennale di fotografia alla scuola d’arte mi aveva portato a Banff dalla Vancouver Island. Ero felice come non mai. Arte, natura selvaggia, fuga da una vita prevedibile: era tutto ciò che desideravo. Sebbene fossi una viaggiatrice esperta, ero ancora una giovane donna senza scrupoli, troppo ingenua per conoscere la mia mente, troppo disposta a farsi dire cosa fare e come vivere. Il primo inverno fu duro. Mi rifugiai in una minuscola capanna sotto le cime incombenti, ai margini del Bow River intasato dai ghiacci. I coyote ululavano di notte e ogni tanto un orso si aggirava nel mio giardino. Non sapevo sciare, né usare le racchette da neve, né camminare sul ghiaccio. Non avevo vestiti caldi, né cappello o guanti. I montanari locali sembravano spavaldi e intimidatori. Pensai di tornare a casa, ma non lo feci.
Cercando un ingresso in questo paesaggio alieno, mi unii ad alcuni amici della scuola d’arte per scalare il Mount Temple a Lake Louise. Come me, erano estranei alle montagne ma anche loro volevano trovarsi un loro posto lì. Uno degli uomini ci disse che sapeva cosa stava facendo e noi gli credemmo.
Mentre percorrevamo la strada ripida e tortuosa che portava al lago, intravidi nella foschia un monolite scuro che sovrastava la valle. Ricordo poco della scalata vera e propria, se non un senso congenito di terrore, l’aria sempre più fredda, le nuvole plumbee che incalzavano. In prossimità della vetta, mi ero aggrappata a una cengia con le mani congelate e i miei scarponi pattinavano sulla roccia priva di attrito. Improvvisamente capii che i miei compagni non potevano darmi sicurezza. Non ricordo i loro nomi o i loro volti, né ricordo il viaggio di ritorno a Banff. Sembrava tutto vago e onirico, eppure quel giorno ho imparato alcune lezioni che mi sono rimaste impresse: che è meglio conoscere e fidarsi delle persone con cui si sta, che la vita è precaria e preziosa.
E, certamente, che potrei morire.
Amici e sconosciuti sono caduti dalle cime, sono stati travolti da valanghe o hanno perso i piedi durante le scalate su ghiaccio. Bubba Don Ruddick, un eccentrico outsider con cui avevo fatto amicizia alla scuola d’arte, fu travolto da una valanga nel canalone tra il Mount Bowlen e il Tonsa Peak al Moraine Lake. Alcuni pensavano che fosse stato solo sfortunato, altri che avesse un desiderio di morte. Poco tempo dopo, Andy Shepherd è caduto fatalmente sul Mount Stephen.
Un paio di giorni prima della sua morte, Andy era passato dalla mia baita. Mi disse che non vedeva l’ora di scalare e mi propose di accompagnarmi un giorno. Quando se ne andò, gli riempii le tasche di biscotti fatti in casa e sono quasi certo di avergli augurato buona fortuna per la sua avventura. So che lo guardai tornare alla macchina, con la luce del tardo pomeriggio che brillava sui suoi capelli chiari e sulle sue spalle larghe, e pensai a quanto fosse bello e coraggioso. Ai miei occhi, Andy era un guerriero dei regni divini, con una sicurezza che mi sembrava sovranaturale. Nei miei sogni più sfrenati non avrei potuto immaginare di seguirlo.
Poi se ne andò per sempre, insieme a Don. Li piansi entrambi, Don il forestiero e Andy il guerriero. Alle montagne non importava.
Ho cercato di dare un senso a queste morti, al mistero, al desiderio di salire in alto e di mettere da parte la paura. Rimanendo sveglia fino a tarda notte, consumavo letteratura di montagna, come Annapurna, di Maurice Herzog, ed Everest the Hard Way, di Chris Bonington, quest’ultimo promosso come “l’emozionante resoconto di una classica battaglia dell’uomo contro la natura!”. La parola Everest si stagliava a caratteri cubitali color del sangue. Prendevo in prestito i libri dalla biblioteca o li acquistavo al Book & Art Den, dove per un certo periodo ha lavorato il poeta/storico iconoclasta Jon Whyte. Jon aveva fatto amicizia con me poco dopo il mio arrivo in città e aveva deciso che avevo un gran bisogno di un’educazione alla montagna. Ogni volta che entravo nel negozio mi spingeva davanti al bancone alcuni libri, storie eroiche di montagna con protagonisti alpinisti morti o scampati per miracolo alla vita. Tutti uomini. Herzog, Bonington, Shipton e Buhl erano appollaiati a disagio sui miei scaffali, accanto a poeti donna – Colette, Atwood e Plath – e a mistici come Basho, Snyder e Cohen.
Attraverso queste epiche storie di alpinismo, la scalata è diventata nella mia mente sinonimo di dramma e tragedia. Man mano che mi avventuravo in montagna e che le persone che conoscevo continuavano a morire in montagna, l’idea della morte abitava la mia psiche. Non volevo morire. Iniziai a pensare, per la prima volta, a come evitare il pericolo, a come rimanere viva e, soprattutto, a come sentirmi viva. Potevo andare sul sicuro e provare comunque gioia? Fino a che punto volevo spingermi in questo mondo così duro?
Ho trovato rifugio in una coppia di baitelli. Li riempii di libri, di un tavolino per disegnare e scrivere, di una o due poltrone prese dal negozio dell’usato locale e di un letto singolo nascosto in un angolo. Il mio oggetto più prezioso era un poster del primo Banff Mountain Film Festival del 1976. Pubblicizzava la conferenza e la proiezione di diapositive a cui avevo assistito, tenuta da Noel Odell dell’Università di Cambridge, su una spedizione britannica all’Everest. Mentre George Mallory e Sandy Irvine salivano verso la vetta, erano scomparsi nella nebbia; Odell era stato l’ultima persona a vederli vivi. Parlava con fervore, come se l’incidente fosse avvenuto di recente e non nel 1924. Le parole di Odell, insieme al suo portamento da intellettuale con giacca di tweed, mi convinsero che morire inseguendo i propri sogni poteva essere un destino poetico, per quanto tragico. Nel mio diario scrissi che stavo cercando uno stato di grazia tra le vette delle montagne. Mi piaceva la sensazione che davano le parole quando le scarabocchiavo sulla pagina. In realtà, ero più attratta dal lirismo della vita di montagna che dalla ricerca di cime, per quanto ammirevoli potessero sembrare.
Tuttavia, ho scalato, portando con me i miei ideali vaghi e romantici. La vita era bella, ma quando si stabilizzò in una routine per diversi anni, divenni irrequieta; desideravo avventure nel mondo esterno prima di stabilirmi in quella che pensavo sarebbe stata una vita nella mia piccola città di montagna di sempre. Quasi per caso ho fatto domanda e mi è stato offerto un lavoro come fotografa di scavi archeologici in Giordania. Ho fatto le valigie, sono volata ad Amman e ho finito per lavorare in scavi sia britannici che americani nella zona. A Londra, per mantenermi tra un lavoro di scavo e l’altro, ho trovato un lavoro come commessa presso lo Youth Hostel Adventure Centre. Camminavo, fotografavo, vendevo sci. Ho parlato di cocci di vasi e di zaini, di tombe nascoste e di attacchi da sci. Ho imparato un po’ di arabo e il dialetto dei marchi North Face e Berghaus.
Assorbita dalla città e dal deserto, non scalavo né pensavo di scalare.
Dopo due anni tornai a casa, stanca della vita nomade e attratta proprio da quelle cose – stabilità e sicurezza – da cui avevo cercato di fuggire quando, anni prima, avevo lasciato la costa per la montagna. Poco era cambiato. Ora vedevo che le montagne potevano legarmi a un luogo e fornirmi una disciplina, un mezzo per abitare veramente la mia vita. Trovai un’altra piccola baita e ripresi a studiare la pietra e la neve, il ghiaccio e l’acqua in movimento. Rinnovai le amicizie con coloro che vedevano la vita attraverso la mia stessa lente. Vivere all’aria aperta, fare arte, inseguire l’amore: tutto questo era offerto in quello che sembrava un mondo sconfinato.
I miei bisogni erano pochi, ma volevo tutto.
Un lavoro di fotografa al campo di alpinismo locale per giovani cadetti dell’esercito mi ha riportato a scalare e a fare viaggi di più giorni. Portando tutta l’attrezzatura da campeggio in uno zaino pesante, insieme a macchine fotografiche, treppiedi e cibo, ero totalmente autosufficiente e più forte che mai. Eppure, spesso avevo paura. Non mancavo mai di guardare una parete rocciosa o una vetta e di immaginarmi mentre cadevo dalla cima, spiaccicandomi sul fondo. Non si trattava di una paura infondata: le perdite di vite umane nel mio mondo montano erano continuate inesorabilmente nel corso degli anni. Annotavo ogni morte nel mio diario, assieme alle note sulle scalate che mi facevano dubitare di ciò che stavo facendo.
Nel maggio 1987, Dan Guthrie e Ian Bult, di ventisette e ventiquattro anni, furono travolti da una valanga sul Mount Foraker durante il loro primo viaggio in Alaska. I loro amici si riunirono per trascorrere lunghe notti nell’appartamento che Dan condivideva con la sua ragazza, la mia amica Jan Redford (all’epoca Hodgkinson), in attesa di notizie sulla morte sua e di Ian o sulla loro miracolosa sopravvivenza. Il piccolo e buio soggiorno era affollato e l’atmosfera era viscerale: il basso brusio della conversazione, il pianto silenzioso, il ronzio del frigorifero pieno di birra, il terrore, le piccole esplosioni di speranza quando squillava il telefono. L’insopportabile tensione dell’attesa non cessò fino alla cerimonia funebre di Dan, la prova inconfutabile della sua morte scritta sul volto dei suoi genitori. Fino a quel momento avevo in qualche modo creduto che lui e Ian avrebbero varcato la porta di casa di Dan un pomeriggio, ridendo della loro selvaggia avventura e scusandosi per averci spaventato tutti.
Estate 1987. Niccy Code e io lavoravamo insieme al campo per cadetti e legavamo per il nostro umorismo nero e per le nostre esperienze comuni nel trattare con adolescenti in preda agli ormoni. Una foto di Niccy e me, scattata da Jan, ci ritrae in cima al St. Nicholas Peak, dopo aver salito la parete innevata con i cadetti. Siamo bruciate dal sole e sorridenti, con le piccozze sollevate sopra la testa. Niccy era stata esuberante durante la salita, danzando con disinvoltura sul pendio ripido e facendo commenti da saputella per farmi ridere, mentre io arrancavo stoicamente dietro. Un paio di cadetti avevano scherzato sull’idea di gettarsi dalla montagna durante la salita, non prendendo la scalata così seriamente come pensavo avrebbero dovuto. Ero euforica di sollievo quando arrivammo sani e salvi in cima, prima di danzare su una cresta a lama e scendere lungo i fianchi del Mount Olive.
Il viso elfico di Niccy e il suo atteggiamento disinvolto nascondevano una disciplina e una grinta che ammiravo ma che non riuscivo a emulare. Né riuscivo a capire la sua spavalderia e le sue risate di fronte a situazioni che consideravo terrificanti.
Sarebbe morta nel 1991, cadendo da una parete rocciosa mentre istruiva gli studenti di arrampicata nello stato di Washington. Il nostro amico Dave mi chiamò a tarda notte per darmi la notizia dell’incidente di Niccy, con la voce incrinata dalla fatica e dal dolore; in seguito chiamò Jan. Erano passati quattro anni dalla morte di Dan. In occasione della commemorazione di Niccy, ci riunivamo al rifugio dell’YMCA nella Bow Valley. Le braccia muscolose e i polpacci ingombranti delle donne spuntavano dai vestiti tirati fuori frettolosamente dal retro degli armadi, mentre i polsi degli uomini pendevano dalle maniche delle loro giacche da mercatino dell’usato. Le gambe dei pantaloni sventolavano sopra caviglie marroni e magre. Con i nostri Ray-Ban sembravamo una riunione della mafia locale, se si ignoravano le infradito. La giornata era calda e il cielo era insopportabilmente blu, senza una nuvola. Si prendeva gioco del nostro dolore: un’altra di quelle giornate stellari in montagna in cui sembrava che tutto sarebbe andato bene.
Per dare un senso a tutto questo, continuai a scrivere, tagliando i viticci del dubbio nascente, infilando foto a caso in fondo al mio taccuino: lo scatto di Jan di Dan e Ian poco prima che partissero per l’Alaska, consegnato alla commemorazione di Dan. Una foto dello staff del campo cadetti scattata a una festa in giardino nella mia casa di Beaver Street. C’erano i morti e i futuri morti, Niccy, Steve Devine, Jim Haberl e Steve Horton, che sorridevano all’obiettivo e brillavano di vita. Davanti c’era Jan inginocchiato. Dan era morto solo un paio di mesi prima e lei sembrava un fantasma.
Dopo la morte di Dan e di Ian continuammo ad arrampicare e, mentre il mio disincanto e la mia reticenza aumentavano, riuscii a vedere sotto alla superficie scintillante delle salite. C’erano altre attrattive: l’intensità delle amicizie, le coppie amorose nate da quell’intensità, le spettacolari separazioni, i drammi che si svolgevano tanto lontano dalle vette quanto su di esse. E a un livello più profondo, l’arrampicata era un modo per radicarsi nella possibilità del pericolo. Sembrava un modo per invecchiare presto, danzando con la morte, l’oscurità e il dolore che ci aspettava. Si poteva creare una sorta di significato lavorando attraverso di esso, forgiando un percorso verso una sorta di saggezza, in quello che Francis Weller chiama un “apprendistato del dolore”.
Sesso e morte infusi con la natura selvaggia: un potente elisir se non si aveva paura e si rimaneva fedeli. Se si vive abbastanza a lungo.
Non ero sola nelle mie cupe fantasie. Dai miei libri sul Tibet e sulla spiritualità orientale avevo appreso che per gli abitanti dell’Himalaya le alte vette sono allo stesso tempo temute e venerate. Sono il dominio dei lupi e delle valanghe, dei venti gelidi e della caduta di massi, delle dee benevole e delle divinità colleriche, e non devono essere violate dagli esseri umani. Gli altari per le offerte e le preghiere si trovano alla base delle montagne e sui passi, non sulle cime.
Pregare è simile all’atto di prestare attenzione, scriveva Simone Weil. Anche l’arrampicata è un atto di intensa consapevolezza, e ora mi sembra che questa danza numinosa, l’aspetto spirituale dell’arrampicata, mi abbia preso per il cuore e mi abbia tenuto riluttante prigioniera. Si conficca la piccozza nel ghiaccio e ci si collega all’elettricità della terra, si raggiunge l’assoluto, si accede a ciò che sta sotto la superficie della propria vita. Il movimento del corpo e la pura intenzione di salire diventano una ragione di vita, una sorta di portale verso una conoscenza più profonda che resiste alle parole o alle spiegazioni. Come la poesia.
Una ragione di vita, ma il tema principale è la morte, o la sua possibilità.
Questa possibilità, questa paura, ha intaccato il mio desiderio. Le scalate, sempre più sporadiche, sono diventate elaborati rituali per lasciarsi andare. Non lo dissi a nessuno, non offrivo alcuna spiegazione. Dopo tutto, come si fa a capire e a spiegare la dissoluzione del desiderio? O ricordare il punto esatto in cui la tua vita prende un’altra direzione? Ho riletto i miei eroici libri di montagna e ho riflettuto sulla devozione e sulla passione di questi scalatori. Io non la sentivo. La mia devozione era più dolce, fondata sulla grazia che pervadeva le valli e le foreste, e sui sentieri alpini che si fermano molto lontano dalle vette.
Aspettavo che un amico mi dicesse che avrei dovuto smettere. E invece me lo hanno detto le montagne.
Con la faccia appoggiata al ghiaccio, mi costringo a respirare. So cosa succederebbe se perdessi la posizione. Cadrei a razzo dal ghiaccio e rimbalzerei nel campo di massi sottostante per unirmi ai fantasmi di tanti altri, le vittime dei “numerosi sfortunati incidenti” di cui parla la guida. Non avrei scampo.
“Io me ne vado da qui!” grido quando ritrovo la voce. Mary mi chiama, ma le sue parole vengono spazzate via dal vento. Spingendomi oltre il terrore, mi concentro sul ghiaccio, sul movimento delle mani e dei piedi e su nient’altro. Comincio a muovermi verso la zona rocciosa a lato della cascata di ghiaccio. Non oso guardare in alto, ma so che Mary sta facendo lo stesso sopra di me. Sento le piccozze risuonare sul ghiaccio e le sue grida. Respirando profondamente, mi sposto di lato, poi mi blocco. Mi muovo, poi mi blocco, premuta sul ghiaccio. Un’eternità, fino a raggiungere il terreno solido dove Mary mi aspetta. Quando passo sulla roccia, lei mi afferra la giacca e le mie gambe si piegano sotto di me. Mary mi aiuta a togliere i ramponi, poi mi risolleva delicatamente in piedi.
Scendiamo lentamente verso il parcheggio in silenzio. Mentre carichiamo la nostra attrezzatura nella vecchia auto di Mary, lei mi dice che è certa che avremmo potuto salire molto più in alto. Posso leggere la delusione sul suo volto, ma mi assicura che la prossima volta sarà più facile. Porteremo una corda. Gli occhi di Mary brillano e noto il suo rossetto rosso, ancora perfettamente a posto. Osservo la sua bocca muoversi mentre continua a chiacchierare, afferrandomi le braccia – le sue parole si affievoliscono e il ruggito nelle mie orecchie annega tutto. La guardo e mi viene in mente che potrebbe essere pazza.
Mary mi lascia e io entro in casa, accasciandomi sul divano. Piango per essermi lasciata condurre così vicino al limite, e anche per Mary. Mi tolgo il rossetto dalla guancia, un distintivo d’onore che mi aveva conferito mentre ci separavamo. Per non essere morta, credo.
Nella foschia di fine estate, Jan e io guidiamo verso il Rogers Pass. Abbiamo calcolato male la distanza da Banff e iniziamo l’escursione fino a Hermit Meadows al tramonto. Jan è in lutto per Dan e anch’io sono oppressa dalla perdita. Il sentiero ripido, stretto e pieno di radici, è una medicina. Saliamo attraverso la foresta che si stringe, racchiusa nel nero, emergiamo dagli alberi e saliamo sotto una vasta cupola di cielo indaco. Esauste, non riuscendo a trovare il campo, tiriamo fuori i sacchipiuma dagli zaini e ci stendiamo a terra sulla schiena. E’ il silenzio puro ad avvolgerci.
Notte sacra, piena di stelle. Siamo sdraiati sotto le cime, in braccio alla terra. Mi volto per parlare con Jan, ma lei dorme, il suo viso pallido rivolto al cielo, spettrale al chiaro di luna, ancora segnato dalla morte di Dan. Si alza un vento leggero, l’erba ronza e gli alberi ondeggiano e scricchiolano. Siamo strettamente avvolte nei nostri bozzoli di nylon, immobili, come crisalidi in attesa di nascere A casa qualche giorno dopo, nel silenzio polveroso del seminterrato, sistemo la mia attrezzatura da arrampicata. Appendo le piccozze e l’imbragatura ai chiodi, insieme a scarpette da ballo, una racchetta da tennis di legno, un giubbotto di salvataggio logoro e una serie di bandiere di preghiera tibetane sbiadite. Il resto lo regalo.
Penso ancora molto alla morte. Non la morte improvvisa che arriva quando si cade da una grande altezza o si scivola su un nastro di ghiaccio. Non la morte furtiva che arriva sotto un cielo di uccellini blu quando sembra che nulla possa andare storto. La morte ordinaria. Quella che arriva più tardi, dolcemente, e ti separa da tutto ciò che ami. Quella che ti rende felice di ciò che hai fatto nella vita, delle occasioni che hai colto, delle cose da cui ti sei allontanato. Il modo in cui hai divorato tutto.
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Volevo scrivere “Lumino fumigante” di vita.
Quando mi sono fidanzato ho continuato a frequentare la montagna ma ho smesso di scalare. Più di una volta ho corso il rischio di morire, anche perché volevo progredire, mantenendomi comunque prudente. Salivo sulle pareti per amore della vita, cercando però di tenermela stretta. Così, sceso di lassù, per amore della vita mi sono confrontato con un’altra persona e ho conosciuto meglio me stesso, più di quanto non fosse avvenuto prima sui monti. Poi, con questa persona divenuta mia moglie, ho svolto un servizio al Bambino Gesù, in un reparto di malattie rare. Di fronte a certe situazioni particolarmente tristi, quando potevo pensavo alle mie montagne, mi mancavano. Se fossi stato un alpinista che sfidava la morte, appesa la corda a un chiodo, o forse no, perché magari non l’avrei usata per un gusto più intenso di sfida, mi sarei posto di fronte alla morte frequente di quei piccoli bambini, sostituendo il desiderio di sentire l’oscura signora con la falce accanto a me, con la lotta dei quei frufoletti per percepire, almeno solo percepire, dentro di sé la vita, un baluginare di vita, un lumino fulminante di vita. Personalmente sono con Corinna.
@ Bertoncelli
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“Stare sul filo è vivere. Tutto il resto è aspettare”.
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Una frase bellissima, che ho sentito coniugare su diverse attività, e che resta splendida.
Non sapevo fosse di un famoso equilibrista.
le sentenze , in un senso o nell’altro, fanno ridere.
E proprio vero Corinna, però occorre anche ammettere che un po’ della visione della vita e dell’andare in montagna di Karen c’è in ognuno di noi.
E forse è proprio questo che risuona e mi fa apprezzare questo brano.
e chi te lo fa pensare che chi sfida la morte non lo faccia per il piacere di farlo?
Disse Karl Wallenda, capostipite di una celebre famiglia di equilibristi:
“Stare sul filo è vivere. Tutto il resto è aspettare”.
Morì il 22 marzo 1978, precipitando durante un’esibizione. Aveva settantatré anni (!).
Lettura interessante, nonostante gli errori di traduzione. È un modo di vedere e vivere la montagna (la vita), che non mi appartiene: un’esigenza di lirismo ed épos, tanto apprezzati da moltissimi alpinisti e dai loro lettori, che purtroppo non mi affascina. Sentirsi parte di un’ardua ed eroica impresa, arrivare al limite, sfidare la morte, ecc. mi sembrano, da un lato, un’inutile ovvietà, ché anche quando attraversi la strada è così; dall’altro, c’è una volontà di giocare all’Übermensch (qui Super Frau) alla ricerca di prove della propria superiorità, che non mi ha mai convinta. Per me si sale su per il piacere di farlo, per stare bene nella natura, per allontanarsi dalla folla, per la bellezza degli scorci, perché non si sa scendere giù e nuotare. Tutto molto meno epico e struggente di quanto descrive madame McDiarmid, me ne rendo conto.
Ben scritto.
Molti pseudo letterati che esibiscono narrazioni imbarazzanti dovrebbero prendere esempio.
Anche se nasce da motivazioni, sensazioni ed emozioni completamente differenti da quelle che hanno portato me in montagna questo scritto min ha ammaliato per la linearità, la semplicità e la sua spietata onestà.
Expo,davvero!I motivi che spingono l ” uomo” verso la montagna e la sue tante esplorazioni possono essere vari, l elenco è lunghissimo e sono sicuro che o/metterei per sbaglio anche motivi storti. Ma sono tutti materiali e fisici ,legati a punti cruciali della propria esistenza…ma non sono sicure e proprio ben piantate queste soste!..?Questi motivi?Ci sono ragioni che sfuggono e che non vediamo con i nostri occhi.
L’aver accanto percettibile la nera compagna e stringergli la mano e scendere a patti con l abisso sconosciuto fa paura a tutti , un po meno sui 20anni . Vi sono motivi metafisici e trascendentali e che sfuggono, percorriamo il tracciato pensando di vedere e scegliere ma siamo bendati!Rischio,paura,farcela,portare la pelle a casa hanno un sapore sublinguale legato al caso e la fortuna ,al caos e il destino. Una specie di Squid Game al quale partecipiamo ignari.
C è chi vorrebbe chiudere il terreno di gioco quando questo è impraticabile ma sappiamo che farlo è ben lontano dalla realtà e lontano dal voler capire chi va in montagna mentre magari gli vive accanto.
Solo un semplice pensiero pomeridiano , ciao.
Affascinante.
Non sono un grande lettore , ma questo continuo intrecciarsi di vita intensa e sopra le righe, e morte mi ricorda la prosa di Kerouach letto tanti anni fa’al liceo.