Catarsi

Catarsi
(dopo 28 spedizioni in Alaska: il viaggio di una vita)
di Jack Tackle
(pubblicato su The American Alpine Journal 2010)

C’è una rara sensazione di completezza e di calma che può venire solo dopo una visione, lo sforzo concertato e la fatica, il sacrificio. Quando il Beaver è decollato dalla Kahiltna e io e Jay ci siamo diretti verso Talkeetna e verso casa, mi sentivo più in pace di quanto possa mai ricordare di essermi sentito. I precedenti 18 giorni nell’Alaska Range avevano spazzato alcuni dubbi e demoni persistenti; ora tutto quello che dovevo fare era respirare.

Questo viaggio è culminato in un’odissea di recupero da due importanti problemi di salute, il primo nel 2001 e un altro l’anno successivo. Contrarre e sopravvivere a una rara malattia autoimmune chiamata sindrome di Guillain-Barré è stato di gran lunga l’evento medico più grave della mia vita. Tutto il resto è stato una puntura di zanzara. Potrei scrivere un libro a riguardo, e molte persone mi dicono che dovrei, ma riesco a malapena a pagare le tasse in tempo. Rimettersi da una paralisi quasi completa, imparare a camminare di nuovo e riqualificare la mia memoria muscolare erano solo parti del processo. Basti dire che molti amici e familiari, assieme alla mia amorevole moglie Pat, mi hanno aiutato in questo, e a loro sarò per sempre debitore.

Diciotto mesi dopo averla fatta finita con la Guillain-Barré, un primo tentativo di risalire in sella è andato male. Ho iniziato una parete inviolata sul Mount Augusta con Charlie Sassara, e a 600 metri da terra sono stato colpito da una roccia che cadeva che mi ha rotto collo e schiena. Gli uomini del PJS (i parajumper) e i miei amici si sono fatti in quattro per tirarmi via da lì, ancora una volta capitoli di un libro non ancora scritto. Ma sono sopravvissuto a tutto e ora, finalmente, ero di nuovo nell’Alaska Range con Jay Smith: chi potrebbe chiedere di più?

Jay Smith guida il tiro chiave di ghiaccio della Perla Nera (The Black Pearl). Foto: Jack Tackle.

Il 7 maggio 2009, Jay ed io siamo volati in un piccolo circo sotto la vetta sud del Mount Huntington, grazie alle abilità di Paul Roderick e al suo fantastico aeroplano Otter. Nessuno era mai atterrato in questo circo, un braccio sospeso sopra il ghiacciaio Tokositna superiore che ho chiamato “My Private Idaho”. Il nostro obiettivo era una nuova via sulla vetta principale dell’Huntington, ma dopo una giornata di ricognizione della linea, sapevamo che non ce l’avremmo fatta: troppa arrampicata su parete, troppo lenta. Abbattuti, ci siamo chiesti cosa fare dopo. Jay ha suggerito il Rooster Comb: “Ehi, siamo qui, almeno scaliamo qualcosa”.

Il 9 maggio abbiamo lasciato una tenda sotto il lato est dell’Huntington, siamo saliti al colle tra l’Huntington e il Rooster Comb, e abbiamo continuato su quella che è probabilmente la via del 1978 dalla West Fork del Ruth. Abbiamo raggiunto la vetta in 7 ore e mezza, forse la quinta salita della vetta, e siamo tornati alla tenda nove ore dopo. Il giorno dopo, mentre tornavamo faticosamente al campo base, Jay si guardò intorno nel nostro Private Idaho. Jay ha più vie nuove al suo attivo di chiunque altro io conosca, e ora indicava potenziali vie ovunque. Per esperienza passata, sapevamo entrambi che il granito dell’Huntington è buono come quello dell’Alaska Range. Le linee sembravano degne e il bel tempo era spaccato.

Abbiamo passato la settimana successiva a fare tre nuove vie proprio sopra il nostro campo base. La prima è stata Prizefight sul lato sud della cima meridionale dell’Huntington 3139 m. Il 13 maggio abbiamo aperto un’evidente rampa inclinata a sinistra attraverso la parete rocciosa che costituisce la metà inferiore della via. Siamo saliti con turni da capocordata di tre lunghezze ciascuno su un terreno moderato immensamente piacevole, con brevi passaggi chiave impegnativi di arrampicata mista. Jay ha tirato fuori le sue scarpe da roccia (l’unico paio che avevamo portato) per la sezione chiave di roccia pura (5.9R), due tiri che andavano su direttamente dall’estremità della rampa, il primo dei quali era come il granito della City of Rocks. Al di sopra di questo c’era per lo più neve, con occasionali gradini di roccia o brevi tratti di terreno misto. Diciannove ore dopo aver lasciato la tenda, al buio, ho ricavato una buca nella neve per un breve bivacco senza sacchi piuma. Dopo tre ore di “sonno”, siamo emersi dal nostro bozzolo per risalire attraverso la neve scarsa fino a poco sotto la cima della Cima Sud; gli ultimi 20 metri erano troppo marci per salire in sicurezza. Abbiamo fatto 17 o 18 calate lungo una linea diversa da quella che avevamo salito, e 39 ore dopo la partenza eravamo di nuovo alla tenda.

The Scottish Wall, a sud della Cima Sud del Mount Huntington: (1) Lagavulin (5 tiri) e (2) Black Pearl (8 tiri). Foto: Jack Tackle.

Il giorno dopo nevicò, l’unico giorno nevoso del viaggio, ma non aveva importanza. Eravamo stanchi e abbiamo solo dormito, preparato margarita e poi ancora riposato: tempismo perfetto, per una volta.

A volte le cose si allineano, anche se per lo più non è così. Il mio coefficiente di successo fa schifo in generale, e specialmente in Alaska. Ma quando ci siamo ripresi abbiamo guardato di nuovo intorno alla nostra solitaria arena alpina e abbiamo visto più vie che dovevamo assolutamente scalare. A sud di Prizefight c’era un muro con camini paralleli unici formati da intrusive vene di diorite. L’abbiamo chiamata la Scottish Wall (il muro scozzese): era forse a 20 minuti dalla tenda (questo ha compensato il mio avvicinamento di 75 miglia al Mount Kennedy nello Yukon nel 1978).

Lagavulin, la nostra prima via sulla Scottish Wall, è iniziata con una netta fessura di 5.10 che ho salito in dry tooling, e il resto della via ha seguito un’evidente debolezza, con 5 lunghezze di WI4+ delicate ma proteggibili. Appena a destra c’era una linea più lunga e più dura che abbiamo soprannominato The Black Pearl (la Perla Nera). Chiaramente Jay aveva visto I Pirati dei Caraibi con il figliastro Grady più di una volta. The Black Pearl iniziava con arrampicata mista M5; poi presentava uno dei migliori tiri di WI5+ che abbia mai visto, che Jay ha tirato con una lunghezza di 70 metri; e il colpo di coda era un tiro di M6 mal protetto che ho faticato a salire mentre cercavo di proteggermi per tutto il tempo. Per questa linea di otto lunghezze abbiamo impiegato 14 ore, salita e discesa.

Nell’Alaska Range ci erano riuscite quattro salite (tre delle quali nuove vie) in meno di due settimane, con un vecchio amico, chi poteva chiedere di più? Bene, l’abbiamo fatto…

Quando Paul ci ha portato via dal My Private Idaho, si è fermato al campo base Kahiltna per raccogliere altri alpinisti, e gli ho chiesto casualmente di sorvolare la parete nord della Thunder Mountain 3328 m sulla via per Talkeetna. Avevo spiato una potenziale via sulla Thunder nel 1996, quando Doug Chabot ed io avevamo aperto una nuova via sulla parete sud della Cima Sud dell’Hunter (The Sound of Freedom), proprio di fronte alla Thunder. Da allora era sulla lista. Sapevo di un paio di tentativi di scalatori molto bravi, ma probabilmente il ghiaccio e la neve non favorevoli avevano impedito il successo. Si tratta di tempismo. Ora, 13 anni dopo, Jay e io l’abbiamo fotografata mentre volavamo: e ancora prima di atterrare a Talkeetna, avevamo già deciso di tentare. Avremmo potuto tornare a casa contenti, ma quante volte le cose si allineano così bene?

La linea di Tangled Up in Blue (1300 m, VI-AI6 M7) sulla parete nord della Thunder Mountain. Foto: Jack Tackle.

Dopo tre giorni di riposo, riordino materiale, nuove corde e birra alla spina, eravamo pronti per tornare indietro. Siamo atterrati su un braccio del Kahiltna sotto la parete. Era, proprio quel giorno, il decimo anniversario dell’epopea con gli amici Jim Donini e Malcolm Daly sulla parete sud della Thunder. L’imponente parete nord di 1300 metri aveva una linea evidente. Però erano anche evidenti i ghiacciai sospesi e gli enormi seracchi subito a sinistra… Uno studio attento e due settimane in zona ci hanno reso fiduciosi di poter salire velocemente e in sicurezza fino a un punto in cui il pericolo oggettivo non era più un problema. Dopo alcune ore di esame con il binocolo e discussioni strategiche, abbiamo preparato sacchipiuma da 1 kg, una tanica di carburante e un giorno e mezzo di cibo. Avevamo anche visto un piccolo crepaccio a più di metà parete che poteva ospitare un nostro bivacco.

I nostri zaini pesavano 8,5 kg quando abbiamo attraversato la crepaccia terminale alle 5 del mattino e scalato in simultanea i primi 300 metri. Poi Jay ha incominciato la sua serie di tre lunghezze e l’arrampicata era più ripida del previsto. In effetti, ha dovuto lasciare il suo zaino alla corda di servizio per recuperarlo mentre io salivo a jumar, perché l’arrampicata era, come l’ha descritta Jay, “più difficile di qualsiasi tiro che abbia mai salito in montagna”. E questo la dice lunga. La protezione era difficile da trovare; c’erano tratti leggermente strapiombanti dove avresti giurato che non ci fossero; ed era per lo più neve compatta su ghiaccio sottile, non solo “pianta l’attrezzo e vai”. Ogni tiro di 70 metri richiedeva a Jay da una a due ore.

Al di sopra di questo tratto la pendenza mollò un poco, ma il ghiaccio cementato era implacabile. Abbiamo fatto altri cinque tiri di 70 metri per raggiungere la crepaccia del bivacco all’una di notte, circa 20 ore dopo la partenza. Felici di aver individuato questo bivacco dal basso, l’abbiamo sistemato lavorando con la neve per farlo più comodo, poi preparato cena e mangiato. Ci siamo addormentati quando cominciava a nevicare. Sette ore dopo nevicava ancora abbastanza leggermente da convincerci a fare una colazione più lunga del previsto, prima di lanciarci di nuovo.

(A) Kahiltna Queen 3773 m. (B) Cima di The Scottish Wall. (C) Cima Sud del Mount Huntington 3139 m, con la linea di Prizefight (Smith-Tackle, 2009). (D) Mount Huntington 3730 m. (E) Denali (Mount McKinley) 6194.
(F) “My Private Idaho”, il circo sospeso dove il pilota Paul Roderick è atterrato per la prima volta in assoluto per lasciare Jay Smith e Jack Tackle. Il Rooster Comb non è visibile a destra. Foto: Jack Tackle.

A mezzogiorno ho lasciato la comodità del crepaccio e mi sono diretto verso la parete superiore. Fino a quel momento, non era stato chiaro se la linea si sarebbe collegata facilmente alla cima, a causa di minacciosi seracchi su entrambi i lati. Ma, ancora una volta, la via si è rivelata sicura, con bel ghiaccio e terreno misto. Jay ha fatto un’altra bella lunghezza di misto intorno al 13° tiro, ma questa era riuscito a proteggerla bene perché la roccia era migliore (generalmente la roccia migliorava man mano che salivamo). Verso la fine dei nove tiri di giornata, abbiamo potuto indovinare un punto debole nelle ultime barriere. L’ultimo tiro all’improvviso è diventato pianeggiante e abbiamo lasciato il mondo verticale in cui avevamo vissuto negli ultimi due giorni.

Vicino alla cima ho trovato un altro crepaccio e ci siamo strisciati dentro per sfuggire al vento. Jay dormì per due ore, ma io mi limitai a sonnecchiare, credendo di aver bisogno di mangiare e reidratarmi più del necessario per dormire. Inizialmente avevamo programmato di calarci per una linea parallela lungo il ghiacciaio dalla nostra via, ma ora non ne eravamo così sicuri. Abbiamo anche pensato che sarebbe stato possibile scalare in discesa su altro terreno sconosciuto e raggiungere così il Kahiltna dal lato ovest. Dopo qualche riflessione, abbiamo deciso di percorrere la discesa più lunga ma meno tecnica. Col senno di poi, avrei potuto dire a me stesso, come amo dire agli altri: “Come ci si sente ad avere torto?”.

Durante il nostro viaggio di ritorno alla base abbiamo sperimentato alcune delle nevi più terribili che noi due avessimo mai visto. Siamo finiti lungo il corso del Kahiltna principale e abbiamo dovuto arrancare in salita per miglia per raggiungere la nostra tenda. In totale è stata una discesa di otto miglia. A volte sprofondavamo nella neve soffice, solo gli zaini c’impedivano di andare ancora più giù… Eravamo senza cibo, carburante e acqua, quindi non c’era alcun vantaggio reale nel fermarci: perciò abbiamo continuato a lottare. Ad un certo punto, per la prima volta nella mia vita, non ero sicuro di poter farcela. È stato davvero brutto. Solo la bottiglia di tequila nella tenda ci impediva di fermarci. Lei e il fatto che fermarsi non avrebbe risolto il problema. Sessantasette ore dopo aver lasciato la tenda, siamo arrivati: esausti, assetati, affamati, quasi deliranti. Mai un arrivo mi aveva fatto sentire meglio…

Jay e io eravamo d’accordo sul fatto che se fossimo appena scesi dall’aereo il 7 maggio e avessimo provato la Thunder, le cose probabilmente non sarebbero andate altrettanto bene, o per niente. Questa salita non è stata solo il momento clou del viaggio, ma anche, per molti versi, il culmine degli anni di alpinismo assieme. A volte ci vuole un po’ per riscaldarsi. Di recente ho letto il libro Outliers di Malcolm Gladwell, e una delle premesse principali è che non importa chi sei, o quante opportunità e talento naturale hai, ci vogliono 10.000 ore di azione su ciò che ti appassiona per essere il migliore, o almeno, come dice Garrison Keillor, “sopra la media”. La nostra esperienza collettiva in montagna ha dato i suoi frutti.

Jay Smith (a sinistra) e Jack Tackle sulla cima della Thunder Mountain. Foto: Jay Smith.

Si parla così tanto di partnership che sono diventate una sorta di cliché nelle storie di arrampicata. Ma, per me, uno dei valori duraturi di questo tipo di arrampicata è condividere un’esperienza unica con un’altra persona di cui ti fidi ciecamente – e lui di te – e non deludere mai l’altro. Impegno, visione e fiducia sono sempre stati il ​​mio mantra nell’alpinismo. E il bello è che quando tutto si allinea e una salita va alla perfezione, niente potrà mai portartelo via. E qui sta l’essenza della vita: la perfezione in un mondo imperfetto.

Sommario
Area: Alaska Range
Ascensioni: salita del Rooster Comb attraverso il colle Huntington-Rooster Comb e la cresta ovest (9 maggio 2009). Prima salita di Prizefight (650 m, 5.9R M6 AI5) sulla Cima Sud 3139 m del Mt. Huntington, 13-14 maggio 2009. Prima salita di Lagavulin (750 m, 5.10 WI4+/5, 17 maggio 2009) e della Black Pearl (500 m, WI5+/6 M6, 18 maggio), entrambe sulla “Scottish Wall”, una falesia esposta a est, a sud dell’Huntington. Prima salita della parete nord della Thunder Mountain, via Tangled up in Blue (1300 m, VI-AI6 M7, 23–25 maggio 2009; 67 ore andata e ritorno, con un bivacco e una breve sosta lungo il percorso). Tutte le salite di Jay Smith e Jack Tackle.

Una nota sull’autore
Jack Tackle, tesoriere dell’American Alpine Club, vive a Victor, Idaho, con sua moglie, Pat. Ha scalato per la prima volta in Alaska nel 1976.

Catarsi ultima modifica: 2023-03-21T05:41:00+01:00 da GognaBlog

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40 pensieri su “Catarsi”

  1. Auguri caro Roberto, in questa esistenza di facile non c’è nulla.
    Ha ragione Batman
    “A proposito del salvataggio dei Dru, mi sa che chi è stato “dimenticato” non è né Hemming né Desmaison, ma un certo Francois Guillot.”
     

  2. Vorrei chiudere questo mio outing personale stimolato dalla parola Catarsi, di cui ho sentito il bisogno senza vergogna, dicendo che mi ha salvato probabilmente la vita la giovane specializzanda che fa le visite di idoneità nella mia palestra di arrampicata e che probabilmente pagano 25 € a visita. Lei ha avviato il processo sentendo quello che professoroni amici non avevano mai notato. Rispettiamo i nostri ragazzi, meritano la nostra fiducia e poi lo siamo stati tutti, almeno per qualche anno. Grazie ancora  e saluti a tutti. 

  3. arrivato qui per caso ho letto tutto d’un fiato “Catarsi” e i vari commenti. Prima di tutto auguro a Roberto una pronta guarigione e una veloce ripresa da portarlo di nuovo sulle amate montagne. Mi soffermo quindi  sulla domanda del perchè ancora si va  in montagna ?Posso dire la mia dopo due recuperi in elicottero ma non ho che una risposta scontata ,si chiama passione. Dopo l’incidente in solitaria  scialpinistica nel ’92 avvenuto sul mte Viglio a seguito di un volo  rovinoso dove ho riportato traumi da congelamento perchè recuperato dopo ventiquattro ore.Sul secondo  incidente sorvolo(proprio come una puntura di zanzara) , qui dopo dieci metri di volo in falesia mentre attrezzavamo a spit una via, me la sono cavata con una perdita di due incisivi. Quindi tornando a  quel primo incidente , sono stato messo sul banco degli imputati , da parenti, familiari e amici(non montanari),ho fatto spallucce e continuato ad andare in montagna. Credo sia una benefica  quanto pericolosa patologia.

  4. A proposito del salvataggio dei Dru, mi sa che chi è stato “dimenticato” non è né Hemming né Desmaison, ma un certo Francois Guillot.
    Comunque, chi se ne… Auguri di cuore a Roberto Pasini.

  5. Beh…Tom Frost è quello dello Yosemite. 
    Hemming però è quello dallo spirito inquieto. 
    Che poi fosse meno bravo di Harlin, non lo so?

  6. MG – Per tua curiosità, guarda Wikipedia americana quanto spazio dedica a Tom Frost e quanto a Gary Hemmings… Ci sarà un motivo, no?

  7. Eh si ragazzi c’è anche un marketing della disgrazia e della sfiga. E siccome si tratta di eventi diffusi il pubblico non manca. Però con un po’ di attenzione si può distinguere la decorazione sulla torta dalla sostanza e le differenze si vedono s anche nelle divere “narrazioni/prodotti editoriali”.

  8. Non ho detto contrappeso, solo che era sempre insieme a alpinisti di livello forse superiore…. Desmaison ha venduto una esclusiva certo, ma la copertina di Paris Match aveva Hemmings (magari perché il francese stava sulle palle al clan delle Guide di Chamonix, da sempre mooooolto suscettibili)…

  9. evvabeh, via… un sacco da contrappeso a quelli bravi ;o). 
    Non si sono dimenticati desmaison, il buon renè si era già venduto in proprio l’esclusiva. 
    io non c’ero eh, ma sto leggendo un po’ di cose, perché il periodo, le vicende e i personaggi mi affascinano. 

  10. La Diretta americana al Petit Dru insieme a un mostro sacro dell’arrampicata americana, Royal Robbins… Al Fou con alpinisti del calibro di Tom Frost e John Harlin (più Stewart Fulton)
    Insomma, sempre con alpinisti molto più forti di lui…
    Alto, biondastro. occhi azzurri, americano… Come non poteva non piacere a quei frou frou di francesi, il beatnik USA che a Parigi viva sotto i ponti della Senna? E chissà come mai i media francesi (primo tre tutti Paris Match) a proposito del salvataggio ai Drus parlano solo di lui e dimenticano un tale René Desmaison…

  11. @vegetti a me hemming affascina, così come trovo interessante il libro di camanni, che pone infinite riflessioni, anche aldilà del personaggio hemmings. 
    quanto al sopravvalutato, non saprei dire molto su qualcuno che è vissuto qualche decennio prima di me e che se ne andato quando io nascevo, anche se mi affascina a livello istintivo.
    e tuttavia uno che negli anni sessanta sale la diretta americana al dru e l’americana al fou forse non era solo  beatnik sopravvalutato…

  12. Matteo, prima di tutto grazie. I tiri più duri sono stati superati, adesso ci vuole umiltà e tenacia, ma quelle ce le ha rafforzate nel tempo l’andare per monti e mari.” Ho pensato tante volte anch’io quello che dici e ho visto il fenomeno con i miei occhi in amici che per pressioni varie e amore, unito da un senso profondo di responsabilità, hanno smesso e si sono dedicati a cose meno “rischiose”che li appagavano decisamente meno. Non so se poi sia così servito davvero ai loro cari. Parlando di noi maschi, ho visto padri e mariti diventare più assenti, a volte anche un po’ risentiti. Perché è così. Di fatto, se si accumulano troppi crediti emotivi, poi anche i Santi chiedono il pareggio, a volte adottando comportamenti inappropriati, che fanno magari danni maggiori che non sottrarre qualche weekend in montagna alla propria famiglia. Io mi ritengo anche fortunato, come te mi pare, di aver trovato persone che hanno capito che non era “contro” o “a scapito” loro ma era anche “per loro”, senza comunque negare un po’ ipocritamente la componente egoistica e qualche temporale che è scoppiato, sopratutto nella fase più giovane della vita affettiva.  A quanto pare siamo stati forse da un lato fortunati e dall’altro siamo riusciti a realizzare una accettabile “compensazione” come dicono gli psicologi. C’è comunque qualcosa di affascinante nella tendenza a mettersi in gioco della nostra specie, a prescindere da motivi pratici e utilitaristici. C’è un immenso immaginario collettivo in proposito, fatto di racconti, di miti, di immagini…..e c’è anche un lato tenebroso, quasi un giocare a scacchi con la morte, come il cavaliere del film di Bergmann visto molte nei cineforum del tempo che fu. Per quello mi colpiscono storie estreme di questo gioco a nascondino come quella di Pritchard nella quale mi sto addentrando in punta di piedi, scontata magari,come già detto, qualche intervento editoriale del marketing della “Resilienza”. Bello comunque condividere tra persone e non prendersi a botte tra “personaggi”. Il confronto con la paura e il dolore effettivamente ha un effetto ””catarchico” e può tirar fuori il meglio e non il peggio di noi. È questo che forse con un po’ troppa enfasi voleva dire Pritchard con la frase sulla sua disgrazia.

  13. Auguri a Roberto, per prima cosa…
    A proposito del perché ci torni, chiedete ad Andy Parkin,,,
    A proposito di Gary Hemming, secondo me, sopravvalutato, solo perché hippie e americano in Francia…

  14. Leggo solo ora e rimango colpito dagli interventi di Roberto.
    Per prima cosa forza vecio!
     
    Quanto alle responsabilità verso coloro che ci sono vicini, io sono giunto alla conclusione che sono quello che sono in buona parte perché vado in montagna. Se non andassi, magari sarei più al sicuro, ma non sarei più io.
    Per fortuna anche chi mi è vicino è giunto alla medesima conclusione.

  15. Nei giorni bui mi ha aiutato fontana di giovinezza di Lammer e viaggio in italia di Goethe

  16. Ci sono passato anche io, ormai 10 anni fa con il “cuore suo comodino”. Molta rianimazione e riabilitazione che non si può dire finirà mai. Ho sempre pensato che la vita di un uomo sia cinquant’anni….tutti gli altri grazie a medici e medicine. Devo dire che non ho permesso alla malattia di cambiarmi la vita, faccio ciò che facevi fatte le debite proporzioni anagrafiche. Certo, son consapevole che un accidenti in luogo impervio possa essermi fatale, per questo vado solo e senza avvertire nessuno. Perché ci vado??  perché sento che sto bene .
    Auguri, non di guarigione perché non si guarisce, ma di felice convivenza.

  17. non ho letto il libro di Paul Pritchard, ma conosco il personaggio. Credo che bisogna partire dal fatto che Pritchard è inglese. E gli inglesi hanno un approccio tutto britisch hai fatti, belli e brutti,  della vita. Di sicuro non italiano.
    Mi raccontava un mio amico che l’aveva  conosciuto parecchi anni fa alle Torri dei Paine, quando ancora era nel pieno della sua forza e abilità, che anche nel pieno del brutto tempo patagonico, mentre tutte le altre spedizioni, se ne stavano comodamente riparati al campo, lui e i sui compagni , se ne stavano in parete cantando aspettando il bello.

  18. Roberto, un sincero augurio di serena convalescenza e ripresa. Spero tu possa tornare presto in montagna 

  19. Pasini, concordo. Non siamo eroi. Le malattie non si vincono come le montagne non si conquistano. 
     

  20. Enri.,Ritornerò su tema dopo aver finito il libro. C’è effettivamente un po’ di infasi sul valore positivo delle disgrazie che un po’ mi insospettisce. Interventi degli editor? Un’altra cosa che mi colpisce in questi giorni in cui mi sono ripreso e cerco come sempre di guadare le persone intormo a me , e che avevo già notato sulla morte di Vialli sono queste metafore bellicosa sulla lotta alla malattia come una guerra di eroi. Il linguaggio dominante dei media è pervasivo e scende giù anche in basso. Una bravissima infermiera, una vera cara persona, mi diceva nella giornata in terapia intensiva postoperatoria con buone intenzioni : voi siete degli erooi e vincerete la guerra. Ma quali eroi signora, quale guerra, siamo dei poverini spaventati, doloranti e mezzo rincoglioniti dai farmaci ma non volevo offenderla e stringevo con gratitudine la sua mano. È icredibile la forza delle parole legittimate dai media.

  21. “Volgi gli occhi verso i monti, Pasini: di là ti verrà la salvezza!”
     
    Oltre che dal cardiochirurgo… 😉😉😉

  22. Caro Pasini, innanzitutto auguri per una pronta ripresa!
    Casualmente ho letto anche io il libro “la via per la montagna” perché’ sono molto interessato a tutti coloro che hanno voluto tenere un’asticella molto alta anche quando sono sprofondati in basso. Trovo analogie fisiche con la mia storia che non sto qui a descrivere. Il libro mi è’ piaciuto a metà’. Mi piace leggere di un uomo che ha tenuto duro anche quando chiunque avrebbe mollato. Ho letto con un certo interesse il suo percorso mentale, atto a prendere una distanza diversa con la vita e con la morte. Unica cosa che mi lascia un po’ perplesso è’ questa ricorrente frase che “ l’incidente è’ stata la cosa migliore che mi potesse capitare”. Beh questa a volte mi sa un po’ di forzato e, perdonami, anche un po’ uno slogan votato al marketing. Io ho letto tutto quello che si può leggere di Alain Robert, che comunque pur non essendo un emiplegico come Plitchard, ha avuto i suoi nei guai e non ho mai letto nei suoi scritti una frase simile. Per me Alain è’ il perfetto concentrato di determinazione, cinismo e amore per la scalata. Se Robert dopo i suoi grossi guai non avesse più’ potuto scalare credo non avrebbe mai scritto che l’incidente è’ la cosa migliore che gli sia capitata. Non abbiamo la controprova, vero. Ma ho questa sensazione. Buon rientro il più presto possibile si sentieri levantini.

  23. Balsamo. Hai ragione. Su molti nostri comportamenti non serve farsi troppe domande. A volte però qualche comportamento slitta fuori dai margini e allora qualcuno, professionalmente, con quello che ha a dispozione deve cercare di capire come funziona il processo che si inceppa e cosa di può fare se l’inceppato chiede aiuto. La dipendenza e la ricerca del rischio estremo in certi campi possono essere pericolosi, non tanto per se’ stesso, quanto per gli altri. Se ne era già parlato in passato. Per gli alpinisti che sviluppano questa sindrome il danno è più limitato, in generale, perché non hanno grandi responsabilità organizzative, perché possono far male soprattutto a stessi o alle persone vicine. A meno che si tratti di accompagatori professionali. Certe storie sono dunque molto interessanti, sia quelle sulla resistenza pre-post disastro che quelle sul superamento della dipendenza compulsiva.  E’ un tema che è bello il
    blog tenga sempre aperto con articoli, contributi e scambi di informazioni tra noi. 

  24. Ecco il motivo del tuo silenzio, Pasini, l’importante è che siano intervenuti in tempo! Mi unisco agli auguri di completa guarigione, che i sentieri ti aspettano!

  25. Nel 1990 in un tragico incidente alpinistico sul pilastro dei Carrarini alla Pania della Croce, ho perso un amico. E’ stato un momento molto duro, in cui tante certezze giovanili sono venute meno. Ma poi la grande passione, il tempo che passa e forse, l’illusione che a noi questo non accadrà mai,   ci fanno continuare in questo folle gioco senza farci troppe domande.

  26. Auguri e forza Roberto! Quando ci incontreremo per la prima volta berremo un calice di buon vino alla faccia dei nostri cuori acciaccati!

  27. Pasini, ti faccio i miei migliori auguri di una veloce e completa guarigione.
    E scrivi, che è una attività che ti riesce molto bene.
     
    P.S. Sul “perché ancora ci vai” personalmente non mi sono mai fatto troppe domande nè saprei dare risposte comprensibili ad altri. Vado e basta.
    Diciamo che i ricordi, ma soprattutto la voglia di andare, mi hanno aiutato molto durante qualche periodo buio e per me questo è più che abbastanza.

  28. Su Hemming avevo letto alcuni anni fa il libro di Mirella Tenderini e non  ho ancora letto il libro di Camanni, sicuramente interessante, ma Gary Hemming non è tornato per un incidente, ma perche l’ha voluto lui. E forse non aveva scelte.

  29. Mg. Grazie dell’indicazione. Hammings è certamente un personaggio molto particolare. Sicuramente c’è una dimensione profondamente personale, sia nei casi estremi che in quelli più normali diciamo, come noi. Però forse, per un po’ di deformazione  professionale antica,  mi ha colpito una connessione. Il libro di Paul Pritchard inizia con il racconto della sua prima gita con la madre e la descrizione  del suo ambiente familiare, con la grande differenza tra i due genitori, assenza e presenza affettiva. Paro paro Cognetti le cui prime pagine mi acchiapparono per identificazione. Buon vecchio Sigmund, morto e sepolto da tempo, rinnegato e messo in cantina con i pantaloni alla zuava con cui passeggiava sul Renon, però questi padri e queste madri, vivi o simbolici come quelli descritti da Ines Millesimi, saltano sempre fuori tra le pieghe di un ricordo, di una malinconia, di un riferimento emotivo molto privato, di un profumo o un’atmosfera rivelata con pudore, a volte anche con qualche rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere detto e fatto. Basta immergere il biscottino nel the e a volte…ritorna come per magia. 

  30. @pasini in bocca al lupo e buona ripresa. 
    il tema è interessante, ma credo abbia risposte  individuali e diverse, legate al diverso essere e vivere di ciascuno di noi.
    Certo è che sfiorare il bordo per ragioni che prescindono  da noi non significa poi vivere il resto della vita in difesa. a me è capitato molto giovane, a 35 anni, e la voglia di ritornare a scalare (oltre a quella di vedere mio figlio crescere)  è stata una molla prepotente che mi ha aiutato ad avere il giusto assetto mentale 
    Sul tema consiglio l’ultimo libro di Camanni sulla storia di Gary Hemming “se non dovessi tornare”. a me è piaciuto molto, sia per gli interrogativii che pone che per la ricostruzione storica di un personaggio fuori dal comune. 
     

  31. Malàs e guarì l’è amò negòt! Auguroni!
    PS. L’hai visto il Carosello con la Rogora?

  32. Benassi e &.,grazie. La tendenza di molti di noi umani ad esporci volontariamente a rischi importanti oltre a quelli che già ci procura la vita è sicuramente molto diffusa e come sappiamo non riguarda solo la montagna, anzi. In qualcuno diventa quasi una dipendenza. Qualche anno fa mi colpi’ il film oscar  The Hurt Looker” sullo sminatore americano che non ce la faceva più quando tornava a casa anche se amava moglie e figlia. È un tema che è stato anche studiato, da diversi punti di vista. Ho letto molta roba in merito per ragioni professionali e interessi personali. L’ultimo è il libro che ho citato prima dello scalatore che è voluto tornare dopo molti anni in condizioni fisiche pazzesche da parapeglico  sul Totem Pole dove si era quasi ammazzato. Francamente nulla mi ha mai convinto completamente finora. Penso che sia giusto leggere, informarsi, confrontarci in modo sincero tra noi, se uno lo vuole, ma d’evessere qualcosa di molto sepolto in fondo al nostro cuore,in un punto che neppure il bravissimo chirurgo che me lo ha aperto ha certamente visto. La ricerca non smette mai, a chi interessa ovviamente. Si può anche vivere senza, col sole in fronte, anzi a volte mi domando se non sia meglio in fondo e se non sia arrivato il momento di accettarci per quello che siamo..il problema è che non siamo soli, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di noi o per il quale perderci sarebbe pesante. Vi ricordate “L’ossessione dell’Eiger” di John Harlin III?

  33. Tutti abbiamo libri non scritti arrivati sul bordo del precipizio dove una qualsiasi malattia ,incidente o infortunio ha fornito i  noi una nuova coscienza. 
    Poi si può discutere se margarita , tequila o altra roba serva a diluire il tutto…AUGURONI Roberto.
    P.s.in dialetto veneto catarsi vuol dire RI-trovarsi… quindi a presto con i tuoi sempre graditi scritti.

  34. A Pasini, ogni augurio di veloce ripresa. 
    Le difficoltà della vita di tutti i giorni, e quelle legate alla salute più di tutte, sono spesso di gran lunga superiori al grado di una scalata alpinistica o sportiva che sia.
    È che le prime non ci appassionano come la seconda. Quindi tutto cambia.

  35. Anche se non la conosco, Roberto Pasini, le auguro di riprendersi al meglio e presto 

  36. Tanti auguri Roberto e guarisci presto.

    ”perché ancora ci vai?

    E’ una domanda che si potrebbe fare a tutti, anche a chi, in montagna a rischiare la vita non ci va. Ma la rischia in tante altre attività della vita, ad esempio sul lavoro. O anche a quelli che si imbottiscono di cibo, alcool, fumano e fanno vita da divano.

  37. In questi giorni sono in ospedale, dopo aver subito un intervento a cuore aperto per correggere un problema cardiaco, scoperto per caso, in una visita sportiva di routine in palestra, subdolo, asintomatico e potenzialmente mortale. Consiglio di farsi un ecocardio ogni tanto in proposito e di dare un occhio alle coronarie. I giorni più duri sono passati e ora la testa può riprendere a funzionare, almeno lei. Questa mattina ho guardato il bilancio dei morti sulla neve del weekend ma questa volta mi ha colpito più del solito. Sono discorsi che abbiamo già fatto tante volte, sopratutto quando riguardano giovani vite, ma quando tocchi personalmente con mano il tema del dolore qualcosa si muove dentro di te. Il dolore tuo e quello degli altri: in  intensiva c’era con me una bimba, la cui vista mi ha straziato. Poteva essere mia nipote. Vengono fuori di nuovo le domande che c’erano già 60 anni fa, quando ho cominciato da ragazzino ad andare per monti. Sono stato sempre un prudente e un modesto alpinista e navigatore ma come tutti ho corso i miei piccoli rischi, sempre riuscendo a cavarmela. Ho sviluppato nel corso della vita diverse varianti di risposta alla solita domanda che ci fanno gli altri ”perché ancora ci vai?” Le mie certezze, dichiarate con una certa assertività all’esterno, avevano però una base interna molto più fragile e precaria, quando cercavo di essere più severo con me stesso. E vedo che anche con gli anni questa ambivalenza permane. Non ho scritto questo post per suscitare una discussione delle solite, che a volte trovo per me prive di intresse,  ma solo per condividere con chi li vorra’ uno stato d’animo che sono certo molti hanno provato, visto che la maggior parte di noi condivide esperienze e valori di base. Litigare non è l’unica funzione di un blog. Ho iniziato a leggere il libro di Paul Pritchard “La via per la montagna” recentemente tradotto molto bene dal nostro Luca Calvi. Un interessante contributo sulla resistenza dei “danneggiati”, un tema molto interessante, perché prima o poi capita a tutti di essere messi alla prova su questo terreno duro di “scalata”, spesso più duro della resistenza dei “forti”. Se mi regge la motivazione vorrei provare a scriverci sopra qualcosa durante la riabilitazione. A presto.

  38.  A volte sprofondavamo nella neve soffice, solo gli zaini c’impedivano di andare ancora più giù… Eravamo senza cibo, carburante e acqua, quindi non c’era alcun vantaggio reale nel fermarci: perciò abbiamo continuato a lottare. Ad un certo punto, per la prima volta nella mia vita, non ero sicuro di poter farcela. È stato davvero brutto. Solo la bottiglia di tequila nella tenda ci impediva di fermarci.

    A volte l’istinto di sopravvivenza si chiama “TEQUILA”.

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