A Roby
di Luigi Gino Sturniolo
All’altro capo del telefono Giuseppe (Maurici, NdR) mi annunciò la morte di Roby (Manfré Scuderi, NdR). Ricordo che ebbi una reazione strana. Non riuscivo a crederci. Mi venne fuori un sorriso isterico. Esclamai incredulo: “Che storia è mai questa?”
Qualche mese prima Giuseppe mi aveva comunicato che Maurizio Lo Dico non c’era più. Poi era stata la volta di Peppe Cutrona. Non ne potevo più. Non poteva essere. Sembrava che la sorte si fosse accanita contro questo sparuto gruppo di giovani che si dedicava, totalmente sconosciuto, a una pratica decisamente eccentrica rispetto al proprio territorio.
Il nostro non è mai stato un alpinismo di punta, ma un alpinismo di scoperta quello sì. La nostra tradizione l’abbiamo inventata noi. Non abbiamo vissuto un nuovo mattino perché non ce n’era stato uno prima.
Ricordo che al funerale di Roby, Marco toccando una pietra disse: “Ogni volta che toccheremo una roccia è te che toccheremo”. Confesso che allora mi sembrò un po’ retorico. Oggi posso dire che aveva ragione.
Non c’è volta che arrampico che non ti penso. Non c’è volta che parliamo di rocce, pareti, vie che non parliamo di te.
La Crestina dei Valdesi
Sarà stato vent’anni fa. A quel tempo mi rotolavo ancora nel fango delle grotte. Di Roby si parlava molto nell’ambiente. Arrivammo sotto le pareti che il sole era già bello alto. Inforcai le mie Montelliana nuove di zecca e mi portai alla base.
Ci aspettavano. Roby guardò verso i miei piedi con l’aria un po’ snob che gli avrei rivisto in viso tante volte. “Non ce l’hai un paio di scarpe da tennis?” Sì che ce l’avevo, stronzo.
Attaccammo la via. Dieci metri di III verticale e ben ammanigliato. Una cazzata, ma per me era già tanto. Arrivai in cima alla placca. Mi aveva recuperato a spalla, lo sbruffone.
Continuammo ancora per qualche tiro, che era più un camminare che arrampicare. Non fosse stato per le Montelliana mi sarei anche divertito.
Più complicata la discesa. Come tutte le scalette di discesa di Palermo. Ne avrei percorse negli anni successivi. Alcune, francamente, pericolose. Ci portavamo con gli allievi dei corsi. Eravamo davvero avventati.
La giornata terminò così. Rapidamente. Con quell’unica via all’attivo. Ero diventato un rocciatore e non me ne rendevo ancora conto. Roby era diventato mio amico e non lo sapevo ancora.
Visite in autunno
Fitzcarraldo non l’ho mai visto per intero, però ho trasportato un’arpa, di notte, lungo un sentiero scosceso. Quel giorno Roby era venuto a farci visita a Castelmola, la nostra falesia. Era un autunno bellissimo. Forse la stagione migliore per quel posto.
Non era la prima volta che ci veniva. Avevamo già chiodato insieme tre vie quando ancora lì non c’era quasi niente. Vedesse adesso quella parete sarebbe contento.
Avevo attrezzato per lui un bel tiro. Lo salì. 6a facile. Che cazzo è un 6a facile? Ma per lui c’erano i 6a facili e i 6a difficili. Visite in autunno ricambiava I re delle due Sicilie allo Schiavo.
Gli arrampicatori sono persone strane. Si regalano le vie. A fine giornata andammo a trovare sua sorella e il compagno. Stavano in una casetta che definire isolata non rende l’idea. Lei si era portata l’arpa. Lui era preoccupato perché il posto cominciava a essere troppo frequentato dai pastori. Non amava la confusione. Trasportammo quella maledetta arpa e, finalmente, andammo a mangiare.
Trident
Quattro giorni con zero gradi a quattromila. Le nuvole avvolgevano il rifugio. Eravamo sfiniti dalla noia. Non sapevamo davvero più cosa inventarci per far passare il tempo.
Alle 11.00 del quarto giorno ci fu una schiarita. Faceva ancora caldo, ma almeno una via di roccia si poteva fare.
“Non vale la pena usare piccozza e ramponi. Con questo caldo comunque affondiamo”.
Naturalmente, intendeva dire “attaccali allo zaino”.
Giunti alla base della parete Roby si accorse che li avevo lasciati al rifugio. S’incazzò come una bestia. Penso che se non fosse stato vietato dalla legge mi avrebbe ucciso. Io, d’altronde, mi sarei buttato in fondo a un crepaccio, pur di porre fine a quell’umiliazione. Comunque, in qualche modo arrivammo alla base della via.
“Cammina molto”, mi aveva detto prima di partire, “tanto facciamo gradi bassi”.
Con scarponi e zaino sulle spalle, però, anche un quinto grado diventa duro. In qualche modo gli arrancavo dietro. A pochi metri dalla vetta il tempo decise di cambiare nuovamente. Prima la pioggia, poi la grandine. Battemmo rapidamente in ritirata. Come mi avevano insegnato nei corsi, alle soste mi assicuravo.
Mi guardò con la faccia di chi pensa “ma chi me l’ha portato questo qua?”. Disse soltanto “Se arrivano i fulmini di noi non trovano neanche gli imbraghi”.
Capii. Smisi di assicurarmi e velocizzai le operazioni. Ma siccome i guai non arrivano mai da soli, la corda si incastrò. Cercai di passargli piccozza e ramponi suoi, che intanto erano finiti nel mio zaino. Anche questi si incastrarono.
Decisi che ci sono momenti in cui un uomo deve dimostrare di essere un uomo. Raggiunsi, sciolto, gli attrezzi e glieli feci arrivare. In qualche modo riuscimmo a metterci in salvo e a tornare al rifugio. 2 a 0 per la montagna. Era tempo di tornare in falesia.
Viva Mexico
Dietro ogni grande uomo c’è una grande donna. Dietro i miei fallimenti c’era Wendi, pensavo, mentre correvo, con i finestrini spalancati, verso Palermo. Giunsi alla base dello Schiavo protetto da un cappello a larghe tese. Faceva così caldo che anche le migliori intenzioni si scioglievano in sudore. Comunque, Roby era al suo posto di combattimento. Aveva appena chiodato una variante al primo tiro della Diretta. Me la offrì. 55 chili all’ombra, non ebbi alcuna difficoltà. Roby chiamò la via Viva Mexico in onore del mio cappello.
Perché Roby era così generoso con me? Penso, perché, come lui, facevo fatica ad adattarmi alla vita di tutti.
Corremmo a fare Gli scalpellini, poi Mariella crack ’n up. Il giorno dopo la Syusi. Per me era anche troppo.
Partimmo per Petralia dove avremmo dovuto esibirci per il CAI locale. Attrezzammo due vie e le salimmo. A me toccò la più difficile. Ancora un gesto di cortesia.
Quando scendemmo ci fecero mille complimenti. C’era anche la stampa. Scappai in gran fretta per sfuggire al giornalista locale. A quel tempo cercavo di non lasciare orme sufficientemente pesanti da poter essere registrate. Che coglione! Oggi darei il culo per un passaggio televisivo.
Daniela
Mi ha sempre fatto difetto la resistenza. Per la resistenza devi arrampicare tanto. Le pareti, però, erano distanti e i pannelli allora non si usavano ancora. La forza, invece, un po’ ce l’avevo. Ero magro e facevo tante trazioni. Per questo sulle vie lunghe dello Schiavo prenotavo sempre i primi tiri.
Quel giorno andammo a fare la Daniela. Ci andammo con Battimelli. Era appena tornato dal Verdon dove aveva fatto Pichenibule. Non andava tanto per il sottile. Se c’era da tirarsi dai chiodi lo faceva. Appeso alla seconda sosta il mondo mi appariva più sopportabile.
Le regole della quotidianità erano lontane e il tempo perdeva il significato di misura del valore. L’arrampicata è stata per me la continuazione della rivoluzione con altri mezzi.
Certo, nelle piazze avevamo perso, ma lungo le pareti potevamo ancora essere belli e ribelli.
Non so cosa riguardassero ma anche Roby era assorto nei suoi pensieri. Fatto sta che la corda s’ingarbugliò. Provammo a dipanare la matassa. Niente.
Intanto Battimelli era nel tratto di 6c che puoi azzerare. Lui, naturalmente, lo fece.
Il nodo si avvicinava rapidamente al discensore. Avremmo potuto fermarlo. Dirgli di appendersi. Non lo facemmo. Roby sganciò tutto, filammo la corda e riagganciammo.
Ci guardammo: “Occhio non vede …”. Non so se Roby gli raccontò mai l’accaduto. Io non lo feci. Poi Battimelli sparì oltre il tetto. Quando la corda fu in tiro partimmo anche noi.
Non lo sentivamo. Non eravamo certi di essere in sicura. Nelle vie dello Schiavo è difficile sentirsi da sosta a sosta. Sono troppo distanti e il rumore della città fa il resto. Ci vuole sensibilità per arrampicare sulle vie di Roby.
Capo Zafferano
Partii da Messina, come sempre, molto presto. Bella forza i palermitani. Loro le pareti le avevano sotto casa. Era il primo giorno del corso. Traversata di Capo Zafferano, recitava il programma.
Giunto sul posto, Roby mi comunicò che non avevano bisogno di noi. L’itinerario era facile. Così avremmo potuto dedicarci all’apertura di una via che aveva in mente da tempo. Mi sentivo inorgoglito.
Attaccammo la via con tutto il corso sotto di noi. Davvero istruttivo! I primi tiri filarono via velocemente. Era facile. Poi iniziò il tratto difficile. Niente di straordinario, per carità.
Rimasi sorpreso dalla quantità di protezioni che metteva. Non me l’aspettavo. Evidentemente la sua abitudine di arrampicare sprotetto la riservava alle zone che conosceva bene.
Tutto filò via velocemente. Non ricordo neanche più il nome che demmo all’itinerario.
Mi resta il ricordo di una via aperta a tiri alterni e la sua attenzione nella posa delle protezioni. Decisamente più logica rispetto alla mia.
Penso spesso a quella giornata e la lego a quella volta in cui salendo sciolto e un po’ esitante durante un corso Roby continuava a lamentarsi delle sue “scarpacce”.
Da allora ogni volta che un tratto troppo lungo mi mette paura esclamo: “ste’ scarpacce!”.
La Nord della Tour Ronde
“Questa ci tirerà fuori dai guai.”
Guardò la sua nuova piccozza brillante di negozio. Beh, allora stiamo tranquilli.
Eppure Maurizio mi aveva avvertito. In montagna ognuno deve sapersela cavare da solo. Noi siamo gente di mare però, pensai. Naturalmente ci muovemmo in ritardo.
Gli austriaci erano già nel canalino un paio di centinaia di metri sopra di noi e non mancavano di scaricarci addosso qualsiasi cosa.
Il blocco di ghiaccio che aprì da parte a parte il casco di Sergio provocò solo la nostra ilarità. Certo, cosa ci sarebbe potuto succedere? Salivamo che ci sembrava una passeggiata. I primi cento metri andarono via così, lisci come l’olio. Che importava se la nostra attrezzatura era vecchia, la via l’avevano aperta con i ramponi senza punte orizzontali.
Roby e Sergio sparirono oltre il traverso e lì iniziarono i problemi. Su una placca di calcare in qualche modo me la sarei cavata, ma che ne sapevo io di ghiaccio?
Giuro che pensai che sarei morto. La corda scendeva libera sotto di me fino alla sosta. Santino mi assicurava inutilmente. Adesso volo e finiamo insieme nel ghiacciaio, pensai. Trovai i buchi dei loro chiodi e ci misi dentro i miei. Proprio un bell’ancoraggio! Sali, urlai, pensando che la mia parte l’avevo fatta.
Il traverso ci stressò ancora di più, se possibile. La nostre forze erano già finite poche decine di metri più in alto. Seduti su un blocco di granito incassato nella neve che si scioglieva al sole elencavamo i nostri errori.
La sua piccozza nuova non ci aveva tirato fuori dai guai. Non gli imputammo mai l’onta dell’elicottero. E sbagliammo.
San Vito Lo Capo
La scusa era che Giuseppe ci avrebbe intervistato per un articolo sugli attrezzatori di vie commissionatogli dalla Rivista della Montagna.
Avevo non poche riserve sulla cosa. Che c’entravo io, modesto chiodatore di provincia, con Roby e la sua infaticabile produttività?
Comunque, la sera, in uno dei bar di San Vito, ne parlammo. Naturalmente, neanche una parola venne scritta. Naturalmente, qualche mese dopo, una mezza colonna con foto di Roby venne pubblicata all’interno di un pezzo che trattava di alcuni dei più forti arrampicatori italiani. Giustizia era stata fatta.
La verità è che Roby e Giuseppe avevano bisogno di braccia per ripetere le vie da inserire nella loro Guida. Per parte nostra, rischiando l’incidente a catena, avevamo già fatto il nostro salvando la sera prima un istrice, smarrito in mezzo alla strada.
Il giorno dopo Sergio e Roby si persero alla ricerca di vie aperte ai tempi della carovana di Gogna.
Io e Giuseppe salimmo, invece, una bellissima via di Merizzi e Masa, una fessura con del settimo grado tutta da attrezzare. In quel periodo ero in forma e non ebbi difficoltà. Anzi, all’ultimo tiro mi persi e uscii da una fessura parallela certamente non più facile dell’originale.
Con Sergio e Roby restammo ancora un giorno. Pensavamo di aggiungere ancora un paio di vie alla scogliera della Salinella. Come al solito partii per primo, così avrei potuto riposarmi nei tiri successivi.
Alla prima sosta: “Vado ancora io, ce la faccio”. Un masso grande come una Fiat 500 mi si parò dinnanzi. Era incastrato, ma, sembrava, bene. Battei con la mano, come facevo sempre. Suonava bene. Misi una mano sotto, poi l’altra. Salii i piedi e tirai in fuori. Di colpo il mondo si mosse intorno a me. La cinquecento s’era mollata.
Non io ma la mia mente si ricordò che un metro sotto mi ero tenuto da una lama tagliente. La mia mano ci andò, e si tagliò, ma tenne. La 500 passò a un niente da Sergio e Roby. Chiaramente, non portavamo i caschi a quel tempo, ma comunque non sarebbero serviti.
La nuova via ebbe ugualmente la luce, ma ne uscimmo un po’ toccati. Per mesi continuai a battere su ogni appiglio da cui mi sarei tirato. Sergio sorrideva ogni volta. “Da lì ci tiri anche un camion” diceva.
Fiat 500, camion. Avevo iniziato ad arrampicare per sfuggire allo stress della vita moderna e mi trovavo bloccato nel traffico.
Luigi Gino Sturniolo è nato a Messina il 21 giugno 1961.
7
Un grande piacere a leggere un così bel ricordo di Roby Manfrè, un rocciatore rivoluzionario libero ed abilissimo. Tutti questi vocaboli non si usano più , ma a quel tempo facevano il mondo migliore
Non fosse stato per le Montelliana mi sarei anche divertito. Le mie blu conf ascione rosso, calzavano perfettamente nel piede destro, al sinistro undolore insopportabile all’alluce, inutile qualsiai i intervento con m messa in forma di calzolaio.Per cui capisco la parzialità del divertimento.