A volte ci vuole…
di Piero Visentin aka Joe Condor
(estratto da Dai diari di un istruttore, ancora non pubblicato)
“A volte ci vuole tanto, troppo coraggio”, scrivevo nel capitolo precedente. Nel 2023 Alpinismo Goriziano pubblicò un mio scritto che era intitolato A volte ci vuole e faceva più o meno così:
A volte ci vuole:
Un buon narratore. Un buon narratore sa mescolare abilmente eventi reali, cronaca e un pizzico di fantasia. A volte è aiutato dai fatti ma senza le sue capacità, con i soli fatti farebbe ben poco. Le mie capacità narrative sono quello che sono, mentre in questa storia non c’è nulla di inventato…
Venerdì 1 luglio
I ricordi sono vaghi: un viaggio ancora onirico in macchina fino a Stupizza, la ricerca, il caldo, il terreno infido che scivola sotto ai piedi, la fatica, la sete, le zecche e la stanchezza, tanta, lì e una volta arrivato a casa. Tanta, al punto che una volta tanto chiedo a Elena di aiutarmi nelle faccende domestiche che ultimamente cerco di accollarmi per intero. Un Vietnam, così l’ho descritto telefonicamente a qualche amico: “Niente, lo stanno cercando da quasi una settimana, neanche oggi l’abbiamo trovato, non so per quanto ancora continueranno le ricerche”. Da una parte mi rendo conto di quanto sia difficile trovarlo, salvo passargli davvero in prossimità… un amico che aveva già partecipato a delle ricerche aveva sentenziato che, al di fuori dei sentieri la montagna, è molto più grande di quanto ci si aspetti. Ci sono buche, canaloni, speroni che camminando per i normali sentieri nemmeno si notano. Ora non posso dargli torto, l’ho visto con i miei occhi. Pare abbiamo battuto quasi ogni zona possibile. Al corso di formazione per operatori del soccorso ce l’hanno detto: “Mai perdere la speranza!”. È quello che ho fatto, ma la mia sensazione è quella di cercare un ago in un pagliaio, a volte ci vorrebbe davvero tanta fortuna!
Sabato 2 luglio
Fa molto caldo, ma è l’ennesimo tentativo: Giulia ha passato una notte agitatissima, ha dormito poco, Elena è stanca ed ha bisogno di dormire, ieri ha cucinato lei, credo sia la prima volta da quando è arrivata la bimba. Non ce la facevo, ero troppo stanco. Tra mezzanotte e l’una ha vagato per Pieris nella speranza di farla addormentare. Ancora stanco dalla ricerca alle pendici del Matajur, non mi sono reso conto di nulla, ho continuato a dormire. Il mio sonno leggero è scomparso a un solo mese dall’arrivo della piccola. Ormai non uso più i tappi per addormentarmi con lei accanto, le tapparelle rimangono sollevate e non mi rendo conto della luce del mattino se non per la sveglia che suona. Merli prima, e gazze poi, possono cantare tranquillamente senza che io li senta.
Ora la bimba è nuovamente nella fascia, dove di solito si calma e si addormenta. Funziona anche questa volta. Dopo avere provato con bagnetto, canzoncine, passeggiando per casa con lei in braccio, fischiettando… finalmente Giulia dorme beatamente sudata mentre io cammino cercando disperatamente l’ombra. A volte oltre alla fortuna ci vuole molta dedizione.
La telefonata arriva mentre sto passeggiando, con la bambina nella fascia, sotto al sole di mezzogiorno, per le vie di Pieris: l’hanno trovato e sta bene. La notizia ha del miracoloso. Dopo una settimana hanno trovato incolume e in buono stato il disperso del Matajur. Sono quasi commosso. Mai perdere la speranza. Le notizie sono ancora frammentarie, ma pare l’abbiano individuato cercando con l’elicottero tra le zone non ancora battute. La sensazione è che la fatica del giorno prima sia valsa a qualcosa.
Rientrato a casa trovo Elena che finalmente riposa. Poco dopo si sveglia, si è ripresa, le do l’incredibile notizia. È difficile raccontare la gioia e la pace che provo.
Che siano neonati o dispersi, ci vogliono una buona dose di fortuna e tanta dedizione.
Domenica 3 luglio
Ieri siamo stati a scalare a Col, la prima volta di Elena dalla nascita di Giulia Neve e la prima dopo una, almeno per lei, interminabile pausa gestazionale. Eravamo da soli, dopo le 18, con temperature accettabili per il periodo, ombra e un po’ di vento.
Abbiamo cercato di fare le cose con testa, scegliendo una parete bassa, senza avere sopra la cima ghiaioni, tenendo la bambina in carrozzina, a pochi metri da noi ma lontana dalla verticale della nostra corda, così da metterla al riparo dal potenziale distacco di sassi mossi da noi o dalla corda. Ho girato la foto a qualche amico che, sicuramente scioccato da quanto contemporaneamente succedeva in Marmolada, mi ricordava di tenere la bimba lontana dalle pareti per evitare che pietre smosse da animali sopra al ciglio potessero piombarle in testa. Si fa quel che si può, avevamo cercato un compromesso tra la vicinanza della bambina, il rischio di farle arrivare un sasso sulla carrozzina e lo spazio disponibile alla base della parete, in quell’angolo relativamente ristretto.
Come l’ha presa Giulia? Appena Elena si alzava a più di sei metri di altezza, Giulia iniziava a piangere, inconsolabile. Non bastavano le mie parole, una carezza o provare a cullarla nella carrozzina. Scesa, la mamma doveva tenerla a sé, nemmeno allattarla bastava. Solo dopo parecchi minuti si calmava e riaddormentava. Fino alla via successiva.
A volte ci vuole contatto. Altre non basta, ci vuole la mamma. Di mamma ce n’è una sola.
Cosa era successo in Marmolada? Una parte rilevante del ghiacciaio si era staccata poco sotto la cima di Punta Rocca e una massa di neve, ghiaccio, pietre e detriti, scesa a velocità degne di una macchina di formula uno, poneva la parola fine alla vita di una dozzina di persone che si trovavano lungo il tracciato della via normale alla cima. Mi sento di definirli per quello che erano, persone, appassionati di montagna sicuramente, persone con vite, idee, amicizie e sicuramente qualcuno che a casa li aspettava. In una delle chat di montagna di whatsapp le prime notizie si erano diffuse già verso le 15, poi video, foto, etc. in breve, era evidente la gravità di quello che stava accadendo… Infine un messaggio che diceva che lì era troppo pericoloso per i soccorritori, sgomberati i sopravvissuti, i soccorsi temporaneamente si ritiravano. Un commento era più duro degli altri.
Mai giudicare. Così ci era stato detto al corso per operatori del soccorso. A volte ci vuole memoria, altre pazienza, altre pietà, altre ancora silenzio.
A volte mi viene in mente la paradossale scena accaduta più di dieci anni fa quando, scalando in traversata classica a Prosecco, un mio amico fu calato velocemente a terra con la schiena sanguinante dopo che un serpente gli era caduto addosso dalla parete. Furono attimi di panico. Ripenso a quel film di guerra dove la realtà prevaricava la fantasia e dove un militare si ritrova apparentemente coperto di sangue, per poi scoprire che un proiettile aveva colpito la bottiglia di vino nello zaino. In questo caso, il mio amico aveva la schiena sanguinante, un serpente gli era appena caduto addosso… no… non era stato morso. Era andata così: sul bordo della falesia, sopra le catene, un serpente aveva provato a cibarsi di un topolino che, scappando, era caduto nel vuoto lungo la parete e il serpente dietro a lui… avevano impattato contro alcune rocce, il serpente si era ferito e poi contro l’incolpevole climber che non portava addosso i segni di un morso, bensì quelli del serpente ferito. Arrivati a terra, il topolino era fuggito, il serpente, mestamente si era rintanato in qualche anfratto alla base della parete. Oltre al danno la beffa, ferito, umiliato e senza cena… A dirla tutta… se per l’arrampicatore l’incontro non era stato piacevole… altrettanto l’incontro con il torso nudo e sudato del climber non deve esserlo stato per il povero rettile. Per il topolino, il volo aveva rappresentato, invece, la vita, la salvezza…
A volte ci vuole fantasia, in questi casi la realtà l’aveva di gran lunga superata.
Quando cade un seracco? È una domanda da esame per istruttore di alpinismo. Una di quelle risposte che si imparano a memoria. Pare che il momento del distacco non sia direttamente ricollegabile ad uno specifico orario o ad una specifica condizione. Il momento non è quindi prevedibile. Nel caso della Marmolada non si tratterebbe nemmeno di un seracco, piuttosto del collasso di parte del ghiacciaio. Cos’è accaduto? Pare che le elevate temperature avessero favorito la fusione di notevoli quantità di ghiaccio e neve che, trasformatesi in acqua, avevano formato una sorta di cisterna inglobata nel ghiacciaio e che, a un certo punto, aveva sfondato le pareti portando a valle neve, ghiaccio, pietre e detriti.
Quanta sfortuna ci vuole ad essere lì quando accade un evento così raro e imprevedibile? A volte ci vuole sfortuna.
Inizio a ripensare ad alcune cose accadutemi…
Ripenso ai giorni di fine agosto 2008.
Sceso a Chamonix dopo avere salito il Monte Bianco lungo la normale francese, accendo il telefono e trovo alcuni messaggi che, con un po’ d’ansia, mi chiedono se va tutto bene. Niente whatsapp, niente internet, niente connessione costante totale, i social, pochi, si usavano solo dal pc, così come i portali di informazione, e si compravano ancora i quotidiani. C’era il roaming a pagamento, dall’estero non si chiamava, al massimo qualche scarno sms (short message service). Immagino qualche lettore su Wikipedia a cercare di cosa si tratta… Sembra una vita fa, era ieri. Ripenso a quella sera, quando quasi contemporaneamente ai messaggi, seduto a un bar di Les Houches, vedo un servizio televisivo che parla di un incidente sul Monte Bianco. Con sorpresa, scopro allora che mentre noi salivamo alla cima, lungo la via dei Tre Monti, il crollo di un seracco provocava la morte di otto appassionati di montagna che venivano trascinati dalla massa nevosa nei crepacci. Un’eventualità che non conoscevo ancora e che non avevo ancora preso in considerazione. La cosa che più mi colpì era che le vittime avevano l’ARTVA (al tempo si chiamava ancora ARVA) e da fuori i crepacci i segnali venivano captati nonostante per loro non ci fosse più alcuna speranza.
La via dei Tre Monti (Tacul – Maudit – Bianco) è famosa per essere soggetta al pericolo di caduta seracchi, un incidente simile si sarebbe riproposto nel 2012. In questo caso non saprei dire se ci vuol fortuna a passare di là quando il seracco non si stacca o viceversa sfortuna a farlo nel momento in cui si stacca.
Nel nostro caso non avevamo preso in considerazione la via dei Tre Monti, ci eravamo fatti bastare la roulette russa del passaggio del Grand Couloir andata e ritorno. Il Grand Couloir è un passaggio obbligato che si fa salendo lungo la normale francese al Monte Bianco, tra il refuge de la Tête Rousse e il refuge du Goûter. È famoso per le scariche ininterrotte e imprevedibili di sassi e il gran numero di incidenti, anche mortali. Ricordo quando lo percorremmo: eravamo rimasti riparati dietro a un roccione, poi via! Uno alla volta, di corsa, a testa bassa e perdifiato, nel momento che ci era parso più opportuno. Altre cose indimenticabili di quell’avventura, la mia prima volta su una montagna di quattromila metri, sono gli scarponi usati per andare in cima, ricordo di un amico che me li aveva prestati prima di finire male nella Gola Nord-est dello Jôf Fuart, e quel personaggio fuori da ogni logica che inspiegabilmente percorreva il Couloir senza casco e con la flemma di una passeggiata serale in un viale pedonale dopo avere passato la giornata a prendere il sole in una delle tante località balneari della riviera adriatica.
A volte ci vuole convinzione e, come si dice,… la fortuna aiuta gli audaci!
Nella stessa occasione, tornando dalla cima del Bianco, nei pressi del Dôme du Goûter, incontrammo due persone dalla fisionomia medio orientale, slegati, occhiali da sole, ramponi e con una piccozza da cascata nuovi di zecca ciascuno, vagavano per il ghiacciaio, apparentemente senza una meta precisa. Dove andavano? Ce lo chiedemmo spesso, in quel momento e lungo la discesa. Ce lo chiediamo ogni volta che ne riparliamo.
A volte ci vogliono stile, attrezzatura e soldi!
C’è poi il curioso caso del 2013, quando mi fermo a Resiutta tonando da un’arrampicata. Lo scopo? Il “must have” di tutti gli appassionati di montagna che passano di là. Pollo, patate e birra, ma in “Quel Locale”, non negli altri cinque adiacenti. Perché? boh… mistero della fede… La birra a volte è acida, altre volte al posto del pollo si ordinano i famosi calamari “del Fella”, ma va bene così, le tradizioni sono tradizioni. I dogmi non prevedono domande. La giornata è molto calda, sono di ritorno dopo avere salito Varuna in Torre Clampil. Incontro un amico che era a camminare. Avevano salito il canale della Huda palica, in discesa erano stati sfiorati da un “frigorifero di ghiaccio” che si era staccato sopra alle loro teste e che scendeva lungo il canalone come un bob lungo una pista ghiacciata. Se ne erano accorti prevalentemente dallo spostamento d’aria che li aveva interessati al suo passaggio.
A volte ci vuole fede, altre un sacrificio (il pollo) per ringraziare le divinità di averci protetti e fatti tornare incolumi.
Mi viene in mente l’estate del 2017, quando alla base dell’ultimo risalto per salire sulla Pointe Lachenal, apparentemente in un luogo sicuro, fui portato all’ordine da una guida che passava di là e mi fece notare come fermarmi dov’ero fosse cosa poco intelligente, visti gli incombenti seracchi.
A volte, come in questo caso, è bastata la fortuna, ma da allora ripenso spesso a quelle parole e a come nel caso della guida… quella volta gli era bastata una parola per farmi rimettere lo zaino in spalla e ripartire verso valle.
Sarà che sono solito guardare indietro, piuttosto che avanti, mi viene infine in mente una persona incontrata alla base della parete sud della Creta di Aip. Eravamo saliti lungo una via sportiva, avevamo arrampicato male, gli zaini erano troppo pesanti, avevamo patito il caldo. Tornando al Passo Cason di Lanza avevamo incrociato un signore sulla sessantina, fisico asciutto, pantaloni aderenti e camicia a quadri. Ci voltammo che ormai era sparito dietro qualche anfratto. Per noi era e rimarrà lo spirito di Ernesto Lomasti che vagava per le sue Alpi Carniche.
A volte basterebbe un berretto per ripararsi ed evitare i danni del sole cocente e della disidratazione!
Ritorno alla Marmolada e ripenso anche alle parole di alcuni amici, scialpinisti esperti, che commentavano come la Marmolada fosse spesso sciata dopo nevicate abbondanti con minore timore reverenziale rispetto ad altre cime. Al riguardo ripenso a chi diceva che fortunatamente per ora non era successo, ma nel momento in cui si sarebbe staccata una valanga sarebbe stato grave perché in certi momenti dell’anno, dopo una nevicata, “sono tutti la”.
In questo caso non saprei se parlare di fortuna o sfortuna.
Il ghiacciaio aveva “deciso” di crollare una domenica di bel tempo, in un periodo in cui la gente può permettersi qualche giorno di ferie, ad un orario che potrebbe essere quello tipico di una discesa o poco più. Tenendo conto della chiusura della bidonvia e della valanga che ha distrutto il rifugio Pian dei Fiacconi, su quella linea, a quell’ora, avrei potuto esserci pure io.
Che sia il frequentatore della montagna o il ghiacciaio che crolla, a volte ci vuole (macabro) tempismo.
Lunedì 4 luglio
Attorno alle otto del mattino, entrando presso la sede dove lavoro, un palazzo a specchi di 6 piani dove lavorano circa 600 persone, ospiti e utenti esclusi, i miei pensieri sono improvvisamente interrotti da un rumore sordo. Un vaso di terracotta con una pianta è caduto dal primo piano nei pressi dell’ingresso. Si potrebbero tenere vasi ai balconi? No, ma non è questo il punto. Come ha fatto a cadere, se le finestre non hanno il davanzale esterno? Si potrebbero aprire le finestre? Un tempo era vietato, ora fortunatamente forse no. Quant’è la probabilità di essere colpiti in testa da un vaso, passeggiando? È maggiore o minore di quella di essere letteralmente lapidati da quella massa imprevedibile di ghiaccio e neve che si avvicina in veloce movimento? Ci si potrebbe riflettere una vita, senza avere risposta. Volendo fare statistica, da quella porta ci passo almeno quattro volte al giorno, tenendo conto della pausa pranzo, a volte sei, tenendo conto della pausa caffè previa timbratura, altre ancora, otto, se esco per controlli presso qualche ditta.
Considerando che lavoro circa trecento giorni l’anno e che lavoro qui da quasi quindici anni, i numeri si fanno importanti… Mai avrei pensato di avere la possibilità di essere colpito in testa da un vaso… non ne avevo mai percepito il pericolo o mi ero posto il problema di accettare quel rischio. Dei rimanenti sessantacinque giorni non credo di passarne la metà in montagna. A volte in quei giorni passo sotto a dei seracchi, cerco di rimanerci il minore tempo possibile, è un rischio che non amo e che mi assumo, lo faccio perché a volte mi piace scegliere il bello, seguire le mie passioni. Il lavoro mi dà da mangiare, la montagna mi aiuta a vivere meglio. Andare in montagna comporta accettare dei rischi che possono essere ridotti con una corretta pianificazione, mai annullati. Andare in montagnam, nel mio caso, è cosa che sfortunatamente posso fare solo pochi giorni l’anno, ci vado per scelta, apparentemente perché ne sento un bisogno difficile da spiegare e fare comprendere. Il bisogno di riempire la pancia, riscaldarsi, avere tetto sotto cui stare e un letto su cui dormire sono, invece, una necessità riconosciuta, così come diversamente viene vista la sfortunata circostanza di rimanere vittima del proprio lavoro piuttosto che inseguendo il bello.
Ripenso ora una riunione sulla sicurezza della scorsa settimana: si parlava di cosa fare in caso di terremoto. Un collega di Moggio Udinese riportava il caso del suo paese, dove i morti a seguito di una scossa di terremoto non erano stati seppelliti dal crollo di una casa, bensì colpiti in testa da cornicioni o tegole staccatesi dai tetti mentre la terra tremava e loro uscivano frettolosamente cercando riparo… Quelle case non sono crollate, non durante quella scossa, almeno.
A volte ci vuole… immagino che il terremoto risvegli istinti atavici ,dove la volontà possa fare ben poco.
Chiudo qui l’articolo, inventandone di sana pianta un finale verosimile: chiudo perché devo andare a comprare un rimedio per l’acidità di stomaco prima che la farmacia chiuda. È strano, ma quel farmaco per trecento giorni l’anno mi è quasi indispensabile. Per altri sessantacinque no. Vallo a spiegare a chi mi chiede perché devo andare a rischiare la vita andando a passare le domeniche per monti quando potrei serenamente andare a lavorare e starmene a casa nei fine settimana…
Sui pacchetti di sigarette c’è scritto “provoca il cancro”. Ora io, alla fine di questo pezzo, dovrei trovare le parole giuste per spiegare a una persona cara che ha fumato tutta la vita che la malattia che ha non è quella che “statisticamente” le avevano promesso, è un’altra, non meno grave o meno debilitante. Sempre a patto che l’una o l’altra faccia differenza.
A volte ci vuole un po’ di spirito, cosa che al momento faccio fatica ad avere.
Storie di incidenti
In A volte ci vuole… raccontavo episodi vissuti in prima persona alternandoli all’incidente accaduto in Marmolada nel 2022. Nel 2019 e nel 2020, con la mia compagna fummo due volte testimoni di incidenti mortali. Uno di questi due episodi fu raccontato su Alpinismo Goriziano in un pezzo intitolato Padri e volpi che qui riporto. L’incidente di cui eravamo stati testimoni era stato motivo di riflessione su vita, morte, libertà di scegliere e molte altre cose. Riporto qui il pezzo lievemente modificato.
Padri e volpi
Entro all’Oriondé, siamo sotto la Grande Becca, rimasta sempre avvolta dalle nuvole, domani saliremo al rifugio Carrel, poi il tentativo di cima. Ho molte perplessità, meteo, allenamento, affiatamento del gruppo. Tolgo il macigno con spallacci che ho al posto dello zaino, entro e la scorgo, prima in sala da pranzo, poi dietro al banco. La volpe, animale schivo, qui è raffigurato su due parteti. Ultimamente le volpi spuntano fuori ovunque, per strada, sui libri che sfoglio, oppure sulla tela di un quadro come adesso. Mi interrogo sul significato di essere “padri”, in questo caso in senso figurato. Ogni anno ai corsi passano persone, alcune passano e basta, altre a loro modo ti lasciano qualcosa, altre rimangono. Per alcune diventi una persona con cui confrontarti prima o dopo una loro salita, in certi casi aspetti quella telefonata o quel messaggio a fine giornata, per sapere che è andato tutto bene. Non potrai sostituirti a loro, potrai fare il tifo per loro, sperando che vada sempre tutto per il verso giusto. Gli vorresti bene, anche nel momento in cui dicessero di detestarti oppure quando, provando a essere indipendenti, direbbero che tu non conti nulla. Questi “figli”, potrebbero insultarti, farti a pezzi, che tu continueresti sorridente a guardarli e volere loro bene. D’altra parte a loro capita lo stesso, sentendo voci e consigli che a loro arrivano anche quando non ci siamo, quando non vogliono ascoltare o fanno finta di non aver sentito. Va così, prima lo vivi da una parte, poi dall’altra, un’esperienza che ti rende prima di tutto umano e rende la vita una magnifica ruota che gira e ogni giorno ti sorprende.
A tutte le volpi alpine!
A me ascoltare Carmina Burana fa venire in mente un film di Dario Argento – forse Suspiria? – al tempo in cui i film di questo filone erano rari.
Mi riprometto di ascoltare anche la versione proposta da Fabio, magari durante il giorno per non alimentare sonni inquieti.
Invece confesso che la lettura dell’articolo mi ha lasciato un po’ di confusione addosso.
Visto che “Joe Condor” ha tirato in ballo i Carmina Burana, raccolgo il guanto di sfida e mi lancio nel mio consueto pistolotto fuori tema, approfittando della pazienza di Alessandro.
… … …
I Carmina Burana rappresentano un mirabile connubio di testo e musica.
IL TESTO
I Carmina Burana sono un insieme di testi poetici medioevali (XI e XII secolo), scritti prevalentemente in latino. Si trovano in un manoscritto del XIII secolo, proveniente dal convento di Benediktbeuern in Baviera e ora custodito in una biblioteca a Monaco di Baviera. Scoperti nel 1803, sono costituiti da 228 componimenti poetici su 112 fogli di pergamena decorati con otto miniature.
Il termine Carmina Burana fu coniato dallo studioso Johann Andreas Schmeller nel 1847, quando per la prima volta fu pubblicato il manoscritto.
Dell’opera interessa qui la parte che prende titolo dalle due parole iniziali, O fortuna.
LA MUSICA
I Carmina Burana furono musicati dal tedesco Carl Orff nel 1935/36 ed eseguiti per la prima volta a Francoforte nel 1937. All’epoca la Germania si stava preparando per scatenare l’inferno. Che sia un caso oppure no, quella musica descrive perfettamente l’atmosfera angosciante degli anni Trenta in Europa. Chissà, forse Orff ne trasse addirittura ispirazione.
Se cosí fosse, si tratterebbe dell’unico caso in cui il Genio del Male nazista contribuí, seppure involontariamente, a creare un capolavoro destinato a durare almeno per mille anni, a differenza del suo Reich, il quale invece giace disprezzato tra le vergogne della storia dell’umanità.
Fonti:
https://it.wikipedia.org/wiki/Carmina_Burana
https://it.wikipedia.org/wiki/Carmina_Burana_(Orff)
https://it.wikipedia.org/wiki/Carl_Orff
P.S. Scusate il pistolotto, ma quando si presenta l’occasione di esternare un sano pessimismo e di svergognare qualche dittatura, io non mi tiro certo indietro.
Iniziare la giornata con l’ascolto di O fortuna non è una buona idea. Chi soffre di pessimismo esistenziale potrebbe essere indotto a un onorevole suicidio.
Comunque, magari dopo una rassicurante colazione a base di canoli alla crema e un paio di salutari caffè, godetevi anche quest’altra versione con testo in latino. Chi sa apprezzare la cruda concisione di quella lingua ne rimane agghiacciato.
https://www.youtube.com/watch?v=nG-fya3vutQ&pp=ygUYY2FybWluYSBidXJhbmEgbyBmb3J0dW5h