L’alpinista russo Alexey Bolotov moriva il 15 maggio 2013, mentre con il compagno Denis Urubko stava iniziando una nuova via in stile alpino sul versante sud-ovest dell’Everest.
Alexey Bolotov era considerato uno dei più forti himalayisti della sua generazione. Aveva partecipato all’apertura di alcune incredibili nuove vie, come la direttissima della parete nord dello Jannu nel 2004 e la bella linea sulla parete ovest del Makalu nel 1997.
L’incidente è avvenuto a circa 5600 m di quota, appena sopra la cascata di ghiaccio del Khumbu.
Alexey Bolotov
a cura della Redazione di culturademontania.org.ar
(pubblicato su culturademontania.org.ar il 15 maggio 2013)
Una nuova tragedia ha colpito l’Everest. Il campo base più affollato del pianeta è stato nuovamente scosso dalla morte di uno dei più grandi, Alexey Bolotov. Al momento sono disponibili pochi dettagli, ma sembra che il problema sia legato alla rottura di una corda fissa. Questo incidente segna la fine della più ambiziosa e interessante spedizione pre-monsonica sull’Everest, con la quale Bolotov, in cordata con Denis Urubko, intendeva aprire una nuova via in stile alpino sul versante sud-occidentale della montagna più alta del pianeta. Il kazako, invece, sembra essere sano e salvo.

La notizia è stata pubblicata dal sito russo mountain.ru e da quello italiano montagna.tv, citando fonti dell’agenzia Cho Oyu Trekking, uno degli operatori più esperti nell’organizzazione di spedizioni e viaggi sull’Himalaya. Il portavoce dell’agenzia Beni Maiya Hyoju ha confermato l’incidente e la morte di Alexey Bolotov.
Abbiamo parlato con la giornalista russa Anna Piunova, direttrice del sito web russo mountain.ru, per scoprire maggiori dettagli sull’incidente. Ecco cosa ci ha detto: “È stata una notizia molto triste, perché era un mio caro amico. Denis [Urubko] mi ha chiamato molto sconvolto stamattina. Avevano iniziato la scalata molto presto. Pensavano che la salita avrebbe richiesto sei giorni e la discesa due. L’incidente è avvenuto a circa 5600 metri. Alexey Bolotov ha usato una vecchia corda fissa. Questa si è rotta ed è caduto per circa 300 metri in un canalone roccioso. Il suo corpo verrà evacuato domani”.
Denis Urubko e Alexey Bolotov avevano già completato il periodo di acclimatamento in preparazione dell’attacco finale al loro ambizioso obiettivo. Un periodo di acclimatamento punteggiato da quello scontro verbale con un gruppo di sherpa che aveva portato al ritiro di Ueli Steck e Simone Moro, con i quali il kazako e il russo condividevano amicizia e grandi obiettivi. Ertano stati, infatti, proprio loro due ad allestire la tenda del C3 che lo svizzero e l’italiano stavano approvvigionando il giorno in cui scoppiò la polemica.
Avevano completato l’ultimo periodo del loro acclimatamento in valle, nel villaggio di Dingpoche, dove sentivano che il loro fisico si sarebbe ripreso meglio dallo sforzo e dalla stanchezza derivanti dalle due notti trascorse a 8000 metri. Secondo l’ultimo post sul blog di Denis Urubko, i due avevano già pianificato di lanciare l’attacco lungo la nuova via: “Se tutto va bene, la mattina presto del 15 maggio, Bolotov e io lasceremo il campo base alla luce delle nostre lampade frontali“.
Appena sopra la cascata di ghiaccio
A quanto pare, i due scalatori hanno portato a termine i loro piani e hanno lasciato il campo base di buon mattino, alla volta del loro obiettivo. “L’incidente è confermato, così come la morte di Bolotov, anche se si sa ancora poco su cosa sia successo“, ha dichiarato Beni Maiya Hyoju a montagna.tv, aggiungendo che “è accaduto a circa 5600 metri di quota, appena sopra l’Icefall. Forse a causa della caduta in un crepaccio”.
Infatti, poco dopo, mountain.ru ha pubblicato un laconico messaggio di Denis Urubko, che non aveva subito la stessa sorte del compagno di scalata e che ora era sano e salvo nella sua tenda al campo base: “Non so come scriverlo. Il 15 maggio 2013, alle 5 del mattino, Alexey Bolotov stava calandosi su una corda fissa. Un affilato affioramento roccioso ha reciso la corda e Bolotov è precipitato in un burrone disseminato di massi, profondo circa 300 metri. La sua morte è stata istantanea. Condoglianze alla sua famiglia, agli amici e a tutti coloro che lo conoscevano“.

“Non andiamo lassù in cerca del successo, andiamo perché è ciò che ci dà la vita”
“Noi russi abbiamo molte tradizioni ereditate dall’esercito. La Russia è un paese che ha preso parte a tante guerre, quindi è normale che ne siano rimaste alcune vestigia. Fin dalla nascita abbiamo ricevuto un’educazione collettivista attraverso il comunismo. Abbiamo sempre fatto tutto insieme; andavamo insieme all’asilo, poi a scuola, poi al lavoro… sempre insieme, come collettivo. Ecco perché non ci siamo comportati da eroi quando abbiamo aiutato Iñaki: lo abbiamo fatto perché ci sentivamo una squadra. E la cosa importante, alla fine, sono le persone. Le montagne di per sé non significano nulla, sono solo pietre e ghiaccio. È l’essere umano che dà loro vita affrontandole e parlandone; vivendole, dai loro consistenza. Non potrei dire che l’alpinismo in sé sia uno sport, perché qui non ce ne sono di migliori o peggiori. Queste non sono le Olimpiadi in cui sei tre secondi più veloce o due centimetri più alto. La cosa importante è che tutti siano consapevoli dei limiti del proprio corpo. Inoltre, la fama raggiunta grazie allo sport non significa nulla per l’alpinista. Per l’alpinista non esiste quella cosa chiamata “gloria”. Questo non è calcio o tennis. Non dà soldi. Ecco perché non andiamo lassù in cerca del successo, ma perché è ciò che ci dà la vita (Alexey Bolotov, Pura Vida, www.puravidatheridge.com)”.

1963-2013 Alexey Bolotov, un eroe silenzioso
a cura della Redazione di culturademontania.org.ar
(pubblicato su culturademontania.org.ar il 16 maggio 2013)
L’alpinista russo morto sull’Everest sarà ricordato come uno degli eroi del tentativo di salvataggio di Iñaki Ochoa de Olza. Ha anche un curriculum alpinistico impressionante, con due Piolet d’Or e leggendarie scalate del Makalu, dello Jannu, del K2 e dell’Annapurna.
Di certo la distribuzione della vita e della morte sulle grandi montagne non è mai equa. In un momento in cui si critica il sovraffollamento di vette come l’Everest, il destino ha deciso di prendersi uno dei migliori. Alexey Bolotov non era solo uno dei migliori alpinisti, ma aveva anche dimostrato un carattere speciale come persona: discreto e poco incline alle eccentricità, non aveva esitato a tentare il salvataggio di Iñaki Ochoa de Olza, quando questi lottava tra la vita e la morte sull’Annapurna, nonostante mostrasse egli stesso segni di edema e soffrisse per lo sfinimento derivatogli dall’aver raggiunto la vetta per la difficile via della cresta est.
Bolotov, nato il 20 gennaio 1963 a Dvurechensk, negli Urali, sarà ricordato per sempre nel nostro Paese per la sua partecipazione al salvataggio di Iñaki Ochoa de Olza. Infatti, era uno dei compagni di squadra del navarrese insieme a Horia Colibasanu. Quando Iñaki cominciò a sentirsi male, il rumeno scese con lui mentre Bolotov continuò da solo verso la vetta.

Dopo aver raggiunto la vetta, iniziò la discesa, affetto da un edema polmonare che lo costrinse a scendere oltre il punto in cui si trovavano Iñaki e Horia. Al C3 fu protagonista di uno dei piccoli grandi momenti di quelle giornate, quando consegnò i suoi scarponi a Ueli Steck, arrivato lì insieme a Simon Anthamatten ma senza la sua attrezzatura d’alta quota. Fu una grande coincidenza: Ueli e Alexey avevano la stessa misura di scarpe. E così Ueli, che stava scalando con gli scarponi da trekking, ha potuto cambiarli con gli scarponi da alta montagna di Alexey e continuare la salita verso Iñaki.
Ma la sua impresa non finì lì. Infatti è sceso a quota 6100 m del C2, dove ha atteso l’imminente arrivo di Denis Urubko e Don Bowie, carico di ossigeno, medicine, cibo e gas, per poi riprendere il cammino verso l’alto senza preoccuparsi della propria salute. Insieme avevano raggiunto il Campo 3, ma Iñaki si era spento prima di poter essere raggiunto.

Il curriculum alpinistico di Alexey Bolotov va ben oltre la già impressionante vetta dell’Annapurna, scalata per la cresta est nel 2008. Il suo palmarès comprende due Piolet d’Or, ottenuti grazie a scalate entrate nella storia dell’Himalaya. La prima di queste fu nel 1997, quando divenne noto anche fuori dalla Russia aprendo una nuova via sulla parete ovest del Makalu, nell’ambito di una spedizione guidata da Sergej Efimov. La seconda risale al 2004, quando partecipò all’apertura di una nuova linea russa sulla parete nord dello Jannu 7710 m da parte di una spedizione guidata da Alexander Odintsov.
Anche l’Everest è tra le sue salite, e per ben due volte: la prima volta con l’ossigeno nel 1998, e la seconda senza nel 2002. Ma altre salite sono ancora più preziose, come la prima salita del Middle Lhotse 8413 m nel 2001, quando era la vetta vergine più alta del pianeta. O la vetta del Thalay Sagar 6905 m nell’Himalaya indiano nel 1999. Per non parlare della più recente apertura della parete ovest del K2 nel 2007, nell’ambito di una grande spedizione nazionale russa. La sua esperienza sugli Ottomila comprende anche il Dhaulagiri (2005), il Cho Oyu (2006), il Manaslu (2009), la doppietta GI e GII completata nel 2010 e il Kangchenjunga e il Broad Peak nel 2011.

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Spuntone tagliente come rasoio o corda vecchia corrosa dal tempo che importa … impresso nella mente dell amico resterà vivo , perso in quell istante di difficile impotenza umana nel cambiare le sorti.
Ma non per sempre, consolatorio non vederlo consumato da mali alieni o aperto da bisturi spesso inutili o peggio ancora lentamente ora dopo ora in una casa parcheggio per anziani .
Nel suo ultimo viaggio era almeno per sua scelta dentro al terreno (suo)ideale.
È morto Christian Brenna. Di certo a quanto sembra non in modo estremo.
Un fuoriclasse tanto discreto quanto talentuoso.
Quanti ne facciamo nella vita di tutti i giorni, passandola quasi sempre liscia?
E’ proprio vero. Pensiamo sempre agli incidenti che accadono… Non ci rendiamo mai conto di quelli che, anche fortuitamente, evitiamo e dei quali non ci rendiamo nemmeno conto.
Per sparire basta un errore. Un solo errore. Un solo stupido errore.
Quanti ne facciamo nella vita di tutti i giorni, passandola quasi sempre liscia? Beh, in alpinismo purtroppo non funziona cosí. Si cerca anche il rischio, come il sale nella minestra. Attenzione però a non salare troppo.
Altrimenti kaputt.
Quanto può valere tutta l’esperienza che ai maturato in anni e anni di salite ed imprese anche estreme, quando poi ti capita un incidente perchè ti sei fidato di una vecchia corda fissa?
Si dice che prima o poi tutti facciamo un errore. Bolotov ha fatto un errore, si è fidato. Forse la quota? La stanchezza? La troppa fiducia?