Alla corte di re Tirich
di Salvatore Bragantini
(da L’Espresso, 19 ottobre 2000)
Immaginate una striscia di terra lunga 150 km e larga 50, con 350.000 abitanti, tutta valli e montagne, i cui contatti con il resto del paese sono interrotti, nel lungo inverno, per la chiusura dell0unico valico a 3100 m di quota, che consente le comunicazioni dirette. Siete nel nord-ovest del Pakistan, nel Chitral, regione che prende il nome dalla sua città capoluogo e dal fiume che la percorre. Oltre il confine, a nord, l’Afghanistan (si pronuncia Avhanistàn) col corridoio afghano controllato da Massoud, il Leone del Panshir, che in questo periodo sembra in difficoltà, come tutte le estati quando le vie di comunicazione si aprono. Poi, torna il Generale Inverno, a dare una mano al suo collega ribelle.
La pagina di apertura dell’articolo su L’Espresso
Siamo qui per un’idea di Carlo Alberto Pinelli, regista di documentari, alpinista ed esponente italiano di Mountain Wilderness International, associazione che lotta in tutto il mondo per il mantenimento dell’ambiente naturale in montagna. Questa associazione, insieme al Club Alpino Accademico Italiano, progetta di realizzare, nel 2001, una scuola di formazione per guide in Chitral, che si spera possa essere sostenuta dalla IUCN, l’agenzia dell’ONU per la conservazione dell’ambiente. In tal modo, gli abitanti della zona, anziché limitarsi a portare in spalla per poche rupie pesanti carichi fino ai campi base, dove comincia la parte alpinistica, potranno guidare i clienti stranieri nella salita ad alcune cime della zona. Con l’obiettivo di aumentare anche lo scarso flusso turistico verso questa provincia; l’anno scorso il Chitral è stato visitato solo da 2.500 stranieri, nonostante l’attrattiva della grande spettacolare catena dell’Hindukush, che vanta molte cime comprese fra i 7000 e gli 8000 metri.
I miei compagni sono un “over 50” come me, Paolo Cutolo, col quale arrampico dagli anni Sessanta e Marco Schenone, giovane e fortissimo alpinista genovese, professore di lettere e con “l’hobby di Alessia Marcuzzi”, dato che ne parla sempre. Sono della partita, e ci accompagnano fino ad un certo punto, lo stesso Pinelli e un operatore televisivo con grande esperienza di reportage in giro per il mondo, Enrico Pergolini, che è un bel tipo di romano pacioso e tostissimo.
Il nostro compito è quello di individuare il luogo più adatto per lo svolgimento del corso, che dovrà combinare esercitazioni su roccia e su ghiaccio, e una cima che si presti quale meta su cui indirizzare, almeno all’inizio, l’attività commerciale delle future guide locali.
La nostra prima meta è Shabronz, un villaggio a 2800 metri, sulla costa di una valle inondata da una luce scintillante: qui mi sono trovato a far tutto (leggere, cucinare, fare toletta nel canale d’irrigazione, addirittura dormire) sotto gli sguardi muti e adoranti di una quindicina di ragazzi, incuriositi dalla vita degli stranieri. Un po’ più discosto, gli uomini del villaggio; più lontano ancora le bambine, che è naturalmente vietato fotografare. E la foto più bella è proprio quella che non ho fatto: le bambine di Shabronz che, nei loro stracci colorati, finalmente ardite, corrono dietro la nostra jeep che parte.
Da qui, con un viaggio allucinante di sette ore su strade sterrate, spesso ripidissime o ai limiti dell’impraticabilità, arriviamo a Shagrom, sotto il gigantesco Tirich Mir 7708 m, Re Tirich, che secondo le leggende sarebbe un folletto. E dei folletti sembrano i portatori che da Shagrom ci consentono di arrivare ai 4800 metri di Babu Camp. Sotto il peso di 25 e più chili camminano, nelle loro calzature di fortuna, con passi piccoli e rapidi, aiutando il precario equilibrio con un lungo bastone di legno. Contrariamente alla saggezza convenzionale alpina, vanno veloci e si fermano in continuazione: alla sosta di metà mattina, dopo pochi minuti il tè già borbotta sul fuoco acceso con quei pochi e stentati legnetti che riescono a trovare perfino in mezzo alle morene, sui bordi del ghiacciaio.
Depositati dai folletti, i nostri carichi giacciono in disordine a Babu Camp. Ed è proprio Babu, il nostro accompagnatore, il Sirdar che tanti anni fa individuò questo come il luogo più adatto come campo base per una serie di salite ai 7000 dei dintorni. Guardo Babu che officia il rito del pagamento dei portatori, e osservo con attenzione le facce delle persone: mi rimane impressa l’espressione di soddisfazione di un ragazzo giovanissimo – avrà meno di 20 anni – mentre stringe le nostre 2.200 rupie: sono l’equivalente di 85.000 lire (per 5 giorni), una somma che da queste parti può dare un contributo decisivo al budget mensile di una famiglia.
Poi i nostri folletti ci lasciano soli, dandoci appuntamento per il ritorno dopo 8 giorni; durante i quali mettiamo un campo prima a 5000 metri, poi a 5600 metri su un ghiacciaio alto. Qui concepiamo l’idea, un po’ azzardata, di salire sul Gul Lasht Zom (zom sta per cima e ha probabilmente la stessa radice di sommità), una bella sommità di 6700 metri, senza particolari difficoltà tecniche, che sappiamo essere stata salita, negli anni Sessanta dal grande alpinista austriaco Kurt Diemberger. L’idea è azzardata perché siamo in tre, di cui solo un alpinista “di punta”, ma anche perché per salire oltre i 6000 metri, è necessario un permesso che viene rilasciato a pagamento, e noi non l’abbiamo. Però siamo lì, il tempo è bello, e il Gul Lasht Zom sembra a portata di mano, per cui decidiamo di tentare. Scendiamo allora di nuovo in basso, per riposarci e per portare su abbastanza roba da mangiare. Quando però, carichi di entusiasmo e di chili, risaliamo al campo alto, e poi ci proviamo a traversare l’ampio ghiacciaio che ci separa dagli invitanti pendii che portano alla cima, capiamo che le condizioni non ce lo permetteranno.
Il ghiacciaio infatti è costellato di “penitentes”, micidiali formazioni di neve lavorata dal vento, molto comuni nel Sud America, dove gli hanno trovato questo nome: i nostri penitenti sono talmente fradici che ad ogni passo si affonda nella neve fino alla coscia ed anche oltre. Per di più, nella notte precedente, il tempo, prima bello stabile, ci ha voltato le spalle, e nella notte sono caduti 20 cm di neve. Il che trasforma la nostra progettata salita in una sorta di missione impossibile. Si cammina per mezz’ora e si scopre di aver fatto ben meno di 100 metri dalla tenda. In queste condizioni, prendiamo atto che, con le nostre sole forze e col tempo ancora a disposizione, non possiamo farcela. Bisognerebbe, infatti, battere pista in mezzo alla neve, molle anche di primo mattino, per arrivare dall’altra parte del ghiacciaio, alla base dei pendii ripidi del Gul Lasht Zom, dove probabilmente troveremmo finalmente un terreno più solido. Ma dovremmo essere di più, e piantare un altro campo. Non è andata, e il tempo resta brutto, con freddo e neve.
Il disagio della vita ai campi alti, in queste condizioni, è forte. E il fatto di non essere arrivati in cima colora tutto di mestizia. Così, una sera che il freddo e il cattivo tempo mi costringono, ancora una volta, ad andare a letto alle 20, con solo una minestrina nello stomaco, improvvisamente scoppio a ridere. Mi è venuta una fitta di invidia per i miei colleghi di ufficio che a quest’ora (in Italia sono le 5) stanno prendendo il caffè, e magari hanno anche caldo! Poi, comincia un lungo ritorno: a Shagrom, dove, siamo ospiti del “Mullah” (padre di uno dei nostri giovani portatori). Dopo 15 giorni di neve e sassi alla quota del Monte Bianco, siedo nuovamente su una sedia e penso che è davvero finita.
Paolo Cutolo nel ghiacciaio e ritratto di Ali Khan
Quali sono le cose che più ci han colpito? Anzitutto l’assoluta inesistenza, se si dovesse stare a quel che si vede con i propri occhi, delle donne fra i 15 e i 50 anni: sparite, non le vedi neanche per la strada. Abbiamo pranzato qualche volta, in case private, i cibi cucinati dalle invisibili, ma non abbiamo potuto dir loro grazie.
Poi, il fatto che in Pakistan non esista istruzione obbligatoria, e che nel Chitral la grande maggioranza non mandi a scuola le bambine, per le quali spesso non ci sono nemmeno. Abbiamo notato che il governo, oggi in mano ai militari dopo il colpo di Stato del generale Musharraf, cerca di realizzare un po’ di infrastrutture, nei limiti concessi dal folle livello delle spese militari, pari al 60 per cento delle entrate, al netto di quanto destinato al servizio del debito pubblico. E coloro che ho incontrato, giovani compresi, sembrano approvare nel nome della lotta all’India per il Kashmir, non credo per la paura di rappresaglie.
Durante il viaggio di ritorno, mi domando cosa mi resta di questa avventura. Anzitutto, la conferma che la montagna non la puoi “conquistare”, come si dice a vanvera. Se ti va bene davvero (con la fortuna, col tempo, con lo stato della neve, con la forma fisica, con il materiale) puoi sperare al massimo di passare in punta di piedi, cosa che a noi non è capitata. Poi, c’è stato il contatto con un mondo rurale che, jeep a parte, vive ancora come ai tempi di Gesù. Ripenso al cielo puntuto di stelle sopra il campo alto, agli schianti del ghiacciaio che si trasforma, e al soffio della neve che cade sulla tenda, quando ti domandi come te la caverai domani.
Mi resta l’odore inconfondibile dell’elicriso a 3600 metri, quando hai ancora la neve sugli scarponi, che ti parla, di colpo, di Sardegna; ricordo la farfalla che si aggira in mezzo alla vegetazione stentata a 4800 metri. Come farà la poverina a sbarcare il lunario? Quando varco la soglia del felpato Club Freccia Alata a Roma, con i miei zaini monumentali, leggo una certa sorpresa negli occhi della gentilissima impiegata. Vengo collocato sul volo delle 15.00 per Milano, che però parte solo alle 16.00 perché non si trova l’addetto sotto bordo per il carico del carburante: che sia andato a fare il bagno ad Ostia? In una giornata di luce forte e pulita, sorvolo l’arcipelago toscano. L’aereo ora si abbassa, e dal finestrino vedo il disco bianco del sole che corre, riflesso nell’acqua, sotto le verdi risaie della Lomellina. È di nuovo Italia.
Post Scriptum
di Salvatore Bragantini
Nel pezzo sopra riportato, scritto poco dopo il ritorno dal Chitral, omettevo per ragioni “diplomatiche” una piccola avventura occorsaci negli ultimi giorni al Baba Camp, dove eravamo scesi dopo la rinuncia a proseguire per la vetta. Avevamo un giorno “vuoto”, e io commisi l’errore di proporre a Marco e Paolo di andare a visitare i componenti di una spedizione giapponese, il cui campo base era ad un paio d’ore di cammino dal nostro. Non ricordo quale meta essa avesse, forse il Noshaq, ma ricordo bene che all’arrivo dovemmo constatare di aver fatto fiasco. Noi eravamo lì solo per non oziare un giorno intero in attesa dei portatori per il ritorno, ma i giapponesi erano, da bravi e seri alpinisti, tutti in alto.
Al campo c’erano solo il cuoco e il Liaison Officer. L’effettivo ruolo di questo ufficiale dell’esercito, che aiuta sì ma anche vigila nell’interesse dello Stato ospitante, varia, a seconda delle situazioni di fatto e delle inclinazioni di chi lo svolge, da quello di facilitatore del lavoro della spedizione, a quello del nullafacente, fino a quello di chi pone solo ostacoli alla spedizione: sempre e giustamente attento, a volte ragionevole, a volte meno.
Escluso il dialogo con il cuoco, che parlava non so se l’urdu o una delle quattro lingue non ufficiali del Chitral, mi parve doverosa una chiacchierata breve, quasi uno scambio di cortesie (almeno nelle mie intenzioni) con il Liaison Officer. Questi tuttavia, forse infastidito dalla forzata inattività, si mostrò subito molto più interessato a noi di quanto ci potessimo augurare. Mi chiese come mi chiamavo e io prudentemente gli detti solo il mio nome di battesimo; mentre Paolo e Marco stavano in disparte, per la limitata padronanza dell’inglese, io mi trovai presto in una situazione che dapprima scomoda, divenne poi imbarazzante, infine via via più preoccupante.
L’ufficiale evidentemente si poneva una (non del tutto infondata…) domanda: cosa mai ci facessero tre europei da soli, senza una spedizione autorizzata alle spalle, da quelle parti. Il suo sospetto iniziale fu che noi stessimo svolgendo qualche attività sospetta in un territorio che, già allora, era ad alto rischio geo-politico; eravamo nella parte nord-occidentale del Pakistan, ad un paio d’ore di cammino da diversi passi, donde si scollina in territorio afghano, sullo strategicamente nevralgico “Corridoio del Wakhan”. Non lontano da lì, un anno dopo, due giorni prima dell’11 settembre, il tranello di due finti intervistatori costò la vita al famoso Massoud, il Leone del Panshir. Con una certa fatica convinsi l’ufficiale che si sbagliava; eravamo lì solo per individuare il terreno giusto in cui far svolgere, l’anno dopo, il corso per guide locali di cui parlo nell’articolo.
L’ufficiale non era nato la sera prima, e considerava inverosimile che fossimo arrivati lì per quel programma, per lui certo insensato; rivolse quindi le sue occhiute mire su un altro bersaglio, questo molto più aderente ai fatti, o per meglio dire ai nostri programmi, che in fatti non erano, purtroppo, riusciti a tramutarsi. Con un tono sempre più inquisitivo, davanti agli sguardi preoccupati dei miei compagni (che pur non capendo il contenuto della conversazione, ben ne percepivano il tono) ci accusò di aver scalato senza permesso una cima oltre i 6000 metri, cosa che, come noi certo dovevamo sapere, richiedeva di ottenere, a pagamento, un permesso dal Governo.
Non ebbi bisogno di far ricorso agli equilibrismi dialettici della teoria gesuitica della riserva mentale per affermare (con quanta convinzione vi lascio immaginare, perché un ineliminabile senso di colpa pur in me restava) che la sua accusa era infondata. Le mie parole, chiaramente, non lo convincevano. Divenne sempre più minaccioso, al punto che mi trovai a domandarmi a quale alto papavero politico italiano avrei potuto cercare di rivolgermi se mi avessero trattenuto con la forza; decisi perciò che la sola cosa da fare era squagliarsela, al più presto.
“Well, we must go now”, dissi, come se fino a quel momento avessimo parlato di cricket, sport molto popolare in Pakistan e in altri ex domini britannici. Mi limitai a un cenno di saluto che voleva apparire distratto, senza dargli la mano, per timore che egli non me la lasciasse più. Dissi a Paolo e Marco di non voltarsi mentre ce ne andavamo, temendo di incoraggiarlo, con questo gesto, a bloccarci. Solo una volta giunti finalmente al riparo dai suoi occhi, riuscii a spiegare loro in quale pasticcio li avevo infilati.
La storia non finì però lì. Dopo qualche mese, Carlo Alberto (Betto) Pinelli ricevette una piccata lettera dal Ministero del Turismo pakistano, nella quale si intimava il pagamento d’un permesso per una non specificata cima oltre i 6000 metri, scalata da una spedizione italiana a lui nota, guidata dal signor Salvatore. L’altrettanto piccata risposta di Pinelli pose fine alla vicenda che, dopo quasi 17 anni, spero sia ormai essere prescritta, anche secondo le temibili norme locali.
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