Alpinismo contro l’orologio

Le Alpi Venete apre il numero di Primavera-Estate 2024 con un omaggio a Reinhold Messner, allora prossimo all’importante traguardo dell’ottantesimo compleanno, riproponendo lo scritto che l’alpinista di Funes inviò nei 1970 alla rivista (fu pubblicato nel numero “Autunno-Natale” dello stesso anno). “Allora ventiseienne, Messner era già divenuto oggetto di culto del mondo alpinistico grazie a una serie di realizzazioni che ebbero dell’incredibile: prima invernale della Nord dell’Agnèr, via diretta alla Sud della Marmolada, prima salita del Pilastro Nord dell’Eiger, il “muro” sul Sass d’la Crusc, prima solitaria del diedro Philipp in Civetta, prima solitaria alla Nord delle Droites… oltre alla ben nota traversata del Nanga Parbat. Sulle sue tracce si mise pure l’attento giornalista torinese Emanuele Cassarà che in lui vide, carne e sangue, l’alpinismo del futuro.
Lo scritto, per certi versi ancora attuale, conferma la capacità d’analisi e lo spirito critico di uno dei pilastri su cui poggia tuttora l’alpinismo moderno (Mirco Gasparetto)”.

Alpinismo contro l’orologio
di Reinhold Messner
Traduzione di Heidi Strasser

Primati.
Cordate lente e veloci.
Tempi di salita.
Nella maggior parte dei casi sono privi d’interesse, spesso sono solo vanterie.
Per l’alpinista medio indifferenti.
Però qui si tratta di un problema fondamentale: la sicurezza.
Questione di vita o di morte.
Sicurezza per mezzo dell’assicurazione, cautela…
Sicurezza a spese del tempo, oppure sicurezza attraverso la velocità?
Non ci siamo posti noi questo problema, esso ci è stato posto dalla montagna con i suoi pericoli. Anche l’uomo, nell’alpinista, nella sua gioia per l’agonismo, ce lo ripropone.
A volte inaspettatamente, quando d’un tratto ci troviamo in una situazione critica.

Illustrazione: gp

*****

Avevamo appena avuto il tempo di rifugiarci in una piccola cavità, e già i primi massi rimbalzavano lungo la parete, in quel punto poco inclinata. Mezz’ora prima aveva incominciato a diluviare. Eravamo completamente inzuppati. Poi cominciò a nevicare. Erano da poco trascorse le 10 ed avevamo già superato i due terzi della parete. Indossammo tutto ciò che avevamo. Ci buttammo sopra le spalle il sacco da bivacco e decidemmo di aspettare. Due ore dopo tutto era passato, solo alcuni sassi cadevano ancora qua e là sulle cenge davanti al nostro ricovero.

Ad occidente c’era un oscuro ammasso di nubi. Poiché il resto della salita si doveva svolgere sullo spigolo arrotondato, abbastanza sicuro dalla caduta di sassi, decidemmo di proseguire. L’acqua veniva giù dai canalini e dalle fessure perché la neve non si era gelata. Giaceva pesante e bagnata sulle cenge, si attaccava alle corde. Rapidamente riprendemmo e tutto andò liscio. Tuttavia la violenta tempesta che si scatenò sulla parete provenendo da nord-ovest rese quasi impossibile l’attesa nei posti di sosta: penetrava nei nostri vestiti inzuppati, ci scagliava sul viso l’acqua gocciolante dagli strapiombi, scuotendoci come il freddo che intirizziva tutto il nostro corpo. Eravamo gelati ed un bivacco ci sarebbe stato impossibile. Già la tempesta aveva avvicinato tutto il banco di nubi. I primi fiocchi di neve incominciavano a cadere. Avanti – pensai – avanti prima che sia troppo tardi. Una seconda bufera si scatenò su di noi. Grandine, neve, tuoni, la montagna tremava. Come forsennati continuammo a salire. Senza chiodi intermedi, sempre avanti. Nessuno parlò più di soste. Sarebbe stata la fine. Giungemmo in vetta prima dell’imbrunire. Questo avvenne durante la prima grande alluvione che colpì l’Italia settentrionale nell’estate del 1965. Gunther, mio fratello, ed io rincasammo con due giorni di ritardo dalla nostra avventura sulla parete nord del Pelmo perché le strade erano interrotte e mancavano i ponti.

Dettaglio della pagina 86 di Orizzonti di ghiaccio, Istituto Geografico DeAgostini, 1983

******
Nulla mi crea maggiore preoccupazione in montagna, quanto la caduta di sassi, di valanghe, o un repentino cambiamento del tempo. Le difficoltà si possono superare, velocemente o lentamente. Oppure si può ripiegare. Però si è indifesi di fronte al manifestarsi del maltempo. Alle volte si può aspettare, ma spesso determinante è solo la velocità ed allora la velocità diventa dovere. D’altronde ognuno arrampica come può, alla sua maniera.

Nell’inverno 1966 dovemmo ritirarci dalla via Bonatti sulla parete nord del Cervino. No, non fummo costretti, preferimmo farlo.

Avevamo proceduto troppo lentamente. Presto il nostro entusiasmo ci abbandonò, nella parete ghiacciata, priva di appigli. Eravamo quasi alla fine della “traversata degli angeli”, la sera del secondo giorno. I chiodi erano contorti e ripiegati. Avevamo calcolato di essere più veloci. Questa non fu la mia prima ritirata, ma fu la più precipitosa. Aspettando, ci consigliammo, ma l’aspettare non servì a nulla. Procedere più velocemente era impossibile. Scendemmo a corde doppie.

*******

Spesso l’arrampicare è un gioco, quando si può interrompere la salita o la si può continuare o ci si può stendere due ore al sole, se il sole c’è. La sensazione di poter agire a seconda del proprio arbitrio rende l’arrampicata un divertimento. Spesso tuttavia questo gioco si trasforma in una situazione estremamente seria, ed allora la speditezza dell’andatura non è più indifferente. Fra le ore più degne di nota che ho trascorso in montagna, sono quelle passate dormendo sotto la parete nord-est dell’Aiguille d’Argentière, il giorno della prima salita.

Eravamo partiti da Chamonix dopo la mezzanotte ed in mattinata vedemmo per la prima volta questa parete. Già i molti sassi all’attacco mi resero diffidente. Nelle ore del nostro avvicinamento in fila indiana alla parete, questa scaricava interrottamente, mentre io procedevo senza pensieri. Ma proprio per questo il pericolo si percepiva meglio, sembrava dipendere più dal caso che da qualche legge. Ci sdraiammo sulle nostre cose, decisi ad aspettare. Dovevo aver dormito un bel po’ di tempo. Quando trattenevo il respiro non sentivo più nulla, nessuna caduta di sassi o di neve. Era il momento adatto. Più che saperlo, lo presentivo.

Partimmo. Superammo la parete, giungemmo al rifugio, senza aver visto cadere nemmeno una pietra.

*******

Pericoli che dipendono da leggi naturali non sono pericoli obbiettivi. Sta all’alpinista riconoscerne la natura e regolarsi di conseguenza. Pericoli estemporanei, però, si possono solo evitare. In questo caso spesso non serve né velocita, né assicurazione: è importante solo la pazienza e la scelta del momento opportuno. In montagna ci sono molte possibilità, aperte a tutti. Ognuno può scegliere a seconda della sua capacità, della sua esperienza. Alpinisti che conoscono la montagna sanno ciò che possono fare, prima di attaccare riflettono più di una volta.

*******

Ogni sasso scatenava un’intera valanga. Dalle rocce sommitali, esposte ora al sole, si staccò un punto nero, rotolò lentamente, attraversò rimbalzando l’oscura superficie ghiacciata, saettò poi come un bolide sulle isole rocciose della metà inferiore della parete. Questa unica pietra provocò il movimento dell’intera parete: rimbombi, schizzi di neve, sibili.

Estate 1968. Eravamo seduti ai piedi della parete che avevamo in progetto di salire il giorno dopo: la parete nord del Gletscherhorn, nell’Oberland Bernese, inverosimilmente ripida, in parte con ghiaccio vivo, alta più di mille metri, finora presumibilmente salita solo sei volte. Verso mezzogiorno incominciava la pioggia di pietre, pertanto dovevamo essere in cima prima di quell’ora, oppure non dovevamo attaccare. Il conto era semplice.

Attaccammo. I primi cento metri procedemmo slegati, perché là, se si cade, non ci si uccide. Poi salimmo da un’isola di roccia ad un’altra. Ciò faceva risparmiare tempo, perché i posti di sosta sono sicuri. Nel crepaccio sotto le rocce della vetta ci fermammo brevemente. Un’ora più tardi eravamo in cima. Il tempo cambiò. Venne la nebbia. Attraversammo la cresta verso la parete nord dell’Ebnefluh e per questa discendemmo. Nelle prime ore del pomeriggio eravamo seduti davanti al rifugio, mentre le scariche di sassi rimbombavano sulla parete nord del Gletscherhorn. Ci sono alpinisti che hanno bivaccato su questa parete e che ci rimproverano la nostra velocità. Sotto la minaccia dei sassi si deve arrampicare con particolare prudenza. Perché? Mi domando. Si può anche arrampicare in modo che non vi sia caduta di sassi.

Dettaglio della pagina 255 di Orizzonti di ghiaccio, Istituto Geografico DeAgostini, 1983

Le cordate lente sono spesso più irresponsabili delle cordate veloci. Quelle lente dicono che il tempo non importa – dieci ore oppure tre, fa lo stesso – determinante è l’assicurazione. Io dico: l’assicurazione da sola non serve a niente. Molti rocciatori si preoccupano per la loro testa e si mettono il casco. Io non mi preoccupo tanto per la mia testa, quanto per tutto il resto e perciò faccio questi tempi. Ci sono delle pareti dove la caduta di sassi è costante ed allora “tutto il resto” è più importante del casco.

********

Spiegherò ora il calcolo relativo alla parete nord del Yerupaja. Si tratta di un calcolo percorso-tempo.

Il Yerupaja è la seconda cima per altezza del Perù, un monte alto, dunque, e che inoltre è difficile. Ho fatto il conto in aereo, da Zurigo a Rio, ed era esatto, benché conoscessi la parete solo dalle fotografie. La parete vera e propria è alta 1300 metri e tocca quota 6634 m. Non occorre menzionare che lassù l’aria è rarefatta. Nella parte destra questa parete era già stata salita da americani, in alcuni giorni. Ora volevamo salirla noi. La cima, rocciosa per un’altezza di 80 metri, è gialla e bianca, un ammasso di pietre.

300 metri più sotto incomincia un canale formato dalla caduta di sassi. Alla sua sinistra la parete di ghiaccio è delimitata da un enorme sperone di roccia. Visto di fronte si innalza un po’ verso destra e termina in cresta a sinistra della vetta. Esso si erge per un’altezza di 1000 metri direttamente sopra la via di salita che avevamo prescelto. Dal pilastro pendono stalattiti di ghiaccio lunghe fino a trenta metri. Di giorno le possibilità di salita di questa parete sono scarse. Solo il cono alto 300 metri che si trova sotto la cresta può essere superato di giorno. Dovevamo raggiungere la sua punta, a quota 6300 circa, prima che i raggi del sole toccassero le rocce sommitali, cioè prima delle ore 6. All’una partimmo con le lampade frontali e con un bagaglio leggero. Dovevamo superare 200 metri di dislivello all’ora. Continuamente confrontavamo il cronometro con l’altimetro. Dopo tre ore dovevamo aver superato 600 metri. Erano di più. Se fossero stati di meno saremmo ritornati per essere fuori dalla parete all’alba.

Alle 6 di mattina eravamo in alto sul cono, dove non c’era caduta di sassi e poche ore dopo sulla cresta della vetta. Alle ore 15, quando il sole aveva già da lungo tempo lasciato la parete, iniziammo la discesa e all’imbrunire arrivammo giù all’attacco.

Altri dicono che tempi simili sono pazzia, io so tuttavia che essi sono la premessa per la sicurezza. Ciò non significa giocare d’azzardo, ma evitare il gioco d’azzardo. Una sicurezza che è difficile da raggiungere.

Cinque pareti diverse, in cinque anni diversi, in cinque zone diverse. Con intenzione ho sottolineato i tempi di salita, che come tali non significano nulla. Ho salito queste pareti così velocemente di proposito, non per essere più veloce degli altri, ma per essere sicuro.

Oggi tutti parlano di assicurazione. E la sicurezza? A cosa servono tutte le assicurazioni se manca la sicurezza personale, se manca l’esperienza? L’assicurazione non deve essere un surrogato per insufficiente capacità. Essa serve per il caso eccezionale, per il caso di emergenza. Nulla da eccepire contro due buoni chiodi al terrazzino ed uno intermedio, che tenga.

Dettaglio della pagina 272 di Orizzonti di ghiaccio, Istituto Geografico DeAgostini, 1983

I chiodi “da paura”, però, per i quali si cercano per delle ore fessure e buchi e che spesso possono servire tutt’al più per legarvi una capra, e le viti da ghiaccio infisse solo a metà, sono contro la sicurezza. In primo luogo costano del tempo ed il tempo è spesso sicurezza; in secondo luogo non sono ancora serviti a nessuno. Conosco anche di quelli che al mattino incominciano bene. I loro posti di assicurazione sono esemplari. Se poi nel pomeriggio inizia la caduta di sassi, il loro procedere si fa rapido. Sperano che non succeda nulla, ma è già successo. L’assicurazione del mattino non è servita a nulla. Invece un paio di gambe ben allenate può sempre essere utile, anche quando la situazione si fa pericolosa, anzi proprio in quel momento. Un buon cuore e dei buoni polmoni sono necessari per attraversare canali che scaricano sassi o per raggiungere il rifugio… e naturalmente molta esperienza, per sapere dove e quando è la tempestività ad essere determinante.

********

Questi gli aspetti della sicurezza. Ma anche a prescindere da ciò, non è giusto che una cordata impieghi tre volte il tempo di un’altra, in condizioni normali. Se una cordata pianta un chiodo in più, non c’è nulla da ridire, ma se in una stessa via di salita i chiodi in più sono cinquanta, allora qualcosa non va. “Il tempo è una questione di onore”, dice Josef Rampold. Si deve prenderlo sul serio, ma con riserva, altrimenti il gioco diventa competizione.

I primati non hanno un ruolo determinante nell’alpinismo. Si può essere più veloci di…, e nei giornali vengono spesso associati tutti gli alpinisti, anche coloro che non conoscono affatto questa parete. In montagna l’agonismo esiste, è sempre esistito, perfino l’agonismo con gli assenti. Una partenza in massa per un determinato itinerario non ci sarà mai. Ma una gara – diciamo una salita – contro l’orologio, esiste già da tempo.

Gli intervalli tra le competizioni non consistono in minuti, ma talvolta in mesi o anni. Io non amo cimentarmi con gli altri, ma ugualmente sono orgoglioso di aver impiegato solo un giorno per salire la parete nord della Furchetta – da a casa, andata e ritorno, a metà inverno. Anche con la via Micheluzzi sul Piz Ciavazes è stato così. Non sostengo che sia impossibile salirla in meno di due ore e mezza, dalla strada alla cima. Sono curioso di vedere chi lo farà.

Il tempo è un’entità obbiettivamente calcolabile, che è sempre soggetta ad aumenti. Esso offre un termine di confronto nell’arrampicare. La spinta è costituita da una parte dal personale incitamento e dall’altra dall’agonismo. Entrambi sono connaturati nell’uomo. È un piacere rendersi conto che il proprio corpo è in condizioni superiori per quanto ha potuto dare.

Essere stati veloci è una gioia. Il pericolo comincia laddove l’agonismo è lo scopo dell’alpinismo. In quel momento l’alpinismo cessa di essere un divertimento. La caccia ai primati corrisponde a una caccia al rischio. Ma per un primato non ne vale la pena. Io preferisco la vita. Nella maggior parte delle mie salite, i tempi non erano programmati in precedenza. Semplicemente li ho realizzati.

********

Quando si parla di tempi e di sicurezza, di agonismo e di rischio, mi ricordo sempre di due jugoslavi, e di ciò che mi hanno rimproverato, non so se a ragione o a torto.

Stane Belak-Šrauf, al suo ritorno a Chamonix, era dell’avviso che io ero in vita solo per un caso. Assieme a Boris Krivic pochi giorni dopo di me aveva risalito la parete nord delle Droites. Nella parte inferiore, raccontò, c’era stata un’infernale caduta di sassi, tanto che nei punti più ripidi non era stato loro possibile fare sicurezza. Il secondo giorno, sulla roccia, la situazione divenne più difficile, ma più sicura. Io volli sapere dove essi si trovavano, quando cominciò la caduta di sassi. Nel mezzo dello “scudo di ghiaccio”, tra le 9 e le 10. E quante ore erano rimasti esposti ad essa? Fino a sera, ed i massi in parte erano enormi. Io ho fatto da solo la parete nord delle Droites. Per lo più senza assicurazione e senza caduta di sassi.

Per superare i 600 metri dello “scudo di ghiaccio” ho impiegato meno di due ore. Effettivamente non è molto, ma erano ore del mattino, nelle quali la caduta di sassi non avrebbe minacciato nemmeno gli jugoslavi. Io avevo osservato la parete e sapevo che alle 8 avrei dovuto essere nella zona di roccia. Lassù, poi, mi sono anche assicurato dov’era necessario. Poco dopo mezzogiorno ero in cima, nel tardo pomeriggio a Chamonix. Un caso fortuito, lo dissero anche i francesi.

Io ritenevo che essi volessero riferirsi alla discesa, oppure ai crepacci, nei quali si può cadere, ma essi pensavano alla velocità e alla caduta di sassi.

Spesso si deve essere veloci per evitare le pietre, anche questo non comprendevano: alcuni continuano ancora a chiedermi perché cerco di porre fine ai miei giorni. Allora io chiedo cos’è peggio, un assassinio o un suicidio, dal momento che tutti riconosciamo il pericolo obbiettivo? Esso esiste, non dobbiamo dimenticarcene. Il caso, il pericolo, questa è l’incognita, che è presente ad onta di ogni capacità. Solamente questo pericolo maschera il caso. Ora io non so chi era più in balia del caso, se gli jugoslavi o io. Lo sapete forse voi?

Alpinismo contro l’orologio ultima modifica: 2024-12-28T05:04:00+01:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

20 pensieri su “Alpinismo contro l’orologio”

  1. A proposito di Montagna vs Orologio ieri ho guardato “sfida per la vetta” (Netflix) con protagonisti il defunto GA Ueli Steck e la GA svizzera Dani Arnold per stabilire i 3 nuovi record di velocità in free solo delle p.nord Eiger,Cervino e Grandes Jorasses.
    Se l’ avete visto cosa ne pensate?
    Lo so che Messner centra nulla o quasi, ma l orologio molto…non so che tipo di messaggio arrivi all enorme ignorante pubblico(che poco conosce) dalla piattaforma, a me a fatto pensa’ che te tocca fa’ per campa’(ed essere celebrità)e anche mori’!

  2. Non credo proprio di conoscere strizzatori di [qualchecosa] su grandi strapiombi a spit ariosi.
    E nemmeno capaci di scrivere…

  3. Grazie Placido, il Nostro è talmente offuscato da non riconoscere nemmeno le evidenze, tipico atteggiamento del medione. In montagna non ci vado, queste cose da boomer le lascio fare a uno come te, io preferisco strizzarle a morte sui grandi strapiombi facendo correre molta aria tra uno spit e l’altro, cose da giovani che tu non puoi ovviamente capire. Lavorare ho sempre lavorato seriamente da quando ho concluso i miei studi universitari, quindi anche qui hai cannato di brutto (come al solito). Infine, non sopravvaluto le mie capacità, verso le quali sono anzi molto critico, ma mi irritano quelli che come te pensano di avere qualcosa da dire; in quanto a infestare il blog infatti tu sei maestro da anni, e se non l’avessi ancora capito: sì, ti conosco benissimo tardello mio, quindi ho un’opinione fondata su di te (giusta o sbagliata che sia). Ci ritroveremo qui dopo le feste, non so ancora dirti di preciso quando, ma l’occasione sarà una di quelle ghiotte. Buon anno a tutti!

  4. Tu invece Sbronzo sei triste e patetico con la tua infondata presunzione di sapere chi sono io, cosa ho fatto nella vita, cosa pensi e quali siano le mie caratteristiche intellettuali.
    Per spingermi un po’ nel tuo campo, giudicando da quello che scrivi, da come lo scrivi, dai nick idioti con cui cerchi di nasconderti infestando il blog, direi che probabilmente non hai mai svolto in vita tua alcun lavoro serio, ma sicuramente ti sopravvaluti in tutti i campi. Anche e sopratutto sopravvaluti le tue capacità in montagna.

  5. Matteo, nel mondo del lavoro non vediamo l’ora che tu te ne vada in pensione – come auspichi altrove-, anche se temiamo che allora tedierai ancor di più il blog con le tue banalità e il tuo pressapochismo da boomer. Il bello è che, al pari della maggioranza dei i tuoi colleghi di categoria antropologica vissuti nell’era del progresso economico, dell’opulenza e del benessere, nemmeno ti rendi conto della tua mediocrità e pensi di essere pure bravo perché la vita ti ha permesso di crederlo. Insulti Espò ma non sei diverso da lui, non perdi occasione di dimostrarcelo a ogni commento.

  6. Matteo vedi in Espò il riflesso di te stesso? Per via di deficit cognitivi te la batti bene con i peggiori frequentatori del blog…

  7. “Expo, lei, nelle sue parole, si rifà spesso al principio per cui ” mia nonna ha quattro denti, la forchetta ha quattro denti: mia nonna è una forchetta”.”
     
    Pierlorenzo, Espò non è certo capace di un ragionamento così complesso e contare fino a quattro lo impegna allo spasimo: poi può solo dormire.

  8. 10# certo Max con studio di incognite,determinate,indeterminate  e impossibili…!

  9. Stupefacente lucidità che viene da una ricerca e competenza infinite. La matematica applicata il resto..

  10. Si rileva una grande differenza tra lo stile narrativo di Messner e quello di Bonatti che più o meno nella stessa epoca aveva già concluso i suoi racconti di scalate e prime ascensioni per dedicarsi ad altro. Lo scalatore alto atesino usa un linguaggio più asciutto, cronache redazionali senza enfasi o ridondanze. I toni sono certamente meno affascinanti e romanzati di quelli usati da Bonatti. Segnale di passaggio generazionale? Nella prima metà del ‘900 spesso il racconto doveva scendere la fantasia a sostituzione delle immagini che a partire dalla seconda metà diventavano sempre più abbondanti fino ad essere in tempo reale, ai giorni nostri. Il racconto diventa quasi telecronaca: inutile perder tempo nel descrivere ciò che si può agevolmente vedere. Forse anche in questo Messner ha portato avanti l’alpinismo di una generazione. Infatti i suoi numerosissimi libri saranno racconti, non avventure. La matrice è identica: come si esce dalle traversie, difficoltà, inconvenienti di ogni tipo. Questo affascina il lettore che comunque conosce la fine della storia. Ma la rappresentazione avviene   in modo totalmente differente. Stile che sarà seguito da tutti gli altri dopo Messner, archiviando definitivamente quello di Bonatti e predecessori.
     
     

  11. Expo, lei, nelle sue parole, si rifà spesso al principio per cui ” mia nonna ha quattro denti, la forchetta ha quattro denti: mia nonna è una forchetta”.
    Animo…

  12. Anche Messner parla di pareti Nord con corredo di frigoriferi e comodini.
    Si vede che il giovine ha poca esperienza.

  13. Oltre alla ragione anche una buona dose di fortuna. Che non guasta nella vita, figuriamoci in alpinismo. Ad esempio, scendendo dal Nanga Parbat per il versante Diamir, la valanga ha preso suo fratello, invece che lui.

  14. Con quello che ha fatto (!) è ancora vivo.
    Ha sempre avuto ragione. Per questo non è simpatico.
    Ma non credo che sia mai stato nei suoi intenti.

  15. Si può anche arrampicare in modo che non vi sia caduta di sassi.

    Oltre che implacabile, direi anche un pò presuntuoso.

  16. Il Messnerone è l’Implacabile.
    Condizione necessaria ma non sufficiente per diventare come lui è instaurare in famiglia un regime di Superpatriarcato.
    In altri tempi lo avrei definito egocentrico, autoritario, maschilista, ma ora va di gran moda la figura del patriarca. 

  17. Piaccia o non piaccia (a me piace) la ragione è dalla parte di Messner.Di fatti, e nonostante tutto, è ancora qui.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.