Baite di piombo

Il 19 dicembre 1979 muore François Fontan, il fondatore del movimento autonomista occitano. Finisce un decennio straordinario per le valli alpine mentre nella metropoli (Torino) si accendono gli ultimi fuochi di una battaglia destinata a esaurirsi di lì a poco sotto i colpi della repressione e di una dolorosa sconfitta politica.
Un episodio minore avvenuto in quei giorni in Valle Varaita tiene insieme questi due scenari apparentemente così lontani, sottrae all’oblio le microstorie dei protagonisti e ci offre un punto di vista anomalo sul rapporto tra montagna e città.
Poi cominciano gli anni Ottanta: il DC9 di Ustica, la strage di Bologna, la Marcia dei Quarantamila a Torino, Reagan, il terremoto in Irpinia.

Baite di piombo
(un racconto degli anni Settanta)
di Lele Odiardo
(pubblicato su Nunatak, n. 71-72, inverno-primavera 2024)

Saluzzo (CN), mercoledì 7 novembre 1979, qualche minuto prima delle 14. Il pullman della Satip che scende dalla Valle Varaita imbocca la circonvallazione prima di giungere al capolinea. Al volante l’inossidabile Jacou, autista di Sampeyre, a bordo un discreto numero di passeggeri. Sul piazzale antistante la stazione ci sono strani movimenti di uomini che non sono certo dei viaggiatori, si mescolano alle molte persone che arrivano e partono. Passa un’Alfetta dei carabinieri.

In città è giorno di mercato. Il sole scioglie la neve ammucchiata ai bordi delle strade dopo la straordinaria nevicata autunnale dei giorni precedenti. «Neve, improvvisamente (e sono subito guai) – titola il giornale locale – La nevicata ci ha immessi in pieno clima invernale. Pochi anni, almeno sotto i 1000 m, la neve e specialmente il freddo, arriva così in anticipo… poteva aspettare ancora un po’. Il primo motivo è la scarsità e il caro prezzo del carburante per riscaldamento… In secondo luogo, l’arrivo anticipato della neve, ha bloccato i lavori della campagna, la raccolta della meliga e la semina… si è interrotta la raccolta delle castagne e anche di tanta frutta di cui erano carichi i meli e i peri, nei prati e sulle colline… I rami si sono spezzati, hanno interrotto la viabilità e, cadendo sui fili delle linee elettriche, ci hanno fatti stare al buio e qualcuno anche al freddo».

Due giovani imbacuccati scendono dal pullman, salutano l’autista che ricambia nervoso, si guardano intorno ed escono dalla stazione. Dall’altro lato della strada qualcuno fa loro un cenno di intesa. Non fanno in tempo ad attraversare che sono circondati da un numero spropositato di agenti di polizia in borghese.

«A Saluzzo c’è un via vai di auto civetta della DIGOS. L’operazione è condotta dalle questure di Cuneo e di Torino. C’è stata una soffiata, questo è certo, non resta che stringere il cerchio. Elena Vento e Claudio Vito salgono sul pullman che passa a Torrette alle 12.30. Ad attenderli a Saluzzo c’è il Vargiu Lorimer con un altro giovane. Quando la corriera entra nel piazzale gli agenti irrompono in scena. È un attimo: la Vento e Claudio sono bloccati, ammanettati. È preso anche Lorimer, che non ha fatto in tempo a rendersi conto della trappola. Riesce invece a svignarsela il quarto. Nella confusione generale, lui che si teneva in disparte, non è stato notato dai poliziotti».

Poliziotti in borghese, muniti di giubbotto antiproiettile, si sono mescolati alla gente in attesa, altri hanno steso una sorta di cordone tutt’attorno alla spianata… La ragazza non ha opposto resistenza, il Vito e il Vargiu, colti di sorpresa, non hanno avuto il tempo di impugnare le pistole (due Walther P38) che avevano addosso, col proiettile in canna e il caricatore pieno, ma i poliziotti hanno dovuto ingaggiare una colluttazione per ridurli all’impotenza… La gente, spaventata, ha creduto per qualche attimo di assistere ad una rapina o ad un clamoroso sequestro».

I tre arrestati sono dunque: Claudio, 23 anni, residente a Genova in via del Campo con la famiglia, “latitante, pregiudicato per reati comuni, politicizzato sembra in carcere a Cuneo” da dove è uscito per fine pena nel marzo 1978. Era stato arrestato dal commissario della DIGOS Antonio Esposito poi ucciso a Genova dalle BR nel maggio dello stesso anno, il suo nome figura su un’agenda sequestrata a un militante dei NAP; Elena, 25 anni, originaria di Roma, residente anche lei a Genova, quartiere Marassi, “di famiglia benestante”; Massimo, 18 anni, residente in Toscana, ricercato per “associazione sovversiva costituita in banda armata” e rapina.

I due ragazzi sono rinchiusi nel carcere saluzzese della Castiglia, lei viene portata nella prigione femminile di via Leutrum a Cuneo.

In contemporanea partono sgommando alcune “pantere” della polizia che risalgono la Valle Varaita a sirene spiegate fino alla frazione Torrette di Casteldelfino, 45 km dalla capitale del Marchesato. «Si fa irruzione nella baita di Torrette, una vecchia casa di proprietà di un operaio FIAT, tale Antonio Pejracchia, sul quale la polizia indaga perché non ha denunciato l’affitto a sconosciuti. Si trovano armi…», precisa la distinta riportata da L’Unità con tanto di foto accanto al titolo dell’articolo: «una pistola Luger calibro 7,65, una pistola Astra calibro 9 con silenziatore, un’altra Astra calibro 38 special, un fucile mitragliatore Sten perfettamente lubrificato con tre caricatori e parecchie altre munizioni, e ancora materiale per lubrificare le armi, due bombolette di gas paralizzante, una parrucca da donna, moltissimi abiti, un modulo in bianco per la carta d’identità, una mazzetta di banconote da 500 per 80 mila lire, documenti definiti ideologici». I documenti cosiddetti ideologici sarebbero fotografie scattate a Genova e nei dintorni di Firenze. Una radio mangiacassette, sul gas una pentola di minestra lasciata a raffreddare.

Nel piccolissimo centro abitato vivono poche anime, qualcuno si era incuriosito per quei due forestieri rimasti lassù anche dopo l’estate, quando la maggior parte delle case è vuota e i turisti e gli emigrati ormai se ne sono andati via.

Il suono delle sirene attira l’attenzione di chi a quell’ora è in casa o nella stalla, i bambini vorrebbero andare a vedere che succede all’estremità della borgata, intorno a quel vecchio edificio di pietra e legno ristrutturato da poco.

Sul primo canale della RAI sta per iniziare la puntata odierna di Remi, il cartone animato strappalacrime che inchioda tutti davanti allo schermo in questi giorni d’inverno precoce. I camini di Torrette fumano, luci deboli trapelano dalle piccole finestre delle abitazioni, nella baita messa sotto sequestro calano il buio e il gelo della notte.

«Un covo di terroristi in una baita nel cuneese. Si sospettano collegamenti con le Brigate Rosse e con Prima Linea» titolano i giornali del giorno dopo esagerando un po’.

Estate 1979
A luglio esce la Guida della Val Varaita a cura di Sergio Ottonelli per conto del Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos. Ottonelli può essere considerato uno dei padri dell’occitanismo nelle valli cuneesi e torinesi e la sua guida è un esempio insuperato di ricerca rigorosa e critica, e allo stesso tempo fotografia della realtà di una valle alpina in un periodo cruciale di passaggio dallo spopolamento alla rinascita. Essa si rivolge ai turisti e agli autoctoni, cui spetta “la difesa del territorio e del suo patrimonio ambientale e culturale”, contro la speculazione edilizia e la “colonizzazione delle terre migliori”. Un guida che può essere definita militante, anzi, di “documentazione” e “denuncia” come si legge nell’introduzione. La pubblicazione, al costo di 6.000 lire, avrà una diffusione enorme e contribuirà a dare una immagine nuova della Valle Varaita.

Casteldelfino (474 abitanti nel 1979), insieme a Frassino, Rore di Sampeyre e Bellino, è uno dei centri nevralgici di questa rinascita che si manifesta con un acceso dibattito politico che mette in discussione il dominio democristiano e i poteri forti locali, con una vivacità culturale legata soprattutto alla musica tradizionale, con la creazione di attività economiche in forma cooperativa da contrapporre allo sfruttamento capitalistico.

Intorno a Casteldelfino, antica capitale della Ciastelado nei secoli dell’autonomia brianzonese, gravitano numerose borgate; tra queste la principale è proprio Torrette, la più a valle di tutte, verso Sampeyre. Così descritta nella guida: «Importante centro agricolo, La Tureto si è modellata sulle esigenze della vita agricola anziché sulle sollecitazioni dei piccoli traffici dell’alta valle, e queste esigenze ha filtrato attraverso le indicazioni di una primitiva funzione di centro fortificato».

Ousitanio Vivo, il mensile del MAO, pubblica quell’anno un articolo che presenta così lo stato attuale di Torrette: «La Tureto, a 1179 m di quota, fino al 1713 è stata la punta avanzata del Delfinato verso la pianura saluzzese. Ancora oggi conserva tracce delle antiche fortificazioni. Demograficamente è un paese impoverito ma non disgregato dallo spopolamento. La sua popolazione stabile è infatti di 56 abitanti (35 maschi e 21 femmine). Inutile dire che è una popolazione prevalentemente vecchia… Le famiglie rimaste sono 23, cinque famiglie soltanto hanno bambini… La scuola elementare è stata chiusa nel 1969… I giovani rimasti al paese – tra i 18 e i 26 anni – sono quattro (uno solo è pendolare: lavora alla Michelin di Cuneo!). Come altrove, l’emigrazione è stata la principale causa dello spopolamento. Prima della seconda guerra mondiale, i sazunaire [“stagionali” in occitano, NdR] si dirigevano verso la Provenza e Parigi. La grossa emigrazione verso Torino è cominciata nell’immediato dopoguerra… L’agricoltura continua ad essere la principale fonte di reddito. La favoriscono ottime condizioni ambientali e una buona disponibilità di terreni a forte produzione foraggera. Le stesse colture cerealicole riescono a sopravvivere, benché ridotte a poca cosa. La coltura della canapa, così importante in passato, è stata abbandonata verso il 1954/55. Il paese alleva oggi 90 bovini e 140-150 ovini. Ben cinque famiglie salgono ancora, nei mesi estivi, all’alpeggio».

Alla fine degli anni ’70 sono ancora aperte l’Osteria delle Alpi e la Tabaccheria Peyracchia, posto di telefono pubblico. Nel capoluogo c’è una piccola stazione dei carabinieri, la più vicina al confine con la Francia.

Nel mese di agosto, quando la borgata è affollata di emigrati (soprattutto francesi) che tornano per le vacanze e di qualche turista, alcuni giovani riescono a organizzare e dedicare al loro paese uno spettacolo autenticamente popolare e realmente autogestito: canzoni, poesie, indovinelli e giochi. Un grosso successo, tutti a divertirsi, commuoversi e soprattutto interrogarsi. I testi di quella giornata saranno pubblicati, raccolti in una specie di numero unico intitolato La Vus dla Tureto. «Ma rimarrà davvero un numero unico? Speriamo proprio di no. Ai nostri amici chiediamo di continuare, sempre più impegnandosi a collegare il problema del recupero culturale con i problemi della sopravvivenza sociale e economica di un popolo che non vuole morire». Esorta Ousitanio Vivo.

Ma non è finita. Mentre l’estate volge al termine, a Casteldelfino l’associazione culturale Lou Soulestrelh presenta il “microsolco long playing” dal titolo Muziques ousitanes, disco seminale per il recupero delle musiche e danze tradizionali nelle valli eccitane, sui versanti italiano e francese. A eseguire dal vivo le partiture raccolte da Gianpiero Boschero, i musicisti del gruppo provenzale Lou Bachas (Michel Bianco, Jacques Magnani e Patrick Vaillant, giganti del genere), copertina realizzata da Fredo Valla. E mentre a partire dall’alta Val Varaita le courente, i balet e le gighe tornano alla ribalta e contribuiscono alla costruzione di una nuova identità occitana, gli stessi giorni a Saluzzo il concerto di Rino Gaetano viene snobbato dal pubblico della Festa de L’Unità e a Cuneo Alan Sorrenti, all’apice del successo discotecaro, viene contestato per la brevità dell’esibizione in rapporto al prezzo del biglietto, ben 5.000 lire! La polizia carica il pubblico e il povero figlio delle stelle se ne va inviperito e scortato dagli agenti.

A livello più strettamente politico ci sono state le prime elezioni europee (giugno) che hanno segnato un risultato straordinario e inaspettato per il MAO alleato con l’Union Valdotaine: si tratta ora di capire come andare avanti, il dibattito è serrato e si allarga. A Frassino, presso il bar Spada Reale, per due giorni oltre cento persone si riuniscono a convegno per discutere ed elaborare proposte. Una cosa mai vista prima! Si discute di controllo popolare delle risorse energetiche delle vallate, questione operaia (intesa come condizioni di lavoro, chiusura delle piccole fabbriche, pendolarismo ed emigrazione), speculazione edilizia, creazione di consorzi per la gestione dei servizi pubblici, rapporti con le istituzioni e in particolare le Comunità montane. Al termine dei due giorni viene lanciata una petizione popolare per una proposta di legge a tutela delle minoranze etnico-linguistiche e per l’insegnamento della lingua occitana nelle scuole di montagna.

Sembra che tutto debba succedere nelle valli alpine occitane in quest’ultimo scorcio degli anni ’70, c’è grande fermento, partecipazione, l’aria è frizzante mentre in città si alza il livello dello scontro tra lo Stato, da una parte, e i movimenti antagonisti e le formazioni che praticano la lotta armata dall’altra.

Primavera 1979
Dopo l’arresto dei tre giovani a Saluzzo, si scatenano le congetture più fantasiose sulle pagine dei giornali e nelle chiacchiere da bar. Sulla loro appartenenza politica innanzitutto. «Fanno parte di quella nebulosa che è il partito dell’eversione politica, ex nappisti, apprendisti bierre, militanti di Azione Rivoluzionaria: il gioco delle sigle non si è ancora chiarito», la butta lì il Corriere di Saluzzo. Oppure: «Gente che arriva da esperienze di delinquenza comune e che in carcere impara la lezione del terrorismo». La Stampa di Torino rivela che esisterebbero addirittura «legami sfumati con le indagini sui grandi episodi del terrorismo, con figure inquietanti, fino a via Fani, all’affare Moro, a quella che chiamavano la “Colonna Roma Sud” delle Brigate Rosse». Le figure inquietanti! «Sembrano gravitare nell’area dell’Autonomia organizzata piuttosto che far parte di un’organizzazione clandestina». L’Unità si sbilancia: «Potrebbero essere collocati in un’area immediatamente contigua a quella di Prima Linea».

Elena e Claudio si rendono irreperibili nel mese di maggio, qualche ora prima che i carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo del generale Dalla Chiesa facciano irruzione nel villino regolarmente affittato a Quezzi, quartiere di Genova, definito dai giornali il primo covo terroristico scoperto a Genova. Minuzioso il resoconto dell’irruzione da parte del cronista del Secolo XIX: «La piccola camera da letto è piena di libri: dai classici pensieri di Mao Tse Tung alle riviste di agitazione politica. Due particolari interessi: le carceri, sulle quali ci sono decine di volumetti di analisi sociologiche e testimonianze di detenuti; le armi, con un’abbondante letteratura che va dalla teoria dell’esperto balistico all’uso pratico delle pistole e revolver. Diversi libri di ricerca fotografica e molte mappe e cartine di città italiane. Infine una moltitudine di romanzi, soprattutto degli autori arrabbiati americani».

Elena «è nota alla DIGOS per le sue simpatie extraparlamentari», Claudio ritenuto «coinvolto con l’attività dei NAP». I due «sarebbero autori di una recente rapina ai danni della filiale di Poggibonsi della Banca Popolare dell’Etruria e la loro identificazione, attraverso il numero di targa dell’auto, sarebbe stata la prima traccia per giungere al covo». La rapina aveva fruttato un bottino di 21 milioni di lire.

Massimo ha appena 18 anni, è colpito da un mandato di cattura (assieme ad altri) in relazione all’uccisione di un notaio durante un’azione finita male compiuta da alcuni elementi dell’Autonomia di Prato nel 1978. Si dà alla macchia. «La sua presenza viene segnalata in Toscana in almeno due episodi. Nell’aprile scorso l’agenzia del Monte dei Paschi di Siena viene assaltata da due banditi… Il primo giugno scorso una pattuglia dei carabinieri blocca nei pressi della cassa Rurale di Sovicille in provincia di Siena due individui a bordo di una vespa rubata. Vengono condotti in caserma ma durante il tragitto uno dei giovani spara contro i militari… I banditi fuggono con la Vespa che abbandonano poi sulla strada Sovicille-Siena».

Nel mese di luglio sfugge per un soffio alla cattura e si allontana dalla Toscana. L’aria si è fatta pesante, tutti e tre sanno di avere carabinieri e polizia alle calcagna, meglio cercare un posto sicuro. La rete dei compagni e delle compagne ancora regge, nonostante la repressione sempre più feroce in tutta Italia, e li porta verso Torino. Ma non è una buona idea: la città è completamente militarizzata. Arrivano così sulle montagne cuneesi…

“Perché i terroristi hanno scelto la Valle Varaita” si chiedono i giornali, dando credito alle veline della questura e sfogo alle ipotesi più strampalate. «Era in preparazione un assalto al supercarcere di Cuneo, dove sono rinchiusi parecchi terroristi. La voce è corsa insistentemente dopo l’arresto, e qualche fondamento potrebbe averlo, considerato che in Questura non la si smentisce e che la stessa voce circolava ieri negli uffici di direzione della prigione, all’interno della quale, dieci giorni or sono, si è ucciso il postino delle BR Berardi».

«Fra gli inquirenti c’è chi sottolinea come, a 11 chilometri, ci sia la casa montana del giudice Mario Sossi». Rapito a Genova dalle prime Brigate Rosse nel 1974, magistrato, fascista, Sossi possiede una casa a Chianale, in alta valle, dove trascorre lunghi periodi di villeggiatura con la famiglia e una scorta che non passa certo inosservata.

«A Casteldelfino esiste una centrale elettrica e a Pontechianale la corsa del torrente Varaita è sbarrata da una diga che forma un lago di 13 milioni di metri cubi d’acqua. Li chiamano possibili obiettivi e anche su questo lavorano gli uomini dei servizi di sicurezza». Tanto per calcare la mano!

Poco realistica anche l’ipotesi che «la valle è sicura: fino a dieci giorni fa, cioè fino all’ultima nevicata, era possibile sconfinare in Francia, attraverso il Colle dell’Agnello, 2700 metri. La strada, poco battuta e meno sorvegliata, pare l’ideale per chi ha necessità di una uscita di sicurezza».

Nei paesi della valle tutti danno per certa l’appartenenza degli arrestati alle BR, collegando l’episodio alla presenza di Sossi a Chianale, sempre vistosamente scortato. Elena e Claudio si spostano dunque in Valle Varaita nella tarda primavera del ’79, Massimo ha anche altre rotte. La coppia durante l’estate riesce facilmente a confondersi con i villeggianti e i forestieri che affollano la valle, la permanenza è giustificata con la motivazione che lei è alle prese con la tesi di laurea. L’unico mezzo di trasporto pubblico è il pullman, di solito utilizzato da operai pendolari, anziani che scendono nei paesi il giorno di mercato e qualche insegnante delle scuole elementari e medie che ancora ci sono in valle.

Nessuno sospetta niente, neanche in municipio o alla stazione dei carabinieri di Casteldelfino. Quelli di Torrette sanno che la casa è stata affittata a “gente di Torino” senza troppe formalità burocratiche. Nessun problema, fanno tutti così. L’affitto è stato pagato regolarmente.

Epilogo
A fine ottobre una abbondante nevicata anticipa un inverno che sarà particolarmente rigido. In giro per la valle non c’è più anima viva. Il giornale e la spesa frettolosa alla bottega di Torrette che fa anche bar-tabaccheria, un sorriso, buongiorno, buonasera. «Studenti, oppure ecologisti innamorati della pace che le montagne della vallata ispirano in questa stagione di “morta” turistica» dirà poi qualcuno. La “pace” quando nella metropoli infuria una vera e propria guerra, la montagna come luogo dove sentirsi al sicuro e tirare il fiato almeno per un momento, dove concedersi lunghe passeggiate su sentieri sconosciuti.

Ma a un certo punto Elena e Claudio vengono localizzati, forse una segnalazione alla DIGOS, oppure sono individuati durante uno dei frequenti spostamenti in pullman a Saluzzo e da lì altrove. L’operazione comunque parte dalla Questura di Torino.

«Agenti camuffati da montanari e da cacciatori hanno cominciato a sorvegliare la zona nella speranza di risalire ad altre persone». L’attività si fa frenetica: «Spiati giorno per giorno, almeno per un mese: uomini si alternano nei controlli, dall’altra parte della vallata, muniti di potenti binocoli scrutano per ore la vecchia casa a due piani, prendono appunti, segnalano gli spostamenti della coppia». Poi, improvvisa, la decisione di intervenire.

Quel mercoledì, alla fermata di Torrette, non c’è nessun altro che aspetta il pullman che scende da Pontechianale. I due giovani pagano il biglietto, il conducente li ha già visti altre volte. Passa una macchina nella direzione opposta.

Nei pressi di Sampeyre la corriera incrocia lo scuolabus giallo che porta a casa i bambini. I palazzoni della speculazione edilizia incombono minacciosi sulla strada provinciale, un uomo, probabilmente un operaio che va al lavoro, sale, porge il tesserino con l’abbonamento e comincia a chiacchierare in occitano con l’autista, suo compaesano. A un incrocio sull’altro lato della strada c’è un’auto ferma con due uomini a bordo.

«Per tutto il giorno gli agenti si erano appostati in diversi punti per catturare i presunti terroristi… A ogni fermata della valle c’erano poliziotti nascosti pronti a fermarli». E di fermate ce ne sono parecchie prima di arrivare nel fondovalle.

A Piasco sul pullman ci sono ormai tante persone e appare chiaro che è inutile tentare di sganciarsi. La fermata in paese è davanti al cinema: dietro a una macchina già vista con i soliti due uomini a bordo, campeggia la locandina del film in programmazione Napoli. I cinque della squadra speciale, tardo poliziottesco di rara povertà del regista Mario Bianchi. Uno sbirro baffuto (ovviamente!) impugna una grossa pistola a tamburo e ammicca al pubblico di bocca buona. Un timer collegato a tre improbabili candelotti di dinamite promette scene pirotecniche ma, tra una fiacca sequenza e l’altra, il vertice creativo del film è la battuta di una comparsa che se ne esce con un perentorio: «Non si vive più con tutti ‘sti poliziotti tra le palle!».

Locandina di Napoli. I cinque della squadra speciale

Ma qui non siamo in un film… La corsa continua fino al capolinea di Saluzzo, con la pistola nella tasca del giaccone, un desiderio incerto di fuga e tanta rabbia nel cuore.

Nei giorni successivi vengono arrestati a Torino un fratello e una sorella per favoreggiamento in quanto non avevano denunciato alla Questura il nome delle persone alle quali avevano subaffittato la casa di Torrette e una terza ragazza accusata di aver ospitato i tre in un alloggio in via Vanchiglia. Colpito da mandato di cattura, a inizio gennaio si costituisce Giorgio Faraggiana, assistente al Politecnico di Torino, già conosciuto dalle forze dell’ordine per la sua attività politica: si assume la responsabilità di aver consegnato le chiavi della casa. La ragazza di via Vanchiglia e Faraggiana militano nei Nuclei Comunisti Territoriali, formazione autonoma di Torino e cintura, attiva tra luglio 1979 e giugno 1980. Al processo per direttissima che si svolge il 21 dicembre in tribunale a Saluzzo, i tre imputati vengono condannati per detenzione e trasporto di armi e munizioni a pene che vanno da 2 a 4 anni di reclusione. Antonio Pejracchia, che tutti conoscono come Toni La Vallette (dal nome della località francese dove erano emigrati il nonno e il padre) se la cava con qualche rogna e una multa.

Quello stesso giorno in Sardegna vengono liberati Fabrizio de Andrè e Dori Ghezzi dopo un rapimento durato 117 giorni…

Questo articolo è una sorta di puntata “extra” della storia del MAO, scritta da Lele Odiardo e pubblicata su Nunatak nei numeri 59, 62 e 64.

Pubblicazioni consultate
Le citazioni dagli articoli di cronaca sono tratte dagli archivi storici de La Stampa (9 e 10 novembre 1979, 22 dicembre 1979), L’Unità (30 maggio 1979, 13 luglio 1979, 9 novembre 1979), Il Secolo XIX (29 maggio 1979).

Archivio Ousitanio Vivo, novembre 1979.

Aa.Vv., Progetto Memoria, La Mappa Perduta, Sensibili alle foglie, Roma, 1995.

Andrea Casazza, Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse, Derive-Approdi, Roma, 2013.

Ringraziamento
Grazie ad Alberto Gedda per avermi messo a disposizione il suo archivio personale e quello de Il Corriere di Saluzzo.

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Baite di piombo ultima modifica: 2024-12-27T05:37:00+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Baite di piombo”

  1. Francesco <3
    .
    Coglioni uguali , ma sempre gemelli eterozigoti : gli uni sono una categoria del male , gli altri sono solo :”Compagni che sbagliano”.

  2. A quando un analogo resoconto riguardante i gemelli eterozigoti(vedi neofascisti) con la stessa partecipazione emotiva e solidale? Ma occuparsi di altro,No? Francesco

  3. Caro Paolo, queste incursioni nostalgiche nelle pieghe oscure della storia del terrorismo sono discorsi da RSA; per fortuna nella sensibilità dei ribelli di oggi gli animali hanno preso il posto del preso il posto del proletariato: si sa che i piccoli borghesi con tempo da perdere e lacune emotive a qualche causa devono pur dedicarsi.

  4. Nostalgie resistenziali, vagheggiamenti ribellistici alla Robin Hood, lessico da ex sessantottini. Peccato che le BR uccisero Guido Rossa. 
    Patetici

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