Amore per l’imprevisto
Le scuole, i corsi, l’insegnamento rimangono un segmento importante nella formazione dell’alpinista, anche se si sa benissimo che oggi i filmini messi in rete tramite facebook o altri social costituiscono, nel bene e nel male, una forma di apprendimento che è completamente diversa da quella classica del maestro/allievo.
Però si mostra una qualche impresa fenomenale senza dire (o al massimo accennando appena) che dietro a quell’exploit ci sono anni e anni di duro lavoro: non si viene a sapere nulla di tutti i preparativi e gli allenamenti.
Questo peraltro è nella logica di qualunque spettacolo, artistico o meno. L’esibizione non è mai accompagnata da ragguagli su come ci si è arrivati. Qual è il compositore che ha mai spiegato quanto tempo e quanta fatica gli sono serviti prima di arrivare alla versione finale della sua opera? Ma neppure Bach o Beethoven…
Ma, al contrario che a teatro, o leggendo un libro o contemplando un’opera d’arte, guardando il filmino su facebook il messaggio che passa è che tutto è facile, alla portata di tutti: e questo è veramente pericoloso.
Però è abbastanza inutile condannare questo fenomeno: non possiamo far altro che avvertire “attenzione… queste cose non sono per tutti”.
Ciò che ci dovrebbe incoraggiare è il pensiero che, in ambito insegnamento, tutto è sempre perfettibile. Oggi, a mio parere, l’insegnamento soffre del fatto che non si stacca quasi mai da quello che è un discorso estremamente tecnico. Vorrei ricordare che l’andare in montagna non è una procedura, non deve diventare una procedura, non è come per i piloti di aereo quando si siedono in cabina con il vice pilota e hanno 850 levette e bottoncini da azionare o controllare uno per uno con la procedura: e solo dopo si può iniziare la manovra di decollo!
In alpinismo non è così, se diventasse una cosa di quel genere davvero non sarei più contento di essere alpinista, questo è poco ma sicuro. Quindi attenzione alle procedure elementari e alle procedure semplici, e basta!
Sto esagerando per farmi capire, non sto dicendo che nelle attuali scuole l’orientamento sia esclusivamente quello, né mi batto perché i particolari tecnici non vengano divulgati. Chiedo solo attenzione a non fare diventare una procedura quello che è l’apprendimento o che è anche l’attività. Darei minor peso di quanto attualmente hanno alle manovre, ai nodi, alle procedure, ecc., nel senso che priverei questi argomenti dell’ossessività con cui vengono insegnati, quasi fossero loro l’essenza dell’andare in montagna.
Darei invece più rilievo e rispetto all’imprevisto, quell’evento inatteso che è dietro la visuale di qualunque sport d’avventura e di pericolo. Ci deve essere amore per l’imprevisto: cioè non rifuggirlo, ma essere sereni in sua presenza, non per soffrire come masochisti o godere come gli adrenalinici, ma perché ciò che “capita” alla fine è solo quel qualcosa che non ci aspettavamo ma al quale però, tutto sommato, siamo stati noi stessi ad andare incontro.
Eravamo su quella strada, scelta da noi. L’imprevisto non è per definizione un nostro nemico, come un temporale non è solo dannoso!
L’imprevisto può essere positivo e può essere negativo, “il male non viene sempre per nuocere”.
Una sosta (in questo caso non certo ottimale) con clessidre
Allora coltiviamo questo sentire, portiamo gli allievi sul sentiero dove ci si può veramente perdere, facciamoli perdere, facciamogli fare le soste non in falesie dove è tutto attrezzato, con chiodi già fissi, con le catene, dove si impara meccanicamente la manovra… facciamogli fare manovre anche differenti, inventiamo le soste con i chiodi e il martello… o anche senza chiodi. Chi è che oggi va in giro col martello? Solo chi vuol fare prime ascensioni, direte voi.
Ma allora portiamoci dietro almeno i friend, i nut, i cordini, inventiamoci le soste e facciamole bene naturalmente: perché così impariamo a fare le corde doppie dove non c’è nulla, impariamo a fare le sicurezze dove non c’è nulla, impariamo a perderci e impariamo a tirarcene fuori.
Questo è l’imprevisto, questo è l’inatteso che dà sale alla nostra esperienza. Il resto va benissimo e dev’essere insegnato.
Io non ho quella grossa esperienza di insegnamento che invece hanno gli istruttori o le guide, che hanno fatto i corsi… non parliamo delle guide istruttori: perciò ho molto rispetto, anzi ho ammirazione per quelli che sanno insegnare bene.
Però insegnare bene significa far provare delle emozioni e queste le provochi e le alimenti con qualcosa che necessariamente è imprevisto. Far dire emotivamente agli allievi “guarda questa persona, è stupenda… guarda che bravo è ad insegnare” è facile: basta far affrontare loro eventi che non si aspettavano.
Ecco, l’unione di tecnica e amore per l’imprevisto è il vero insegnamento, perché è sempre l’azione che insegna, le parole e gli esempi insegnano meno che i fatti.
E, a sottolineare questo concetto, godetevi questo breve video. Un filmato che ogni scialpinista dovrebbe guardare con molta attenzione.
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Scusate Marcello e Alberto, non mi pare abbiate detto nulla di sostanzialmente diverso da ciò che ho detto io.
Ho gettato un sasso nello stagno ma alla fine, gira che ti rigira, siamo arrivati alle stesse conclusioni e cioè che l’alpinismo non è solamente uno sport ma che in esso è insita una componente sportiva.
L’unica cosa sulla quale forse facciamo fatica a comprenderci riguarda il diverso peso che tale componente può avere sull’alpinismo, secondo voi, forse, almeno così mi pare d’intendere, piuttosto bassa, secondo me.. dipende.
E, pertanto, ho la sensazione che stiamo scrivendo fiumi di parole disquisendo esclusivamente sul mio.. dipende.
Per voi è così importante? Per me no a meno che su questa partita non ci si giochi qualcosa avente dei risvolti ben più importanti.
Io non sono un fautore della sportivizzazione dell’alpinismo e se ho dato un’idea sbagliata mi dispiace ma non ne avevo l’intenzione. Semplicemente osservo, ascolto, penso e considero e non credo di dire una bestialità se evidenzio che si sta’ andando verso una direzione che sicuramente non piace a voi ma nemmeno a me.
Ho apprezzato molto l’intervento di Stefano Michelazzi. Grazie.
Premetto che la perfezione mi spaventa più della morte. Sono un approssimativo convinto e quindi scrivere un articolo (ai bei tempi di CdA_Vivalda e altri editori, ne producevo a ritmi serrati anche di orribili e su ordinazione) ,non mi costa nulla. E non è quello che vorrei fare qui.
Ma Giando, cazzarola, nei tuoi ragionamenti che condivido quasi in toto, ti perdi la cosa più importante.
Vedi, io proprio conservatore e amante della retorica non lo sono. Dovrei scrivere che ho fatto questo, quello, ecc. ma non l’ho fatto neppure nel mio sito, che è uno strumento di lavoro importante, in cui mi presento malissimo proprio perché non devo, né voglio, essere convincente.
Parlo per esperienza diretta. Ho iniziato con gli scarponi grossi e la camicia a scacchi negli anni ’70 e ho vissuto di persona e a fondo la fantastica epopea dell’arrampicata sportiva, il nuovo mattino, lo sci estremo, le solitarie (anche difficili e con e senza corda), le invernali (quelle toste, con le previsioni meteo di Bernacca) e le esplorazioni extraeuropee. Insomma un po’ di esperienza l’ho accumulata bene o male e ho sempre avuto la passione dell’osservazione dei comportamenti umani. Forse era inevitabile, ma come guida mi sono posto dei traguardi non proprio banali e ho fatto (e spero di fare ancora per un po’, ho 54 anni) il mio mestiere guidando alpinisti in posti piuttosto ostici. E qui mi fermo, perché non voglio correre il rischio insopportabile di parlarmi addosso.
Quello che la tua analisi ha perso per strada o neppure considerato è che il centauro e il canoista, per rifarmi agli ottimi esempi che hai citato tu, per avvertire la presenza della morte sulla strada o su un fiume devono pigiare sull’acceleratore o scendere un fiume tumultuoso, mentre l’intrepido Brambilla avverte questa (non spiacevole, intendiamoci) sensazione della morte appena stacca i piedi da terra su una parete erbosa di primo/secondo grado. Non deve alzare l’assicella come gli altri. Questa è la grande differenza.
Nell’alpinismo la componente sportiva è assolutamente presente e allenarsi fisicamente e mentalmente serve a vivere questa presenza della morte in vita, non come una paura, ma semmai come un limite oscillante tra il buon senso e l’azzardo.
Detesto l’espressione abusata “superare i propri limiti” (e altri luoghi comuni, frasi fatte e povertà letterarie e morali varie) proprio perché il limite è quella cosa che ognuno NON può superare, altrimenti incontra una forza molto più potente che lo annienta. In questo caso la natura, ma sovente sono le forze che abbiamo dentro quando spingono sull’insicurezza, l’orgoglio e il volere conseguire risultati importanti con facilità, vedi droghe e doping vari.
L’interessante del fare la guida è che i comportamenti umani li vedi negli altri (oltre che nel tuo che sovente viene rivoltato come un calzino dagli stessi clienti), e gli altri spesso cambiano, non li conoscevi un minuto prima e magari non li rivedrai mai più. Estrapoli dalla loro vita qualche ora di eccezionalità in cui sono veramente loro stessi, per poi ridepositarli in albergo tra manicaretti unti e welness. Si diventa dei cinici osservatori degli spazi intercerebrali di Borges propri e altrui, e ci si trova dentro pure qualcosa.
Questo è difficile da capire per un dilettante anche bravo, per un istruttore del Cai (soprattutto) e per l’irriducibile Brambilla. Torno sul tema.
Per svariati motivi vado in montagna con alpinisti di altre nazionalità e ognuno ha una sua cultura “alpina” di provenienza. Quello che noi associamo alla retorica, ad esempio, in certi popoli è innovazione e in altri non è mai esistito. Vedi in Sudamerica dove prima delle cime esiste in alcuni luoghi il problema di sfamarsi, anche per certi bravi alpinisti che ho conosciuto…Non parliamo dell’Himalaya.
Un alpinista della domenica E’ secondo me anche uno sportivo, ma è anche alpinista (appunto) e questa caratteristica di cui ho sopra fin troppo detto, lo ripeterò fino alla nausea, gli sport non ce l’hanno, mi spiace.
Giando, che vuol dire “mente aperta” ?
Ritenere che l’alpinismo non è tutto e solo sport alla pari del calcio o della pallacanestro o del tennis , è avere la mente chiusa? E’ essere infarciti di retorica?
Non credo proprio.
E’ chiaro che in alpinismo c’è anche una componente sportiva. Lo dimostrano gli allenamenti che si fanno per prepararsi ad una salita; le arrampicate in falesia solo per il solo gusto di divertirsi o di gareggiare con la pura difficoltà o in gara con gli amici o per migliorare il livelo.
Però quando vai oltre e valichi il limite, entri in una dimensione che non è più sportiva. E’ una dimensione dove l’elemento incertezza, quindi avventura, la fa da padrone. Dove non basta essere bravi e forti. Dove bisogna anche avere un settimo senso che è quello animale che ti fa andare oltre, o capire che è il momento di rinunciare.
Questo però non sempre e possibile in alpinismo. Come ho già scritto non puoi sempre interrompere la partita chiedendo la sostituzione, oppure come si fa in una partita di basket.
La guida alpina francese che con la sua cliente sono morti in vetta alla Jorasses nella bufera non ha potuto, o non ha saputo, interrompere la partita.
Ueli Steck è chiaramente un atleta , uno sportivo e si prepara alle sue grandi imprese con metodo scentifico. Lo afferma lui stesso. Ma quando si impegna su una parete immensa e pericolosa come la sud dell’Annapurna non fa sport fa alpinismo e anche del più pericoloso. Lui qui è stato bravissimo, non ci sono dubbi, ma è anche stato fortunato.Si è messo decisamente in gioco. Sarebbe bastato un piccolo sasso che lo avesse colpito e le cose sarebbero andate diversamente. Un piccolissimo contrattempo su una parete così si trasforma in un problema enorme e vitale.
Ma sensa arrivare a Steck posso portarti il mio esempio. Quando in una solitaria su una parete apuana mi ci sono volute 10 ore e mezza per venirne fuori.
Oppure quella di un mio amico che sempre in Apuane ha concatenato in salita e in discesa diverse vie. Naturalmente sciolto.
Questo è solo sport? non credo proprio.
Intendiamo non lo dico perchè definirmi sportivo invece che alpinista mi fa sentire inferiore o sminuito, o perchè ritengo l’alpinismo nobile e lo sport roba da plebei.
Quindi nessun declassamento lo dico solamente perchè l’alpinismo secondo me è un’altra cosa. Un altra dimensione.
L’esempio di Marcello è comprensibile finché si rimane a livelli di difficoltà cosiddetti elementari. E’ verissimo che c’è sostanziale differenza, mentre (come nel suo esempio) dalla canoa se qualcosa non ti quadra puoi fermarti sul posto e raggiungere la riva dalla parete di 2° se qualcosa non quadra puoi solo scendere perchè ci sei nel mezzo e non esistono altri sistemi per mollare di colpo la situazione . Quando il livello di difficoltà sale, anche nella canoa (vedi canyons con imbuti di diverse decine di metri) non si molla più ed anzi in quel caso la salvezza è solo nell’andare avanti.
Ma suppongo che il messaggio di Marcello possa essere travisato perché tra le tante attività ne ha scelta una che si inserisce in quel range di “sport” estremi. Nel parapendio, nel Base-Jumping o in altre similari attività la sensazione di far merenda colla morte rimane la stessa.
Ciò che a mio avviso differenzia sport da estremo è la componente rischio e anche qui ci sarebbe da valutare le motivazioni per cui un’attività viene fatta e le sue caratteristiche intrinseche.
Probabilmente viste le componenti atletiche anche l’alpinismo viene catalogato come sport, ma come sappiamo tutti (almeno quelli che lo praticano) non sono gli unici parametri di valutazione anzi, spesso la realtà oggettiva supera quella tecnica in fatto di difficoltà. Tanto per fare un paragone, anche se fare paragoni in quest’ambito risulta sempre un errore, salire la normale all’Ortles può risultare ben più difficile della scalata lungo la normale al Sassolungo. Due salite lunghe ed impegnative ma con componenti diverse, mentre il Sassolungo oppone difficoltà tecniche leggermente superiori, l’Ortles presente terreni diversi in cui bisogna sapersi muovere con tecniche diverse e quindi oggettivamente più complesso.
In ogni caso credo che la differenza tra sport ed attività estrema (che malgrado Treccani cataloghi come sport anche queste ultime non mi trova affatto d’acordo) , come detto, sia proprio la componente rischio. Poi anche qui si può differenziare, mentre in alpinismo ad esempio, l’affidarsi ai materiali non è totale (si può mettere un chiodo ma, in base al tuo allenamento ed alle capacità si può fare anche senza) nel Base-Jumping è probabilmente la componente più forte (quando sei in volo e la vela era mal piegata hai finito!). Poi ancora si possono valutare le motivazioni intrinseche ma qui andremmo a finire in un campo inifinito…
L’alpinismo evolve come qualsiasi attività umana, trova spazi diversi a seconda delle motivazioni diverse e segue filoni paralleli che malgrado sostanziali differenze, se di base rimangono ancorati al concetto di mettersi in gioco rispetto all’ambiente e non sottintendono un atteggiamento agonista, possono tutte venir catalogate Alpinismo.
La spotiva non è alpinismo malgrado nasca da questo, proprio perché si basa su un concetto di agonismo e di spettacolarità, quindi sfida tra diversi concorrenti e non rapporto tra il singolo e l’ambiente, nonostante possa essere un valido modo di allenarsi nello sviluppo della componente atletica limitando esponenzialmente il rischio e quindi permettendo una preparazione senza patemi d’animo (o quasi…).
Direi in ultima battuta, che l’importante sarebbe evitare la banalizzaizone di questo concetto, basilare per la vita stessa dell’alpinismo.
Qui la definizione di Treccani per sport in generale:
“Attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui tale attività si realizza, praticati nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo (accompagnandosi o differenziandosi, così, dal gioco in senso proprio), sia, fin dalle origini, per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, proprio di ogni attività lavorativa.
Pratica e larga diffusione di numerosi s. (come il calcio, il ciclismo, il pugilato) su basi professionistiche collegano il termine s. al suo significato etimologico (attraverso l’ingl. sport dal fr. ant. desport «diporto») in relazione non tanto all’attività svolta dagli atleti quanto al divertimento che ne traggono gli spettatori, appassionandosi in vario modo allo svolgimento e all’esito delle gare.”
Scusa Marcello, apprezzo le tue considerazioni ma non puoi assumere la presenza della morte come elemento discriminante. La sensazione di morte può accompagnare anche un automobilista o un centauro che corrono in pista o su una strada sterrata (vedi rally). Ci sono attività, sportive e non, in cui il rischio di morte è maggiormente presente che altrove. Usare questo artifizio equivale secondo me ad eludere il problema. Mi fa piacere che tu abbia fatto praticato canoa ma proprio per questo motivo non capisco come tu possa tirare una riga di separazione così netta con l’alpinismo basandoti sul mero rischio di morte.
Personalmente, anche se non cerco consensi, ritengo che tutte le volte in cui una persona svolga un’attività strutturata al fine dell’ottenimento di una prestazione fisica importante, ancorché non esclusivamente tale (e non è una questione di preponderanza rispetto ad un’attività che comporta un ampio utilizzo di altre facoltà), di fatto, consapevolmente o meno, stia praticando un’attività sportiva o, per dirla in termini più corretti, anche un’attività sportiva (purtroppo non riesco a sottolineare o grassettare al fine di enfatizzare determinate parole).
Lungi da me il ritenere che l’alpinismo sia esclusivamente uno sport, non l’ho mai detto e se per caso l’avessi lasciato intendere è semplicemente perché dovrei scrivere un articolo al riguardo, come suggerito da Giorgio, ma per il momento non ho né tempo nè voglia in quanto, essendo un perfezionista, finirei per riscriverlo almeno venti volte prima di pubblicarlo. Ciò che vorrei fosse chiaro è il messaggio nel suo complesso.
Se il nostro sig. Brambilla, dopo una settimana passata alla scrivania, decide di andare a fare una gita in montagna che comporti anche un minimo di difficoltà alpinistiche, non credo si possa ragionevolmente dire che stia praticando uno sport ma se lo stesso sig. Brambilla si allena sistematicamente, ancorché non tutti i giorni, per alzare costantemente il livello delle sue prestazioni, pur nel limite delle proprie possibilità, faccio fatica a sostenere che non stia praticando uno sport o, per meglio dire, “anche uno sport”.
A proposito della canoa ti racconto una storia. Hai presente l’impresa di Matteo Della Bordella & co.. Bene, leggiti la spedizione di Francesco Salvato e altri tre o quattro canoisti (non ricordo bene) in Nepal, 550 km. di fiume e 10 giorni di trekking in Himalaya con superamento di passi posti a 5000 metri. Tratti di fiume con sifoni ovunque (quindi la morte in faccia). Però Salvato è un canoista, quindi, uno sportivo, Matteo della Bordella no. Non ti pare curioso tutto ciò? A me abbastanza, soprattutto perché le due imprese sono assolutamente speculari.
Non siamo noi a decidere se stiamo praticando uno sport o meno bensì le azioni che poniamo in essere perché in caso contrario basterebbe semplicemente dire che si fa o non si fa questo o quello e saremmo a posto. Se poi vogliamo ragionare in merito al fatto che ci sia una zona grigia nella quale non è facile comprendere se si stia praticando uno sport o qualcos’altro è un altro discorso. Ho preso due esempi estremi, Ueli Steck e il sig. Brambilla, per rendere un’idea ma fra i due ci sta’ di tutto.
Per ritornare al discorso della presenza della morte come la mettiamo con prestazioni limite tipo quelle di Gullich, Glowacz, Edlinger, Manolo, Huber, giusto per citare alcuni nomi famosi che hanno salito slegati alcune vie. Stiamo parlando di personaggi che sono, o sono stati, sia arrampicatori sportivi sia alpinisti. Quando salivano slegati in falesia erano arrampicatori sportivi o erano alpinisti? Come vedi la presenza della morte non è una discriminante. Anch’io da giovane ho fatto dei III gradi slegato, perché sono tristo, ma questa presenza di morte non l’ho mai avvertita. Quelle rare volte che sono andato ai 160 in autostrada invece la presenza della morte l’ho sentita eccome.
Personalmente, ho la sensazione che molti di noi vogliano continuare ad aggrapparsi ad un certo tipo di visione quasi per paura di dover affrontare una realtà che cambia, aggrappandosi ad un qualcosa di inconsistente. Ma perché? Qual è il motivo? A me non me ne frega nulla della componente sportiva dell’alpinismo, non ci trovo alcun declassamento. Tanto ciò che conta è come ci si sente nel fare le cose. Se qualcuno mi dicesse che sto’ praticando uno sport dove sta’ il problema? C’è una bella differenza fra il praticare per ottenere un risultato in termini, per es., cronometrici ed il praticare per la gioia di trovarsi immersi in un ambiente da favola. Il canoista che scende un fiume a livello amatoriale mica ricerca una prestazione, se la prende comoda, e il fatto di essere considerato uno sportivo non scalfisce minimamente la sua persona.
Allo stesso modo un alpinista che si allena per fare delle cose egregie solamente per sè stesso deve sentirsi declassato perché qualcuno gli dice che, di fatto, sta’ praticando uno sport? Bisogna essere superiori a tutto questo e prendere le cose con filosofia.
Certi atteggiamenti di chiusura mi ricordano molto quelli degli alpinisti nei confronti delle nuove generazioni anni settanta dedite ad arrampicare in falesia, orrore! Il sacro contro il profano. Come poi è finita è sotto gli occhi di tutti, arrampicatori inizialmente sportivi che hanno innalzato l’alpinismo a livelli stratosferici ed alpinisti che si allenano come arrampicatori sportivi (trazioni, stretching, e quant’altro).
Ribadisco, viviamo in un oceano di convenzioni, comprendere ciò ed agire di conseguenza e già un bel passo avanti, Tanto i bei tempi andati (saran poi stati così belli? Mah..) non torneranno più quindi meglio guardare ai cambiamenti senza per questo disdegnare alcuni valori e principi del passato. Il vecchio e il nuovo sono solo apparentemente in contrapposizione e lo sono nel momento in cui ciascuno guarda al proprio orticello senza cercare un confronto vero, cosa che si può verificare solamente con mente aperta.
Prima di andare a dormire, ci provo. Scendere in canoa un fiume è sport. Ci sono vari fiumi (l’ho fatto anche io) con vari gradi. Prendiamone uno di secondo grado, facile. Le rapide quasi guidano il kayak da sole e ci si deve limitare a qualche pagaiata qua e là permettendoci perfino errori. La sensazione è di poco controllo se si è principianti e di normalità se si è esperti. Se le rapide si mostrano a vista troppo spumeggianti si può, ,quasi sempre, atterrare e uscire dall’acqua in tempo.
L’alpinismo non è uno sport. Come per i fiumi, ci sono varie vie su pareti di gradi diversi. Inizio a salire. Sarà secondo grado, facile, elementare. Sono su calcare e quindi una certa verticalità non manca. Non appena ho percorso qualche metro e non ho ancora messo nessuna protezione, vista la facilità, sento una presenza vicina. Anche se non voglio. La sento. È la morte. O se vi rattrista, chiamatela, paura di cadere e morire, ma è la stessa cosa.
Ecco dove sta la differenza, .secondo me.
Lungo un fiume di quinto grado posso avvertire la presenza della morte al mio fianco, ma non lungo uno di secondo grado, a meno che non sappia nuotare… Ma allora non avrei preso la canoa, credo.
Arrampicandomi su una parete alpina, anche molto facile, e con ciò intendo una porzione di roccia o ghiaccio non attrezzata, ho la morte vicina come non accade in nessuno sport e anche su difficoltà elementari.
Infatti in caso di caduta da una parete, l’effetto meccanico del terreno, o di una cengetta, sul corpo di chi atterra è indipendente dal grado di difficoltà della via ed è proprio per questo che la presenza della morte si avverte comunque e condiziona ogni nostra mossa o scelta. La morte ci fa sentire più fortemente la vita e, credo che questo fatto così banale, sia avvertito consciamente o inconsciamente da ogni alpinista. È una sensazione che crea dipendenza e la si cerca non appena si può. Io quando faccio la guida sulle vie facili e sprotette avverto costantemente la presenza della morte al mio fianco e trovo questo come una cosa normalissima. Se scalo su una via più difficile le protezioni aumentano di numero e qualità e la morte se ne sta un po’ più distante, ma è sempre nei paraggi. Nell’alpinismo la morte “arrampica accanto”, come in quel libro di Hiebeler, e basta farsela amica per volerla sfiorare ogni volta. Non conosco sport dove questo accada.
titolaccio ad effetto dell’articolo ipotizzato che vede voi come redattori in un confronto all’americana:
“eugenismo ed alpinismo ?”
con tanto di maligno punto interrogativo.
Eppoi, sempre e poi sempre: abbasso le cave di marmo!
Ma che c’entra ? Niente! ma è per empatia al romanticismo Benassiano
Scherzo.
io credo di essere uno dei retorici romantici che ancora credono che l’alpinismo , quello vero, non sia uno sport. C’è anche nell’alpinismo una componente sportiva, ma non è solo sport per il semplice fatto che l’alpinismo è avventura.
Avventura intesa come incertezza, pericolo, rischio. Sai quando parti ma non sai se arrivi, non sai se riesci.
Per venire fuori da certe situazioni, non puoi interrompere semplicemente la partita o richiedere una sostituzione perché non sei più in grado di continuare. Devi venirne fuori da te.
Nello sport almeno in generale, tutto questo non c’è, non è possibile.
Giando,
condivido in larga parte la tua analisi sull’evoluzione dell’alpinismo. Ritengo inoltre che, come dice saggiamente Giorgio, le nostre posizioni non siano poi tanto distanti. Non condivido molto la diffusione di una filosofia che viene definita “gene as magic bullet”. Nel caso avessi voglia e tempo di leggere un articolo, ti consiglierei una lettura interessante apparsa su una delle più prestigiose riviste scientifiche di medicina sportiva, in cui viene presentato un compendio della annosa disputa tra natura/ambiente (vedi allenamento) in ambito sportivo (Genes, Environment and Sport Performance. Why the Nature-Nurture Dualism is No Longer Relevant; http://www.yorku.ca/bakerj/Davids%20and%20Baker.pdf). Come vedrai, ormai, questa è una disputa che non porta più a nulla. La realtà è molto più complessa. E per fortuna direi. A volte ci fidiamo troppo del buon senso o del senso comune…
Marcello, faccio ricerca in ambito psicologico, mi occupo di diversi ambiti; tra cui creatività, emozioni, e processi di decisione. Tutti aspetti che ritrovo nell’alpinismo (passato, presente, e spero futuro).
Caro Marcello, non ho dubbi che tu faccia valutazioni molto profonde, anzi sono sicuro che le tue valutazioni siano di gran lunga più profonde delle mie proprio perchè fai un mestiere come quello di Guida Alpina. Ho dato un’occhiata al tuo sito internet, ho letto le cose che scrivi e le ho trovate molto interessanti.
Una delle cose belle di questo blog consiste nel poter prendere spunto da un’argomento e svilupparne degli altri, rischiando sovente di andare fuori tema e credo che ciò possa essere utile, quantomeno io lo trovo utile.
Certo l’alpinismo è diverso da alcuni sport citati ma non è diverso da tutti gli sport in quanto tali. Per es., ho più volte evidenziato i molti punti di contatto fra l’alpinismo e l’andare in canoa solo che tale attività, ancorché vissuta col medesimo spirito che anima l’alpinismo, è considerata uno sport dalla stragrande maggioranza dei praticanti. Pertanto, rientriamo nell’ottica delle convenzioni. Se la maggioranza è convinta che l’alpinismo non sia uno sport ne prendo atto ma francamente non riesco a vedere una sostanziale differenza fra il canoista che scende le rapide di un fiume ed il rocciatore che scala una parete.
Ciò che invece differisce, e non poco, è l’atteggiamento intriso di retorica che ancor oggi infarcisce l’ambiente alpinistico e questo nonostante le nuove generazioni segnino inequivocabilmente il passaggio da una visione per così dire romantica ad una prettamente sportiva ancorché talvolta si cerchi di mascherarla. E’ ovvio che questo passaggio non sarà totale bensì parziale ma bisognerà prenderne atto prima o poi e se si vuole stare al passo coi tempi bisognerà necessariamente introdurre concetti e linguaggi nuovi (nuovi per l’alpinismo intendo) se no finiremo per dire le solite cose, le quali non saranno però più in grado di raccontare una realtà che cambia.
Tutto ciò non è già successo negli anni settanta per l’arrampicata? E allora di cosa ci preoccupiamo. Cerchiamo di essere aperti alle nuove visioni, perché tanto di rif o di raf le dovremo accettare, criticandole se necessario ma affrontandole con spirito costruttivo.
Cari Giando e Sergio, solo per meglio inquadrare e decifrare i vostri discorsi: ma che lavoro fate, rispettivamente?
Io faccio la guidalpina e nella mia modesta testimonianza mi sono basato sulla moltitudine di allievi che ho avuto. Non crediate che chi fa il mio mestiere non sia capace di valutazioni molto profonde, ma è solo che magari tendiamo a usare una terminologia un po’ rozza. Questo va a favore di chi legge perché non tutti sono eruditi o specializzati in una materia ben precisa.
Aggiungo solo che, come ribadito un po’ da tutti qui, l’alpinismo sfugge a una definizione precisa come quella che si può dare sui molti sport citati, e quindi é un capitolo a parte da analizzare relativamente a sé medesimo. Steck e Brambilla fanno entrambi alpinismo anche se su livellii tecnici distantissimi, e gia questo la dice lunga.
Cito il solito odierno vecchio trombone di Messner da un suo libro (di quelli che scriveva lui) : “giunti a valle stanchi la stessa fonte disseta ugualmente il passeggiatore contemplativo quanto il forte alpinista”.
È la natura a decidere, noi possiamo dare un colpetto quì e uno là per passarci attraverso indenni e possibilmente goduti. Così la penso, ciao.
Grande Giorgio :-))
Anch’io mi occupo di rapporto mente-corpo, quotidianamente, comprese tutte le ultime ricerche sulla fascia-tessuto connettivo e di quanto un certo tipo di lavoro sul piano fisico possa influenzare la mente e addirittura cambiare la forma del corpo. Ovviamente, vale anche il contrario.
Ho praticato i più svariati sport e mi sono confrontato con diversi allenatori, forse poco scienziati ma molto molto pratici.
Sulla predisposizione genetica non è necessario essere dei luminari, basta guardare i fisici degli atleti olimpionici nelle varie discipline. Stiamo parlando di atleti di punta, dell’elite. Già coloro che ottengono dei risultati importanti anche a livello nazionale si trovano a faticare maggiormente, in termini di recupero, a parità di carichi di lavoro, a prescindere dal doping che purtroppo dilaga.
Bene, non vedrai mai un atleta di due metri gareggiare nella ginnastica artistica così come raramente vedrai un soggetto di 1,60 schiacciare a canestro (c’era un certo Spud Webb di 1,68). Non vedrai mai un fondista o mezzo fondista con un fisico da pilone di squadra di rugby alla Castrogiavanni così come non vedrai mai il campione mondiale dei 10.000 metri piani giocare in una squadra di football americano. Non vedrai mai un ciclista di 100 chili arrampicarsi su una salita del Tour de France come faceva Pantani. Potrei andare avanti all’infinito.
Le palestre sono piene di sfigati convinti che col duro lavoro potranno diventare come Schwarzenegger ai tempi d’oro, anche a parità di dopaggio, ma non sanno che la forma dei muscoli è geneticamente predeterminata. Molti potranno diventare grossi ma avranno un aspetto massiccio, altri saranno slanciati e potranno aspirare a gareggiare con maggior successo. I bicipiti a punta non li avranno tutti e ci sarà sempre chi avrà i pettorali a pera invece che belli squadrati perché tutto dipende dalla forma della gabbia toracica.
Uno come Castrogiovanni, 1 metro e 90 per 120 chili, lo portiamo in vetta al Kilimangiaro? Con tanto allenamento, tenacia, impegno, forza di volontà? Bah.. Magari sì, bisognerebbe fare la prova sempre che lui sia d’accordo.
In ogni caso, anche se ce lo portassimo, non dimostreremmo nulla perché di gente col fisico di Castrogiovanni ne dovremmo portare su a centinaia al fine di poter dimostrare che la struttura fisica, e, quindi, anche il patrimonio genetico non c’entra nulla.
E’ evidente, lo capirebbe anche un cretino, che in alpinismo giocano altri fattori e a certi livelli, diciamo medio bassi ma anche alti, quasi sicuramente non estremi, sicuramente contano maggiormente. Per es., cosa talmente banale da vergognarsi a dirla, bisogna saper padroneggiare una certa tecnica e chi è più tecnico, a parità di fisico, otterrà sempre dei risultati migliori. Ciò vale però anche all’incontrario ed è per questo motivo che ad altissimi livelli, almeno in campo sportivo, il fisico fa la differenza.
L’alpinismo sta’ andando verso la sua sportivizzazione, possiamo far finta di non vedere, mettere la testa sotto la sabbia, ma è così ed è un processo inarrestabile. Anche coloro i quali fanno alpinismo di ricerca sono costretti ad allenarsi perché non puoi andare alla scoperta di nulla, considerando le difficoltà attuali, passando la maggior parte del tuo tempo col culo sulla sedia a guardare il computer. A chi interessa oggigiorno una bella via di roccia di II-III grado? Ti ridono in faccia se provi a scrivere un articoletto in proposito.
Ma c’è un problema, il mondo dell’alpinismo non è ancora pronto per un vero confronto su queste tematiche e si continua a ragionare, questo sì, come nel 1800 primi 900 perché il concetto di “lotta con l’Alpe”, d’impresa eroica, è ancora ben radicato in molti di noi. Non so quando e come ma probabilmente arriverà il momento in cui anche nell’alpinismo l’aspetto agonistico assumerà un aspetto talmente preponderante da relegare i contemplativi come me al rango di poveretti (ma non me frega nulla).
E’ dura ammettere che se Madre Natura non ti avesse dato un certo tipo di fisico certe prestazioni non le avresti ottenute, fa più figo dire che ci si è impegnati, che ci si è fatti il culo, per dimostrare che siamo tutti partiti dallo stesso livello quando non è vero. Molti alpinisti di punta hanno paura di un reale confronto perché non potrebbero più accreditarsi agli occhi della gente, non potrebbero più tenere conferenze o scrivere libri, dovrebbero ammettere che i loro meriti non possono essere imputati solamente alla forza di volontà.
E’ ovvio che senza impegno non si vada da nessuna parte ma rimane la questione esemplificata all’inizio nel tipo di 1,60 che nella stragrandissima maggioranza dei casi a canestro non schiaccerà, anche se si allenerà alla morte.
Come facciamo ad essere certi che le imprese di Bonatti non siano derivate anche da doti fisiche sopra la media? Certo, non abbiamo la certezza nemmeno del contrario ma ammetterrai che ci si trova di fronte ad un evidenza che, guarda caso, è supportata dalle conoscenze in campo sportivo. Ed ai livelli di Bonatti, prima, e di Ueli Steck, poi, passando per Messner, Profit e compagnia cantante, parlare di alpinismo come attività ludica, pseudo spirituale o quant’altro.. Beh, insomma, parliamone.
Comunque ti ringrazio per la cassa di birra ma vado ad acqua, forse questo è il motivo per il quale sovente canto fuori dal coro.
E no eh! Sergio, Giando, tutti. Voi mi battete e di gran lunga in quanto a lunghezza! 🙂 La frase che ho scritto sulla prigionia, ovvero sull’illusione di libertà, ovvero su uguaglianza e diversità, è una conclusione estrema ad anche all’oggetto di tutto il nostro parlare su questo blog. E se ancora sono ermetico, paraculamente rimando alla lettura dell’articolo “la pervicace ricerca del destino – parte 2”. Scherzi a parte (?), toccate punti di complessità tale per cui, non è che mi tiro indietro (ma vi pare? tirarmi indietro quando si parla di eugenetica, ci sguazzerei nell’antinazismo!) ma è che no ce la fò come impegno in queste prossime ore. Vi faccio allora una proposta seria: perchè non scrivete un articolo sulle vostre tesi/ipotesi, che occhio e spanne non sono forse in così tale contrapposizione (Sergio/Giando) e proponetelo all’Alessandro Gogna…
Giando, in effetti diventa difficile discutere attraverso il blog. Non credo ci sia lo spazio, né sia il luogo per certi argomenti. Mi piacerebbe discutere magari faccia a faccia di tante questioni che hai sollevato; il rapporto alpinismo-sport; il rapporto mente-corpo (che guarda caso è anche uno dei miei argomenti di ricerca); la funzione dei geni. Magari prima o poi accadrà di incontrarti su qualche montagna…
Nonostante tu dica che io non ne sappia granché, ci tengo a ribadire (perché è una questione di principio per me, anche per ciò che faccio come lavoro) che nonostante una certa mentalità sia diffusa anche a alti livelli nello sport, non significa che ciò corrisponda a verità. Ribadisco, se solo riuscissi mai a dimostrarmi la fantomatica “predisposizione genetica” o qualcuno delle tue conoscenze a fornirmi dei dati a tale riguardo, la cassa di birra (oltre che probabilmente il premio Nobel) sarà tua.
Sergio, diventa difficile risponderti in un blog perchè bisognerebbe avere la possibilità di scrivere un intero articolo. In ogni caso, quelle che tu definisci corbellerie sono note da tempo in ambiente sportivo ma ho la sensazione che tu in proposito non ne sappia molto, nonostante l’accurata terminologia usata.
Aggiungo che non è necessario fare test particolari per comprendere che se una persona corre veloce fin da piccolo, ed ottiene dei tempi di rilevo, dipende da fattori genetici. Io da piccolo, pur essendo malaticcio e dovendo passare gran parte del mio tempo libero in casa, correvo più veloce di un amichetto notevolmente più muscoloso e sempre intento a svolgere attività fisica. Ma mi sembra talmente banale dover discutere di queste cose che preferisco far finta di metterti una mano sulla spalla e dirti “hai ragione” perché proprio non ho voglia di perdere tempo.
Parliamo invece di un altro aspetto, sul quale ci sarebbero anche qui da scrivere pagine e pagine (se qualcuno ne avesse voglia), mi riferisco alla differenza fra attivita’ sportiva ed alpinismo. Premesso che nel mio primo intervento non ho parlato esclusivamente di fattori fisici sfido chiunque, e sottolineo chiunque, a fornire una chiara, evidente ed inequivocabile definizione di “alpinismo”.
Nessuno, oggi come oggi, ha le idee chiare né il neofita né il professionista e questo per il semplice motivo che il suddetto termine è stato coniato in un determinato periodo storico e con riferimento ad un’attività che nel corso dei decenni ha assunto dei connotati via via sempre nuovi. Non si può dire in assoluto che l’alpinismo sia questo o quello perchè l’alpinismo di Ueli Steck, tanto per fare un esempio, non è lo stesso del sig. Brambilla che va a fare la gitarella domenicale su qualche facile cima delle nostre Alpi. Vogliamo sostenere che la componente sportiva del gesto di Ueli Steck non sia preponderante rispetto ad altri aspetti? Oppure che le trilogie di un Profit degli anni ottanta costituissero un alpinismo di ricerca? Ma per favore! La realtà è che ognuno interpreta l’alpinismo alla sua maniera, soprattutto se svolge tale attività a livello professionale o semi-professionale.
Non è vero che l’alpinismo non sia uno sport. Se interpretato a certi livelli e soprattutto in un certo modo può essere vissuto come uno sport. Secondo molti bensanti il body building non è uno sport perché manca una competizione che misuri una prestazione però è considerato uno sport il tiro al piattello dove la componente fisica del gesto è ridicola.
Viviamo in un oceano di convenzioni, o ce ne rendiamo conto o è meglio che andiamo a spasso. Tu Sergio sostieni, in pratica, che i miei ragionamenti siano antiquati e questo solamente perchè oso evidenziare un aspetto che non ho nemmeno considerato come prioritario? Mi sembra di sognare. Siamo arrivati al punto che se si osa uscire un minimo da binari che su questo blog sembrano predefiniti per provare ad ampliare i propri orizzonti immediatamente si viene richiamati all’ordine.
Io non ho mai detto che l’educazione deve basarsi sui geni, anzi ho sottolineato come il metodo utilizzato da Marcello sia quello giusto ma nemmeno l’allenatore di una squadra olimpica di qualsiasi sport seleziona gli allievi in base ai geni. La selezione avviene naturalmente ma è evidente come lo è il sole che alcune attività riescono meglio di altre se si ha una certa predisposizione a svolgerle e non è nemmeno un caso che normalmente si faccia ciò che riesce meglio (intendo a livello amatoriale perché dal punto di vista lavorativo spesso e volentieri ci si adatta).
Nell’attesa di una spiegazione più esauriente delle parole scritte da Giorgio, che tu, caro Sergio, sembri aver compreso perfettamente e per le quali invece io, ottuso uomo dell’800, gradirei approfondire, mi piacerebbe sapere come si fa a dare il giusto peso alla tenacia, alla creatività, all’impegno, ecc., svincolandole da un corpo fisico. Solo se si crede che mente e corpo siano due entità distinte è possibile sopravalutare elementi che con la materia sembrino non aver nulla a che vedere. Ma il problema è che mente e corpo non viaggiano ciascuno per i fatti propri, lavorano in simbiosi e che si tratti di due realtà completamente separate deriva semplicemente dal fatto che i nostri sensi non ci permettono di percepire ciò che accade in dimensioni microscopiche e, quindi, non riusciamo a vedere i collegamente in base ai quali la nostra mente influisca materialmente il nostro corpo e nemmeno quelli in base ai quali il nostro corpo influenzi la nostra mente.
Il fatto che vi siano persone le quali ottengono dei risultati clamorosi in qualsiasi campo a dispetto delle apparenze costituisce semplicemente l’eccezione che conferma la regola. Con ciò non voglio dire che la forza di volontà, tanto per fare un esempio, non sia capace di stravolgere in senso positivo la vita di una persona, dico semplicemente che ci sono innumerevoli fattori che incidono ed uno di questi è anche il patrimonio genetico nel senso più completo e con questo patrimonio, caro Sergio, dobbiamo fare i conti. Ciascuno di noi ha dei limiti che può essere giusto cercare di superare ma credere che attraverso uno sviluppo di determinate facoltà sia possibile concretizzare sempre e comunque i propri sogni è un’idiozia ed insegnare una cosa del genere può perfino essere pericoloso perché, estremizzando, potrebbe portare un tot di gente a credere di poter fare quello che fa Ueli Steck.
Insegnare alpinismo significa per me, ma credo per tutti coloro che amino quest’attività e la svolgono a livello professionale, far comprendere che ciascuno dovrà prima o poi accettare i propri limiti e confrontarsi con essi, a prescidere dalla forza di volontà, dalla tenacia, dall’allenamento, ecc., perché il non accettarli potrebbe portare qualcuno a raggiungere la fama ma la maggior parte a rischiare di lasciarci le penne.
Ognuno deve imparare a trovare il proprio tipo di alpinismo perché non esiste un alpinismo preconfezionato e valido per tutti, possono esistere dei principi e dei valori condivisi, può esistere una certa etica nei confronti della montagna ma aldilà di questo il tutto si concretizza in un rapporto personale fra il praticante e l’ambiente che lo circonda, dove talvolta le stesse regole vanno riscritte in base alle situazioni in cui ci si trova ad operare. Bisognerebbe insegnare che le possibilità di trascorrere il proprio tempo in montagna sono infinite e che non si deve diventare monotematici perché gli anni passano e può sempre capitare un imprevisto di qualsiasi natura a scombussolare i nostri piani. Ma questi sono sostanzialmente degli insegnamenti universali che valgono in qualunque contesto e con riguardo a qualsiasi attività. Siccome l’alpinismo, nei suoi svariati modi di essere, comporta però un gesto atletico, anche intenso, focalizzare l’attenzione solo su elementi immateriali, considerandoli quasi come gli unici elementi veramente importanti a discapito di tutto il resto, può prestare il fianco ad atteggiamenti rischiosi perchè andare avanti per sola “forza di volontà”, soprattutto in montagna, può comportare dei rischi molto gravi se non si è fisicamente integri ed all’altezza della situazione.
Vabbè adesso mi sono stancato, non vi tedio più.
La seconda considerazione è rispetto a quanto detto da Marcello.
Grazie. Ecco la considerazione.
Marcello, sei riuscito a condensare in breve e a descrivere nella realtà un approccio educativo di cui altre volte avevo accennato negli spazi di questo blog. Un approccio di selezione esperienziale all’alpinismo. Mi hai fatto rinascere una fiducia nella figura dell’educatore all’alpinismo e alla natura.
Due considerazioni relate a due diversi interventi.
Il primo è quello di Giando. Sembrerò un po’ polemico, e di questo, Giando, ti chiedo scusa sin da subito. Ho aspettato un po’ prima di rispondere; ho voluto vedere le reazioni a quanto da te detto. Ma mi sembra che le considerazioni sull’importanza della predisposizione genetica all’attività sportiva e all’alpinismo siano passate senza grosse preoccupazioni. Caro Giando, ti dirò che non vedevo una visione così innatista a qualsiasi attività umana dall’inizio del secolo scorso (non che io lo abbia vissuto, ma nella mia attività lavorativa mi confronto spesso con teorie di inizio secolo scorso). L'”essere nato” per fare qualcosa è una visione talmente antiquata e disconfermata da decenni di ricerca scientifica, che mi guarderei bene dai cosiddetti illuminati o persone serie che affermano certe corbellerie. Spesso dietro l’argomentazione della predisposizione genetica si nasconde una grossa dose di ignoranza. L’eugenetica è un filone di ricerca nata a partire dalla fine dell”800 e poi progressivamente abbandonata, poi ritornata in parte in auge con la più recente mappatura del genoma umano. Caro Giando, noi condividiamo il 98% dei nostri geni con gli scimpanzé, e il 92% con i topi. Vorresti dirmi che quel 2% di differenza giustifica la predisposizione (e non) dell’essere umano a tutti gli ambiti della vita tipicamente umana? Dalla predisposizione alla matematica, alla ginnastica artistica, allo studio, all’alpinismo? Se riuscissi a portarmi anche solo mezzo dato scientifico che dimostra questo fatto, ti offrirò una cassa di birra, o una buona bottiglia di vino (ma buona, eh!). Più recentemente si è incominciato a parlare di epigenetica, di come cioè i geni siano determinati e attivati dall’ambiente e di come l’ambiente sia determinato dai geni. In questo caso è l’interazioni tra molteplici fattori che determina l’emergere di certe disposizioni o attitudini. Questo certamente assomiglia maggiormente a una descrizione della natura umana. Spesso faccio l’esempio che cercare di descrivere l’essere umano attraverso i suoi geni è come, attraverso la descrizione di una casa, cercare di descrivere il suo abitante. Certamente c’è una correlazione tra i due, ma non di certo un rapporto di causa-effetto. Il senso comune ci fa semplificare all’estremo la realtà, perché spesso questa è troppo complessa per essere intuita. E il patrimonio genetico viene spesso assunta come euristica di pensiero per spiegare comportamenti complessi dell’essere umano. Che può anche andare bene. Finché però non porta a un’impostazione alla realtà sbagliata, producendo persino sistemi educativi improntati alla predisposizione genetica.
Se poi si volesse dire che una costituzione muscolo-scheletrica sia importante per l’attività fisica, questo è certamente indiscutibile. Ma affinché una determinata costituzione muscolo-scheletrica possa emergere vi sono talmente tanto fattori interagenti, che il genoma umano è solamente una delle tantissime variabili da considerare. La struttura muscolo-scheletrica è centrale per l’attività fisica, è fondamentale. La prestanza data da questa struttura è importantissima. Ma lo è veramente altrettanto per l’alpinismo? Nessuno qui, credo, abbia nulla da obiettare al fatto che ci sia una grossa differenza tra attività sportiva e alpinismo. L’importanza della struttura muscolo-scheletrica nei due ambiti è certamente differente. Basti pensare quanti recordman dei 100m oltre i 30 anni ci sono. Oppure quanti campioni del mondo di arrampicata sportiva oltre i 30. Ma quanti exploit nell’alpinismo ci sono fatti da uomini oltre i 30 anni? Tantissimi. Sembrerebbe che il peso della struttura e prestanza fisica nei due ambiti sia decisamente diverso. I fattori da considerare nell’alpinismo sono molti. Certamente l’aspetto fisico riveste una certa importanza. Ma prima considererei quanto detto da Giorgio: Libertà. Pericolo. Talento (che con l’innatismo ha veramente poco a che fare…). Creatività. Lavoro. Rischio. Impegno.
Analisi sintetica: the best!
Giorgio pensa con chi hai a che fare e abbi pietà di noi…..le tue analisi non sono proprio semplici…..da comuni mortali.
Ahah in effetti a volte le tue analisi sono devastanti (in senso buono s’intende :-)). Meglio così facciamo lavorare un po’ il cervello.
Buongiorno Giando, è che qui la gente non è mai contenta 🙂 se fai una analisi -> sei “confusionario”; se fai una sintesi -> sei “ermetico”. Scherzi a parte, appena riesco, mi spiego meglio.
Giorgio, hai buttato giù quattro parole che però ritengo ricche di contenuti. Ti dispiacerebbe sviluppare meglio il tuo pensiero come sovente sai fare? Grazie.
Libertà. Pericolo. Talento. Creatività. Lavoro. Rischio. Impegno. La provocazione è che ognuno è diversamente abile nei talenti, ma ugualmente prigioniero delle vie scelte. E’ questo l’assurdo della vita (e forse dell’alpinismo).
che le doti naturali facciano la differenza non ci sono dubbi. Chi arriva secondo alle Olimpiadi non è che si allena meno di chi vince. E’ solamente meno dotato. La differenza la fa la natura.
Però è anche vero che c’è stato un certo Hermann Buhl che non era molto dotato fisicamente ma evidentemente aveva altre doti.
Per quanto mi riguarda posso dire che se sono arrivato fare certe cose, non è tanto perchè sono dotato, ma sopratutto perchè ci ho messo tanta passione, mettendo un mattone sopra l’altro.
Certo Alberto la predisposizione mentale è fondamentale, ci mancherebbe, ma non sottovalutare la predisposizione genetica. Magari ce l’hai e non te ne rendi nemmeno conto. Essere geneticamente predisposti non significa avere doti da superman, significa semplicemente avere la struttura idonea per fare determinate cose. Esempio, hai mai visto un arrampicatore di punta con gambe da sollevatore di pesi? Qualcuno c’è (mi viene in mente Larcher che non ha certamente due stecchi, pur non avendo delle cosce da culturista) ma la stragrande maggioranza ha gli arti inferiori piuttosto sottili. Non parliamo poi del peso (d’altronde, ad eccezione di soggetti obesi, grossezza delle gambe e peso vanno a braccetto e cio’ per il semplice motivo che i muscoli più grossi del corpo sono collocati negli arti inferiori, nei glutei e nella schiena). Ho già citato le pulsazioni cardiache ma potremmo parlare del rapporto peso potenza oppure della robustezza dei tendini degli avambracci.
Insomma, sono tutte cose che non si possono eludere. Poi è ovvio che ci vuole anche allenamento e forza di volontà ma se nasci ronzino non potrai mai aspirare a fare cose eccelse. Potrai divertirti, quello sì, a patto che accetti i tuoi limiti. Sovente, chi fa parte dell’elite, sostiene che i suoi successi sono dovuti all’allenamento, alla forza di volontà, ecc. ecc. ma questo perché si dimentica il livello da cui è partito.
Predisposizione genetica significa altresì avere la capacità di sostenere determinati carichi di lavoro, di non incappare in infortuni e quant’altro. In un intervista degli anni 80 ricordo che Manolo disse di essere arrivato a fare 22 tiri di IX in un giorno! Col tempo si è ritrovato con la tendinite ma la sua incredibile, probabilmente unica, capacità di gestire i piedi gli ha permesso di fare il 9a a più di cinquant’anni. Ma Maurizio Zanolla non è “diventato” Manolo, semplicemente è “nato” con le potenzialità di diventare Manolo. Ci ha lavorato sopra ed ha ottenuto dei risultati.
In alpinismo, così come in arrampicata, non è sufficiente padroneggiare la tecnica perché i fattori in ballo sono troppi.
Sto’ dicendo cose che in ambito sportivo sono assolutamente assodate e gli allenatori degli atleti di punta le conoscono da decenni solo che in alpinismo vige ancora il concetto del “se ti impegni, se soffri, se hai un buon maestro, ecc.” ottieni dei risultati. In realtà non è così o meglio non è così punto..
Io ho un carissimo amico, buon sciatore, che vorrebbe arrampicare ma quando si trova a dover attraversare uno strapiombo si blocca. Dove lo vogliamo portare? Ed è sempre stato così, non lo è diventato. Fa sì e no una trazione alla sbarra perché pesa 90 chili ma se io, che ne peso 75, mi zavorro con 20 chili di trazioni ne faccio 5. In compenso lui ha una potenza di gambe che io me la sogno. E tutto ciò a prescindere dall’allenamento.
Anche dal punto di vista mentale si nasce con determinate predisposizioni. Come mai ci sono persone che fin dalle elementari riescono bene in matematica mentre altre vanno meglio in italiano? Per quale motivo alcuni imparano le lingue meglio di altri? Individualità, pure e semplici. Ma potrebbero pure esserci dei potenziali alpinisti che sono nati in posti di mare e che, quindi, non si porranno mai il problema di mettere a frutto il potenziale di cui madre natura li ha dotati.
Sì, insomma, le cose non sono poi così semplici e, pertanto, un bravo insegnante, come dice giustamente Marcello, deve saper scremare e non solo attraverso una mera valutazione di tipo tecnico.
io non penso di avere una predisposizione genetica. Però penso proprio di essere un alpinista per predisposizione mentale, intellettuale. Certamente non sono un alpinista da solitaria alla sud dell’Anapurna ma questo che vuol dire?
E’ il modo in cui affronti la montagna, come ti poni di fronte alle difficoltà, lo stile, che fanno la differenza non il grado che fai.
L’alpinismo non si può insegnare, è vero. Oserei dire che l’insegnamento della stessa arrampicata, nata come branca dell’alpinismo e successivamente sviluppatasi come disciplina a sè stante (almeno in parte), presta il fianco a numerosi distinguo.
Come riporta giustamente Pietro l’alpinismo è anche l’arte di arrangiarsi, dote quest’ultima che in parte è innata ed in parte può essere appresa. Va però evidenziato come l’apprendimento di quest’arte comporti una buona dose d’umiltà, intesa come curiosità, desiderio di conoscenza e di mettersi in discussione e rispetto per gli altri e per tutto ciò che ci circonda. Particolare importanza riveste secondo me il rispetto per gli anziani (mi riferisco soprattutto all’anzianità di servizio) ed al modo in cui questi si rapportano alla disciplina in esame. Chiaramente è necessario sviluppare spirito critico perché non tutti coloro i quali potremmo definire “navigati” hanno sempre da insegnarci qualcosa di positivo. Nel mondo dell’alpinismo non è poi così difficile incappare in personaggi da non imitare o quantomeno ambigui.
In alpinismo la differenza la fa l’esperienza, fare 7c od 8a in falesia sicuramente può essere d’aiuto ma bisogna vedere se questi gradi si è capaci di farli sempre e con qualsiasi tipo di terreno perché arrampicare su calcare non è come arrampicare su granito, per non parlare poi dell’arenaria. In alpinismo s’incontrano poi tratti di ghiaccio e misto, talvolta improteggibili, se non addirittura intere vie che necessitano una certa padronanza di tutti gli stili.
In ultima analisi l’alpinismo s’impara solo con l’esperienza maturata nel corso di anni e, possibilmente, praticando negli ambienti più svariati (cosa non certo alla portata di tutti). E’ un po’ come costruire una casa secondo metodi tradizionali, mattone dopo mattone.
Infine vorrei sfatare un mito, ormai arcinoto nel mondo sportivo ma quasi per nulla pubblicizzato (fatte salve le persone serie che talvolta s’incontrano). Le cose non s’imparano solamente praticandole all’infinito, alla base di tutto ci vuole sempre una certa predisposizione genetica. Non tutti possono arrivare dappertutto perché non basta essere bravi dal punto di vista tecnico, bisogna anche vedere con che razza di struttura fisica ci si trova a dover convivere. In alpinismo, per es., lo sforzo aerobico può risultare estremamente intenso e se uno parte con 75-80 pulsazioni cardiache a riposo difficilmente riuscirà a raggiungere i livelli di chi ne ha 45-50. E poi c’è il problema della morfologia, della muscolatura, dei tendini e dei legamenti. Ovviamente c’è pure un problema di testa ma chi beneficia di un fisico idoneo necessiterà sempre di minor forza di volontà per raggiungere i propri obiettivi.
Insomma, per farla breve, l’alpinismo potrebbe, a mio avviso, essere veramente insegnato solo attraverso un rapporto maestro-allievo di stampo mistico-orientale, nei confronti di soggetti vantanti certe caratteristiche di base. Ritengo, quindi, che il modo di operare di Marcello sia l’unico possibile, non ne vedo altri.
Ciao a tutti.
Penso che l’argomento, almeno per chi segue e condivide più o meno estremamente le idee sviluppate da questo blog, porti a commenti allineati con l’articolo e ovviamente abbastanza scontati e condivisi. Ci vorrebbe un bel “outsider” che fomenti con motivazioni provocatorie ed assurde (almeno dal mio punto di vista).
Va be’ … accontentiamoci di aggiungere un “Mi piace” a ciò che viene espresso.
Per ciò che concerne l’insegnamento e la parte “burocratica” ed assicurativa, integro lo spunto di Marcello.
Nelle scuole di Alpinismo è giusto insegnare le manovre “extra-manuale”.
Bisognerebbe comunque farlo su vie attrezzate, tuttavia magari “mischiando” le protezioni ed alternandole (uno spit ed un friend, ecc.) per mostrare all’allievo anche l’aspetto più alpinistico, sempre e comunque nell’ambito della sicurezza che un corso deve garantire (per quanto possibile ovviamente).
Volevo inoltre completare dicendo che anche in un ambiente quale il CNSAS, del quale sono membro, la gestione dell’imprevisto è fondamentale.
Nonostante infatti le mille utilissime manovre che vengono insegnate, le procedure inventate e collaudate da Alpinisti incredibili e umanamente stupendi (grazie ancora Daniele … e non solo), in situazioni critiche su vera Montagna (parete, canaloni di neve poco stabile o altro) ci si deve sempre e comunque appellare alla propria esperienza ed inventiva.
Non sempre si trova infatti la sosta bella ed attrezzata per fissare un ancoraggio di calata.
Si deve quindi tornare a ciò che l’Alpinismo ha insegnato ed insegna ad ognuno di noi.
Come aveva detto un’altra grande persona (“casualmente” fratello di qualcuno sopra citato) quando feci il corso di arrampicata molti anni or sono: “L’Alpinismo è anche l’Arte di arrangiarsi”.
E lo diventa quando tutte le belle manovre, le procedure ed i mille insegnamenti caiani diventano solo un accessorio della nostra esperienza, fantasia e cultura alpinistica.
Grazie e cordialità,
Pietro
sono d’accordo con Marcello. L’alpinismo non si può insegnare, caso mai stimolato.
L’alpinismo non si può insegnare perchè non ha delle regole. Non è come insegnare a fare uno mezzo barcaiolo. Basta ripetere più volte una sterile regoletta e la manovrina s’impara.
Prima di tutto non c’è un solo alpinismo ma ognuno di noi ha diversi modi di concepirlo e metterlo in pratica. Ad esempio c’è l’alpinismo solitario e anche questo di diverse forme.
Come giustamente scrive Marcello , l’alpinismo è rischio perchè è pericoloso, è fatica, è incertezza perchè in alpinismo non c’è la sicurezza della riuscita.
In una società che tende ogni giorno a inquadrare e preconfezionare tutto, a mettere tutto in sicurezza annullando il più possibile il gusto dell’ignoto, come si fa ad insegnare l’alpinismo che è tutto e il contrario di quello a cui tende la società di oggi.
Quello che poi trovo strano è che oggi le scuole del CAI si chiamino “scuola di alpinismo” . Ma quale scuole di alpinismo……, dal momento che quasi tutti i corsi vengono fatti su itinerari ripetutissimi, completamente attrezzati e per giunta con tanto di spit e catene alle soste. Dovrebbero chiamarsi scuole di arrampicata.
Nulla di più vero. Si scambia spesso la montagna come un giocattolo che ti offre tanti brividi, non sapendo che essa ha un cuore proprio,E chi la sa vivere trova in lei la donna da coccolare ma anche quella da rispettare. Sa essere gentile con chi è educato e, ma spietata con chi la sfida. La montagna non è la vetta ma è il percorso ed è quello il senso del tutto. Grazie per l’articolo
Sono d’accordo con il fatto che l’allievo di un corso di alpinismo dovrebbe essere spinto alla curiosità verso l’ignoto e tutte quelle cose lì. Alla fine questo non succede perché è più facile portarlo su vie sicure e giá attrezzate per prendersi meno responsabilità. Non dimentichiamo che oggi la burocrazia legislativa e delle assicurazioni non è come quella di vent’anni fa.
Personalmente credo che l’alpinismo non possa essere insegnato ma semmai stimolato in chi ne possiede già il germe al suo interno. E questo tra gli allievi si vede benissimo. Sarà compito di un bravo maestro in seguito dare dei suggerimenti opportuni a quell’allievo che dimostri interesse e talento, ma spingere sull’insegnare l’alpinismo a un gruppo di allievi alla stessa maniera per tutti, si limita alla prima fase più per dovere dell’istruttore che per praticità.
Sono contento che l’alpinismo non si possa apprendere come una lingua o come la chimica e che gli alpinisti, alla fine, siano pochi.
Il proselitismo già lo fa il Cai a modo suo, nel bene e nel male…
Come dice un mio amico bravo alpinista: nell’alpinismo non c’é democrazia!
Chi vuole “salire” senza essere o diventare alpinista può sempre dedicarsi all’arrampicata sportiva o prendere la funivia, ma non dobbiamo portare più persone possibile sui ghiacciai e sulle pareti se non c’è una forte volontà da parte di quest’ultime.
L’alpinismo è pericoloso e faticosissimo e l’uomo da quando è al mondo ha lavorato sodo per eliminare queste caratteristiche della propria esistenza. Quindi l’alpinismo è pure assurdo e vogliamo insegnarlo?
Non parliamo poi di quando si affronteranno le prime vie. Ovviamente si dovrebbe iniziare dai gradi più bassi, ma queste sono le più pericolose in caso di caduta e difficili da trovare. È tutto alla rovescia.
Io, che faccio la guida da tanti anni, ho capito (ma anche no) che è meglio iniziare con l’arrampicata sportiva. Imparare a gestire i movimenti del corpo e a salire limitando il discorso sicurezza a un nodo e al gri-gri. Punto.
Intanto corpo e mente iniziano a lavorare inuna certa direzione…
Tra questi allievi si potrà fare una scrematura una volta che li ho conosciuti e portare su una via alpinistica quelli che sembrano interessati a farlo e lì mostrargli e poi insegnargli la sicurezza, le soste, la ricerca della via e la storia.
Si, perchè il saper inquadrare una via nel suo periodo storico serve a trovarla e fa bene al cuore. Insomma bisogna imparare e insegnare tante di quelle cose che alla fine restano in pochi a seguirti, e meno male. Quei pochi saranno gli amanti dell’assurdo e forse diventeranno alpinisti, ma, a quel punto, saranno fatti loro. Per me questa è libertà.