Arrampicando con i fulmini
(Cima Ovest di Lavaredo – Parete nord – Via Cassin)
di Andrea Mellano
(pubblicato su Scandere 1964)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)
Dolomiti! Per un occidentale come me, l’idea di andare a cercar grane in Dolomiti desta già qualche preoccupazione, figuriamoci poi quest’anno che non sono riuscito ad allenarmi coscienziosamente, causa un piede maledetto che al ritorno dalla spedizione mi ha fatto dannare costringendomi per parecchio tempo all’inattività. Non facevo però grandi sforzi per rimettermi in forma. Preferivo andarmene in giro con certi amici anche loro poco propensi a un intenso allenamento in roccia e più inclini alle delizie della buona tavola valligiana. Questa mia aperta indifferenza ai sani principi della montagna aveva destato qualche allarme tra i miei amici più scatenati e, tanto per non far nomi, i soliti Giovanni Brignolo, Ottavio Bastrenta, Roberto Amari, ecc., i quali, maledetti, ordirono trame per riagguantarmi e condurmi ancora a «trovare lungo» sulle pareti più dure delle Alpi. Naturalmente l’iniziatore era Romano Perego, anche lui smanioso di cimentarsi, come apertura di stagione, su qualche salitella dolomitica; salitella, diceva lui… I risultati non si fecero attendere. Risultati dovuti non tanto all’abilità dei miei compagni, quanto alla carenza, in quel momento, di compagne di gita interessanti. Mi lasciai dunque convincere da quei volponi e partimmo niente meno che per scalare la via Cassin alla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo.
Romano Perego cinquanta anni fa
Secondo l’esperto «dolomitista» Romano Perego, la fine di maggio è già epoca buona per cimentarsi su quelle pareti. Fiduciosi partiamo da Torino con la solita organizzazione un po’ confusa ma produttiva che ci distingue. Con me e Brignolo verranno Bastrenta e Amari che partiranno più tardi. A Merate troviamo Perego, già impaziente, ad attenderci e subito proseguiamo con lui alla volta di Misurina dove giungiamo alle 17 di sabato 29 maggio.
Saliti al rifugio Auronzo — in macchina, naturalmente, com’è buona norma da quelle parti — approfittiamo delle ultime luci del giorno per recarci a dare un’occhiata alle pareti più famose delle Dolomiti. Dalla forcella scendiamo leggermente finché le abbiamo tutte e tre davanti: belle, belle non c’è che dire; però, come prevedevo, non sembrano nelle migliori condizioni per essere scalate, data l’ancor grande quantità di neve ferma nelle parti alte. Romano, convinto, dichiara non essere il caso di preoccuparsi per un po’ di neve: «Non siamo mica sulle occidentali!». Sarà, ma tutto quel lucido sulla via Cassin non mi dà molta fiducia.
Tornati al rifugio, attendiamo i nostri amici che non dovrebbero tardare. Prima di andare a riposare stabiliamo il programma per l’indomani: sveglia alle quattro, attacco alle cinque, in vetta alle diciotto al più tardi e quindi ritorno al rifugio verso le venti. Facile no? Già, ma dimenticavamo di essere nuovamente insieme noi tre: Brignolo, Perego ed io.
Questa concomitanza poteva creare delle complicazioni come dimostravano le passate esperienze sull’Eiger, Cervino, ecc. Niente paura, qui siamo in Dolomiti: tutta un’altra cosa! In Dolomiti fa caldo, le salite si fanno veloci… Come di consueto, sveglia un po’ più tardi del previsto. Solita confusione mattutina e discussioni per la scelta del materiale da salita, poco in verità, ma Romano dice che è sufficiente. Bastrenta e Amari, più saggi, si dirigeranno verso lo Spigolo Giallo.
Traversata la forcella, per arrivare all’attacco dobbiamo affondare nella neve a volte sino alla cintola. Sotto la Cima Grande incontriamo un gruppo di tedeschi poco convinti; infatti ci dichiarano di non sentirsi bene e rimandano la salita della direttissima ad occasione migliore: quanto li invidio!
Andrea Mellano nel 2010 in discesa dal Becco di Valsoera, dopo aver salito in occasione del cinquantennale la via Perego-Mellano-Cavalieri
Proseguiamo nuotando nella neve e poco dopo siamo all’attacco della Cassin. Vista di sotto la parete non è tanto impressionante, salvo quei tetti a metà che, a mio avviso, sporgono un po’ troppo: speriamo sia soltanto un’impressione. Mentre formulo tali considerazioni, Giovanni, col suo solito fare svagato, posa con disinvoltura il sacco sul ripido pendio e si mette ad armeggiare con la macchina fotografica. Naturalmente il sacco, per l’antica e conosciutissima legge di gravità, prende la via del basso, inseguito con qualche secondo di ritardo dall’imprecante proprietario. Recuperato il tutto, salvo un rullino fotografico già impressionato, iniziamo la scalata al seguito dello scalpitante Romano che sta pagando lo scotto della sua esperienza dolomitica iniziando da primo. I passaggi sono discreti e molto esposti. Saliamo insieme, quando è possibile, per guadagnare tempo. Sono ancora un po’ insonnolito ma le difficoltà provvedono ben presto a svegliarmi. La via è chiodata e ciò facilita la nostra progressione in parete senza toglierci il piacere dell’arrampicata. Anche se poco allenato, mi gusto questi tratti di roccia veramente belli.
Verso le dieci siamo già all’inizio del grande traverso: il passaggio più difficile e delicato della salita. E’ veramente una cosa impressionante: siamo letteralmente sospesi a circa trecento metri dalla base su dei minuscoli appigli e qualche staffa. Sotto di noi il vuoto sino al ghiaione. Ho detto qualche staffa… già perché, come al solito, per risparmiare abbiamo portato solo quattro staffe e siamo in tre! Poiché il traverso e gran parte della via sono in artificiale, immaginate gli improperi che sono piovuti sulla testa di Romano poiché è lui che ci aveva assicurati che le staffe bastavano.
Malgrado l’inconveniente proseguiamo decisi. Giovanni ogni tanto mi invita a guardare giù per assaporare l’ebbrezza dello strapiombo. Cerco invece di guardar bene dove dovrò attaccarmi per non lasciare troppo velocemente la mia precaria posizione, più adatta a una scimmia che a un essere umano, anche se qualcuno, nei miei confronti, ha espresso dei dubbi al riguardo.
Verso la fine del traverso, che è lungo circa 80 metri, le nuvole ci vengono incontro: scommetto che sono partite dalle Occidentali per venirci a trovare. Noi sappiamo per esperienza cosa significhi tale visita e ci affrettiamo a uscire dal traverso per cercare un riparo alla tempesta incombente. Stiamo ancora arrampicando quando una forte scossa trasmessaci dai chiodi ci preannuncia il temporale; decidiamo subito di fermarci assicurandoci ai chiodi stessi. Romano si ferma cinque o sei metri sopra, io e Giovanni più in basso. Non so più che cosa sia successo dopo. Ma mi ritrovo penzolante dalla corda, completamente intontito. La lingua è paralizzata, non riesco a parlare e così pure il braccio sinistro che non posso articolare.
Quando finalmente posso farfugliare qualche cosa, chiedo a Giovanni, che mi pare stravolto, cosa sia successo. Sentendomi parlare, Giovanni ha un gesto di sorpresa e tutto contento mi grida: — Allora sei vivo! Meno male.
— Come, sono vivo? Diavolo, cos’è successo? — La voce di Giovanni mi giunge stranamente attutita. Solo ora mi rendo conto della mia posizione fluttuante nel vuoto e cerco di tirarmi su. Nel fare la manovra mi accorgo che mi manca uno scarpone! Non riesco a capacitarmi, ho la testa che mi ronza terribilmente… Ah, ora ricordo, il temporale, i fulmini; ecco: devo essere stato colpito da un fulmine e bene, a quanto pare!
Cerco di reagire come posso cercando di far tornare la sensibilità agli arti paralizzati. Intanto Romano dall’alto urla qualcosa a Giovanni: non capisco ciò che dice, intuisco però che Giovanni lo sta informando sul mio stato che, per quanto comincio a capire, non sembra dei più allegri.
Finita la relazione a Romano, Giovanni si rivolge a me e, quasi urlando, mi ragguaglia sull’accaduto: una folgore ci ha colpiti trattandoci abbastanza male; Romano è stato gettato fuori dalla cengetta e non riusciva più ad alzare la testa; Giovanni, invece, ha avuto un braccio irrigidito dalla scarica elettrica; io sono il più malconcio: ho la testa che pare debba scoppiare e, come se non bastasse, non odo quasi niente mentre l’occhio destro mi brucia molto. Ora Giovanni mi spiega che sono rimasto svenuto per un po’ di tempo e lui non riusciva a svegliarmi neanche con certi schiaffoni che mi affibbiava malgrado fossi penzolante fuori dalla cengia. Alla fine era quasi giunto alla conclusione che fossi defunto! Come quadro d’insieme non c’è male. Il bilancio complessivo è abbastanza preoccupante; vero è che poteva andare peggio, porco diavolo! La sensibilità alla gamba e al braccio mi è in parte tornata, solo l’orecchio sinistro e l’occhio destro sono nello stato di prima. Romano, dall’alto, chiede cosa dobbiamo fare. Già, cosa dobbiamo fare? Siamo a metà parete, semi-distrutti dal temporale che ora scarica una quantità considerevole di acqua e dobbiamo decidere il da farsi. Tornare indietro non c’è neanche da pensarlo, quindi saliremo; non so come, ma saliremo.
Riprendiamo la scalata lentamente; siamo bagnati fradici e lo stordimento del fulmine si fa sentire. Privo di uno scarpone cerco di arrampicare facendo il possibile per non rallentare la scalata; povero Romano, altro che cambio, dovrà continuare in testa, lui che è il meno colpito. Certo non è questa la bella conclusione della salita che già pregustavo. Pazienza, cerchiamo solo di uscire da questa doccia continua. Altro che sole, roccia calda e invitante: qui, se non finisce in fretta, ci tramuteremo in pesci, fritti magari dal fulmine, ma sempre pesci.
Sono un po’ avvilito e anche arrabbiato per quanto è accaduto. Quando arrampico sento gli abiti bagnati che mi si appiccicano addosso dandomi una sensazione strana di dolore e di freddo. Il piede destro, protetto solo dalla calza semi-bruciata, diguazza letteralmente nell’acqua e tutte le volte che lo appoggio sugli appigli, questa sprizza fuori come una fontanella. Eppure dobbiamo salire, continuare per uscire dalla via e raggiungere la vetta. Il gioco delle staffe riprende; ormai abbiamo raggiunto la zona della neve, quella stessa neve che contribuiva a innaffiarci abbondantemente sul traverso. Le ore sono trascorse veloci e forse non riusciremo a uscire prima di notte. L’idea di un bivacco in parete non ci sorride affatto date le nostre condizioni. Come faremo, bagnati sino alle ossa, a passare la notte senza sacco da bivacco e soprattutto senza aver qualcosa da mettere nello stomaco? Eravamo partiti per una scalata veloce e, senza l’incidente, a quest’ora saremmo già sulla via di discesa, felici e soddisfatti. Invece siamo qui, sì e no a cinquanta metri dalla vetta, brancolanti nel buio per trovare un posto decente dove sistemarci. A tentoni troviamo una stretta cengia coperta di neve; la prospettiva di passarvi la notte non ci dà più nessun fastidio ormai; vogliamo solo sederci un po’. A pensarci è abbastanza ridicolo: con tanti posti asciutti che probabilmente ci saranno più sopra, siamo costretti a bivaccare nella neve. Il nostro spirito è però così avvilito che più niente ci preoccupa. Sgombrato un po’ il sito dalla neve, ci accovacciamo l’uno accanto all’altro per stare più caldi. Un telo di nylon miracolosamente uscito dal mio sacco ci ripara alla meglio dalle folate di vento che ogni tanto ci investono. La folgore che mi ha colpito sta facendo il suo effetto: sento tutto il torace che mi brucia tremendamente e l’occhio mi si è chiuso in modo definitivo. Cerco di non pensarci e di assopirmi. Romano e Giovanni ogni tanto sono presi dal tremito, ma anche loro non si lamentano; il telo non è molto grande e lascia passare delle zaffate d’aria che penetrano fra gli abiti bagnati come lame di coltello. La notte trascorre lenta e fredda, uguale a tante altre. E come tutte, anche questa passa fino a che un vago chiarore ci annuncia il nuovo giorno. Lontano, il cielo si tinge di rosa: il sole! Diavolo, credevo fosse andato in vacanza il maledetto! Venga, venga a scaldarci un po’; dopo tutto questo freddo umido ne abbiamo proprio bisogno. Gli amici si stanno muovendo, io non mi sento molto bene e vorrei indugiare ancora un poco. Ma è meglio partire e andare al sole; alle sei accogliamo i primi raggi tanto sospirati: finalmente assaporiamo per alcuni attimi il gradito tepore e poi riprendiamo la salita. Poco dopo raggiungiamo una larga e asciutta cengia: l’avrei immaginato che bastava salire ancora di poco, ieri, per trovare un bel posto, ma non si vedeva niente e siamo stati costretti a bivaccare all’umido. E pensare che sarebbero bastati venti minuti di luce… Beh, non pensiamoci più, la Cassin è finita. Siamo fuori dalle difficoltà, dalle placche maledettamente verticali, dagli enormi strapiombi; ora possiamo finalmente lasciarci pervadere dalla contentezza. Dovremmo essere felici, ma ci vuol altro! Siamo scampati ai fulmini per miracolo, abbiamo dormito in maniera schifosa, ora dobbiamo ancora scendere e io sono sempre senza scarpa. Come si può in queste condizioni essere in pace con la montagna? Voglio solo scendere, scendere giù a mettermi qualcosa di asciutto addosso e cercare di farmi passare il ronzio insistente che mi accompagna da ieri e il bruciore al petto. Il sole si è stancato di scaldarci, il suo posto lo ha preso una nebbiolina, salita dalla valle, che ora ci avvolge nascondendoci la via di discesa. Per fortuna la via normale è abbastanza logica e non fatichiamo troppo per seguirla.
La parete nord della Cima Ovest di Lavaredo con il tracciato della via Cassin
Devo andare un po’ adagio e mai come in questo momento invidio i «coolies» nepalesi che camminano scalzi su qualsiasi terreno. Ma non sono un nepalese e devo fare molta attenzione per non rimetterci quel che mi è rimasto del piede destro.
Sulla neve dei canali ci lasciamo scivolare dolcemente verso il basso. Il ghiaione è l’ultimo tormento per me, ma finalmente arriviamo alla strada militare che porta al rifugio. La Nord della Cima Ovest di Lavaredo è veramente finita e ci stringiamo silenziosamente le mani: non c’è bisogno di parlare, siamo ancora noi tre, tutti interi e con una magnifica salita alle spalle. Ora possiamo permettere che la felicità entri sotto questi abiti fradici di pioggia e di sudore.
Il nostro arrivo al rifugio non è precisamente trionfale: sbracati, con gli abiti in disordine e io senza una scarpa, destiamo una certa curiosità. Raccontiamo la nostra avventura e dopo aver ingollato un brodo caldo andiamo a cambiarci. Nel togliermi la maglia mi accorgo che è tutta bruciata e sforacchiata; noto anche sul torace delle profonde bruciature che scendono sino al ventre. Ora capisco il perché delle fitte: la catenella d’oro si è fusa lasciandomi dei profondi segni sulla carne e la ritrovo tutta a pezzi tra la maglietta. Certo è il caso di preoccuparsi, l’oro fonde a circa 1060 gradi, quindi deve essere stata una bella botta. Mi medico alla meglio e poi seguo l’esempio di Romano e Giovanni che sono già sprofondati dentro le cuccette e dormono il sonno del giusto. Ottavio e Roby arrivano alla sera da una gita fatta in basso e vengono da noi per vedere cos’è successo. Li tranquillizziamo sulle nostre condizioni e raccontiamo loro la nostra avventura sulla Cassin.
Dopo una dormita «storica», ci siamo rimessi discretamente in forma; solo il mio occhio è definitivamente chiuso per il gonfiore e l’orecchio sinistro continua a non funzionare.
L’avventura dolomitica è finita. Domani rientreremo alle nostre case un po’ malconci ma soddisfatti per la salita effettuata. Sì, lo so, ci saranno quelli che con aria scandalizzata penseranno: soddisfatti? Dopo quel po’ po’ di fulmine hanno il coraggio di essere soddisfatti, ma quelli sono… No, non siamo proprio come pensate voi. Vedete, la montagna non ci ha dato niente che non sia di sua competenza. Certo non è stato piacevole il temporale ma, via, al mondo vi sono cose molto peggiori e poi, al giorno d’oggi fa piacere avere delle conoscenze altolocate: vi sembra poco essere diventati amici delle folgori? E poter raccontare ai bimbi, quando scappano impauriti dai temporali, di non avere troppo timore, perché un giorno i fulmini vennero a trovarci per giocare; ma noi, che siamo fatti di carne, ci bruciammo. Essi ci rimasero male, tanto che promisero di non farlo più e tornarono lontano, dove già altri nostri amici giocano con loro senza scottarsi. Andremo anche noi un giorno lassù, e staremo assieme a voi e con gli amici che ci hanno preceduti tra le montagne del Cielo.
3
Prima o poi un temporale con dei bei fulminotti ce lo siamo
presi tutti.
Un temporale è un bellissimo spettacolo di espressione
della potenza della natura.
Quando abitavo a Levigliani, un paesino delle Apuane e
c’era il temporale, mi mettevo alla finestra a godermelo.
Diverso invece è quello che ci siamo presi sulla Comici
alla Cima Grande di Lavaredo. Li ce la siamo propria vista brutta.