Metadiario – 261 – Baltoro 2004 – 3 (AG 2004-006)
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/baltoro-2004-2/)
Concordia, 7 agosto, ore 10
Nel pomeriggio di ieri, stufo di scrivere, ho preso l’iniziativa d’incamminarmi verso l’Alì Camp. Con il dottore fino alle tende della parte orientale del campo Concordia, dove la dottoressa Annalisa appare più carina della prima volta che è venuta da noi tutta imbacuccata. Lo lascio in buona compagnia e proseguo nella valletta invasa dalle vele e dal torrente, tra begli scrosci che fotograferò al ritorno con luci più radenti. Risalgo il versante opposto per giungere sulla sommità di una morena, segnalata da un bellissimo ometto, alto ed esile, e per riscendere sul Vigne Glacier.
Il mio scopo è riuscire a vedere la famosa sagoma della Muztagh Tower. Ogni tanto infatti mi volto per spiare se la torre fa capolino o no da una cresta del Crystal Peak, mentre m’inoltro sempre più verso la netta curva a destra del ghiacciaio. Il profilo spunta pian piano, fino a che giudico che l’immagine non possa ulteriormente migliorare. Con i miei scarsi mezzi a disposizione, un “duecento mm” riprendo la torre con sotto e in primo piano un risaltino luccicante di ghiaccio.
Soddisfatto, prendo la posizione GPS, poi, data l’ora, inizio il ritorno. Quando arrivo a Concordia, è in atto una festa, tamburi, canti e balli, alla luce del sole calante. Giuseppe e Annalisa si esibiscono, prima uno poi l’altra.
– No ghe nient che fa pì premura de la merda quand che l’è madura – è il commento del dottore quando torniamo al nostro campo.
A cena, con i catalani (tutt’altro che solo donne…), una minestra cinese ha il potere di nausearmi: assaggio poco di tutto il resto. Non vedo l’ora di buttarmi in tenda per leggere L’ultima missione di Michael Di Mercurio e per mandare un messaggino a Guya, che suona «Che fa gatta Pallina? Il padrone si sente così solo che anche gatto Max stenta a fargli compagnia».

Concordia, 7 agosto, ore 21
Oggi è successo un episodio increscioso, cui è seguita una visita non del tutto gradevole. E a cena l’inevitabile conclusione. Giuseppe ha un modo di esprimersi burbero, lo si potrebbe interpretare quasi aggressivo. Non lo è affatto, ma persone di lingua straniera possono facilmente interpretarlo così.
Anche perché le sue espressioni sono necessariamente smozzicate, storpiate, nel vago tentativo di imparare al momento i termini di una lingua sconosciuta che gli servono in quell’occasione.
E così, allorché rivolto a Mehfuz, esclama qualcosa tipo «Ma voi a casa, anche a casa, bevete solo tè?», i tre catalani presenti, che già non brillano di simpatia, se la prendono con lui: una ragazza specialmente, assai robusta e in carne, credo dica di non sopportare la maleducazione di chi è bravo solo a far sculture (rifacendosi ai menhir di cui è popolato il campo). Il suo compagno la prega di non provocare oltre, ma lei continua. Io sto zitto, Giuseppe crede che ce l’abbiano con Mehfuz, ed esce.
Dopo poco esco anch’io, lo stomaco in agitazione.
Nel pomeriggio passa a farci visita Annalisa, in pantaloncini bermuda, assieme a tre di uno dei gruppi Nodo Infinito, appena arrivato. Le azioni della ragazza risalgono ancora.
I tre sono di simpatia media, che decade un poco quando cominciano a parlare di un quarto compagno, rimasto a riposare in tenda al loro campo e soprannominato “il cadavere” per via del suo percorrere le ultime tre o quattro tappe in modo non proprio brillante. Detto una volta, detto due, alla terza sospetto un vero ostracismo, un’insopportabile esclusione dal gruppo. Giuseppe è gentile con loro, va in tenda-cucina a chiedere del tè per tutti, torna con tazze, zucchero e thermos. Sparecchia, perfino: quando s’allontana verso la cucina così carico, lo apostrofo: «Non è che vuoi portare anche qualcosa in equilibrio sul naso?».
I tre decidono di andare a riposare un poco, Annalisa e Giuseppe chiacchierano al sole mentre io mi ritiro in tenda. Giuseppe poi la riaccompagna, anche per dare uno sguardo al tanto vituperato “cadavere”.
Verso le 19 ritorna e mi dice che quello non sta per niente bene, decisamente a rischio edema. Loro hanno il sacco iperbarico, ma se domattina non starà meglio servirà l’intervento dell’elicottero. Giuseppe ha promesso di fare un salto da loro domattina, per prendere una decisione definitiva assieme ad Annalisa.
Alle 19 in punto ci chiamano per la cena, entriamo in tenda mensa, con 12 posti apparecchiati, ma non c’è nessuno. Ci sediamo e arriva subito la minestra, solo per noi. Mehfuz ha mal di testa, ma ci tiene compagnia. Gli chiedo dove sono i catalani e lui mi risponde, con semplicità, che si sono lamentati e che hanno chiesto di mangiare in due turni separati!!
Giuseppe mi costringe a tradurre in inglese la frase «che vadano a cagare!», risultato del suo improvviso comprendere quello che era successo davvero a pranzo. Io aspetto delle telefonate, occorre comunque (per non passare dalla parte del torto) liberare la tenda, così ci congediamo per la notte.
Ricevo una telefonata da Bibi e figlie, delle quali sento la mancanza. Petra mi dice che quando ha dormito giovedì sera in corso Vercelli non è riuscita a entrare nel mio studio perché le veniva da piangere. Ad Andrea è stata tolta la cistifellea, con ciò, pare, mettendo la parola fine ai suoi recenti fastidi: ne avrà ancora per qualche giorno in clinica, poi vedranno cosa fare, se andare a Verbier o no, se andare a Siena o no.
Anche la telefonata con Guya è un conforto, vengo a sapere che a metà settimana prossima andrà a Desenzano dalla sua amica Rossella (la mamma di Alessandra Thiele), per qualche giorno.
Concordia, 8 agosto, ore 8.30
A colazione ci ritroviamo ancora con i catalani che, per fortuna loro e nostra, stanno partendo per l’Ali Camp, quindi non li vedremo mai più. Giuseppe e io, seduti di fronte, stiamo parlando di qualcosa, ma lui evidentemente sta ascoltando anche con un orecchio quello che dice la ragazza robusta.
– Senorita, varda che io non sono un turista qui. Io sono medico da dieci giorni, qui! Sì, proprio a te, dico! – e conclude biascicando qualcosa d’incomprensibile.
Grande meraviglia nel gruppo, certo lei non stava parlando di noi o di lui. Protestano un debole «non era riferito a te», ma senza troppa convinzione, viste le prese di posizione della sera prima.
L’incidente si chiude qui, con evidente imbarazzo da ambo le parti. Poi Giuseppe si alza e mi dice che sarebbe andato subito all’altro campo per la visita. Gli chiederò dopo cosa gli era sembrato che quella dicesse.
I collector sono partiti per il loro lavoro, mi riservo di andare in seguito a sorvegliarne i progressi. Con Mehfuz gli scambi sono ridotti al minimo, tra l’altro quando Silvia e Mario mi hanno telefonato il 6 sera, ho saputo che Silvia salirà con Muhammad Alì, il supervisore dei campi, e che questi sostituirà Mehfuz. Il quale, penso, magari ha chiesto un rimpiazzo, vista la sua recente paternità, saputa per telefono l’altro giorno. La cosa non mi dispiace, Mehfuz non è male, ma non è così addentro alle questioni del Baltoro da garantire piena fiducia. Muhammad Alì è meglio, giurerei, lo abbiamo conosciuto a Skardu con Mario e ci era sembrata veramente un’ottima persona.
Oggi è bel tempo, anche se v’è qualche nuvola e una non perfetta visibilità sui colossi. L’undicesimo gruppo CAI è in marcia per Urdukas, il dodicesimo per Payu. Il tredicesimo, con Silvia Pedote e Alberto Angeloni, viaggia nei pericoli delle gole dell’Indo verso Skardu.
Non ho chiesto a Silvia se ha con sé la Noblex di Marco: sarà una sorpresa a meno che non mi chiami lei stessa da Skardu, ultima possibilità di contatto prima del 17, salvo telefonate satellitari a prestito lungo il tragitto. Con un sorriso si ottiene tutto.
Concordia, 8 agosto, ore 16
Convinto che Giuseppe sia ancora all’altro accampamento, decido di farvi un salto anch’io, magari anche per registrare la posizione satellitare dell’eliporto, situato giusto all’estremità est di Concordia.
Trovo Annalisa intenta ad appoggiare sassi pesanti sugli ancoraggi non fissati della sua bella tendona a igloo. Dentro ci sono il gabinetto medico e la sua tenda personale, che pare stanotte abbia ospitato il “cadavere”.
– A proposito, come sta?
– Bene, finalmente stanotte è riuscito a orinare. Lui e la sua fidanzata (la Simona di ieri) hanno deciso di scendere tra poco… Gli altri due, invece, domani andranno all’Ali Camp per passare il Gondogoro La. Io ho dormito pochissimo…
Assieme andiamo alle tende del gruppo, dove effettivamente i due stanno per partire. Il “cadavere” è un ragazzone alto, dai modi affabili, che ancora non riesce a credere quanto male stesse ieri.
Durante una chiacchierata con un baltì cui tutti attribuiscono grande somiglianza a Gustavo Thoeni, riesco ad appurare qual è il percorso da seguire per la Quota 5461 m, praticamente (nella prima parte) lo stesso che porta al campo base del G4. Uno dei prossimi giorni andrò a dare un’occhiata a quest’itinerario, che lui definisce very easy, per uno dei «trekking peak» più frequentati da Concordia (a suo dire). Mi informa anche che il tentativo di Kukuczka alla cima nord del Mitre Peak, per la cresta nord-ovest, si è fermato a 100 metri dalla vetta per bad weather, nei primi anni ’80. Dice di essere stato il cuoco della spedizione Kurtycka-Schauer alla Ovest del G4.
Proseguo fino alla piazzola dell’elicottero per prenderne le coordinate: ne approfitto pure per rimettere in piedi l’asta di bambù con la manica a vento. Poi faccio ritorno al mio campo dove trovo Giuseppe per le consuete chiacchierate e per il lunch. Lui mi snocciola tutti i campeggi fatti con don Gianni, in Dolomiti e in Adamello: se non ci fossero stati i preti, lui mai si sarebbe avvicinato alla montagna. E io allora gli racconto della mia triste esperienza di “aspirante” nella GIAC di San Francesco d’Albaro, a Genova: allora, dodicenne, presi da solo la decisione di andarmene, dopo le calunnie di un mio compagno di scuola, Gino Paladini, e constatata l’impossibilità di difendermi di fronte al responsabile, padre Gino Lanteri. Ho rimosso quelle accuse, sono però sicuro ancora oggi di quanto fossero false. Che padre Lanteri mi avesse severamente convocato per pormi di fronte al mio presunto cattivo comportamento, da cattivo ragazzo e soprattutto da pessimo aspirante, unito al fatto che praticamente non mi lasciò parlare, mi convinse che l’unica soluzione passava per le immediate dimissioni.
Cosa che feci a fronte alta, sia pur con la morte nel cuore per l’umiliazione subita e l’ingiustizia patita. Uscii sbattendo la porta del suo ufficio e non ci rivedemmo mai più. Quanto a Paladini, capii in seguito che, suo malgrado, doveva essere uno di quelli, giovani o anziani poco importa, che come missione nella vita hanno quella di dividere e infastidire, corifei di quel sottocomportamento tipico dei veri vigliacchi. Meglio essere un profumato risotto o una vera merda puzzolente piuttosto che essere una di quelle mosche che girano loro attorno.
Nel primo pomeriggio riceviamo la visita di Giacomo Albiero, 79 anni, e del suo amico Franco Capozzo. Giacomo è un anziano accademico, ex grande compagno di cordata di Renato Casarotto. È un po’ stanco, ma neppure troppo. La pressione è buona, il morale è alto. Parliamo di Renato, gli racconto che ho passato quasi due mesi in tenda con lui, che si è parlato molto della Magic Line mancata, dei suoi rapporti con Messner, buoni almeno per la durata della spedizione. Caso mai dopo si sono incrinati, forse per qualche dichiarazione male interpretata di qualche giornalista, o forse semplicemente a causa di due caratteri troppo forti.
Concordia, 8 agosto, ore 21
Più tardi nel pomeriggio appare Franco Capozzo, di Montecchio Maggiore, assieme a Roberto Mantovani. Sapevo che Capozzo e Albiero avevano fatto il trekking in compagnia di Mantovani e di Goretta, la vedova di Casarotto. Il loro è un piccolo pellegrinaggio, ancor più attuale se si pensa al destino di quelle povere ossa, riemerse dal ghiacciaio per la seconda volta.
Ora è arrivato anche Giacomo. Ho piacere a chiacchierare con Roberto, finalmente qualcuno che condivide con me la stessa passione, la storia, qualcuno che vede le cose successe quest’anno quassù con l’occhio non del giornalista o del curioso. Gli racconto le cose che so, senza prendere posizione, perché loro sono partiti dall’Italia il 28 luglio, senza aver avuto modo di approfondire. Apprezzano molto il grana che gli offriamo. Verso le 18 se ne vanno tutti e tre: domani andranno al Memorial e con Roberto c’è l’impegno a rivedersi. Ci sarebbero tante cose di cui parlare, qui tranquilli a Concordia. Speriamo possa succedere tra qualche giorno.
Mi telefona Silvia. Lei e Alberto sono arrivati a Skardu, domani partiranno per Askole.
La sera, cena solitaria con Giuseppe: siamo alle confidenze più intime e familiari. Deve aver visto in me un buon ascoltatore mentre, al contempo, quando parlo io, sento addosso la sua attenzione.
Concordia, 9 agosto, ore 2 e ore 9
Mi sveglio senza esitazioni, sta nevicando e basta scontrare con la testa il telo della tenda per sentire la neve che scivola dalla copertura esterna. Con la mano do qualche colpo, in modo da togliere più peso possibile, visto che non mi fido molto della solidità della mia abitazione. A lume di candela ricarico la pila con batterie nuove, piscio nella bottiglietta e infine mi domando perché mi sono svegliato.
La risposta è immediata: problemi di lavoro, più esattamente del tipo di lavoro che inesorabile mi attende a casa. Dieci anni fa, più o meno in questo periodo dell’anno, feci le “meditazioni dello scoglio” nei pressi di Levanto. Esasperato dalle difficoltà in cui eravamo, presi delle decisioni abbastanza drastiche che, però, quando applicate in autunno, risolsero la crisi. Sostanzialmente decretai la fine della K3 snc, con ciò che comportava per i soci, ed elaborai un piano di assorbimento in Edizioni Melograno srl delle attività che di K3 dovevano essere salvate. Decisi anche che la partecipazione di K3 in Montana srl (25% delle quote) doveva scomparire per lasciare spazio alla mia partecipazione diretta. Questa, di tutto il piano, era la parte più delicata, quella più difficile da giustificare con i soci.
Ma questi capirono e non fecero questioni. Paolo Romanini e Monica Mazzucchi furono liquidati, sia pur nel giro di qualche tempo; Giuseppe Miotti volle uscire poco dopo anche da Edizioni Melograno, società in cui Marco Milani incrementò le sue quote, diventando praticamente paritario con me.
Ottenni così di troncare una doppia gestione di attività, con tutte le spese che comportava, di liberarmi di due soci che non avevano più ragione di esistere e che erano più solo un peso, infine di riappropriarmi della mia idea “Montana”, che invece che conservare come “pascolo” personale avevo praticamente regalato a K3. Il rivolgimento fu sensibile, sottolineato poi dall’improvvisa necessità di cambiare sede entro dicembre e dall’autolicenziamento di Monica. Ma ce la facemmo, pagammo i debiti e continuammo le attività.
Dopo dieci anni, dunque, e a esperienza “Grandi Spazi delle Alpi” conclusa, la situazione è meno preoccupante dal punto di vista economico-finanziario, ma ugualmente intricata nei riguardi del mio eccessivo coinvolgimento e del “disordine” nell’operatività e nelle responsabilità. Per non parlare degli obiettivi a lungo raggio, praticamente inesistenti come progetti veri. Nuove figure sono entrate nella nostra orbita e pretendono giustamente un regolamento soddisfacente al di là delle buone intenzioni e dell’onestà di tutti.
Se vogliamo elencare le cose buone, troviamo materiale degno di nota. La mia amicizia e la collaborazione con il socio principale, Marco, non sono in discussione e mi pare siano ancora il perno dell’azienda. La figura di Priska Marchi, impiegata, è positiva. Il suo lavoro è fondamentale, sia per le questione pre-amministrative sia per la gestione clienti dell’archivio fotografico. Katja Roediger ha praticamente rifondato il reparto comunicazione, apportando tre clienti esteri che vogliono fare promozione nel pubblico italiano. Un enorme sforzo è stato fatto per la digitalizzazione e per la gestione dell’archivio fotografico, con programmi, PC, scanner e impiego di personale (Piero Gomarasca, Riccardo Martinelli); altrettanto per sistemare, e non abbiamo ancora finito, la nostra presentazione in internet che, nel nostro caso, ha significato anche maggior chiarezza nelle nostre idee. Come a dire che, se non avessimo messo ordine nella nostra presentazione, probabilmente avremmo maggior confusione su ciò che effettivamente facciamo!
Elencate queste premesse positive (e mi riservo di aggiungere ciò che eventualmente ho dimenticato), passo a descrivere per sommi capi le nostre attività seguendo approssimativamente l’ordine che diedi a suo tempo quando organizzai una tabella excel affinché ciascuno di noi potesse registrare i diversi lavori fatti, dividendoli quantitativamente in ore. Tabella che Marco e Katja non degnarono del loro interesse, adducendo che risultava loro impossibile, a fine giornata, riassumere le singole attività. Provai a insistere ma non ottenni nulla, perciò lasciai perdere, non senza delusione. Si confermava sempre più difficile governare il timone di questa barca multidirezionale.
A fronte di un’unica società legale, che fattura e paga le tasse, Edizioni Melograno, abbiamo quattro rami d’attività: libreria, fotografia, comunicazione e lavori verticali. Convergono nella libreria le nostre rare edizioni, le vendite di pubblicazioni a librerie e privati, ivi compresi anche i titoli che compriamo da altri editori. Vi converge pure il tradizionale calendario che realizziamo ogni anno. Se è stato comodo coeditare con Priuli&Verlucca i Grandi Spazi delle Alpi, la mancanza di nuovi nostri titoli ci ha tagliati fuori dalla distribuzione e da molte librerie. I margini sui libri comprati e rivenduti non sono molto alti, ma è soprattutto lo scarso volume di affari che stenta a giustificare questo impegno. I libri vanno comprati, pagati in anticipo rispetto ai ricavi, vanno registrati, immagazzinati, poi impacchettati, spediti, fatturati. Spesso si va al recupero crediti. I costi di Riccardo non sono per nulla lievi. Sto seriamente meditando di chiudere questa attività che provoca un passivo esiguo e con scarse possibilità di diventare attivo (anche piccolo). Per le nuove idee editoriali vi è il dubbio se impegnarsi come autori (Milani e io) di grosse case editrici, oppure cercare tenacemente altre coedizioni, magari con gli stessi Priuli&Verlucca.
Il ramo fotografico (K3PhotoAgency) è probabilmente il meglio organizzato: si tratta di fare le foto più belle possibili, classificarle e custodirle; si tratta di ricercarne altre da fotografi terzi; realizzarne le scansioni e organizzarle nel programma Portfolio; indi didascalizzarle (prima o poi anche in inglese) e rispondere alle varie richieste delle redazioni con selezioni ben fatte e tempestive. Con l’acquisto di due macchine digitali, il processo di scansione è evitato, ma molte sono le immagini, spesso di grande formato, presenti nel nostro archivio e ancora da scansire. L’investimento durerà ancora a lungo, ma già si vedono i primi risultati, cioè l’autoalimentazione del sistema. Gli utili verranno dopo, unitamente a una sempre meno necessaria nostra presenza.
In questo ramo rientrano anche saltuari lavori fotografici su commissione, in genere affidati a Marco (che è andato perfino ad alcuni matrimoni), oppure reportage a documentazione di lavori di bonifica (affidati a me).
Sotto il nome di Kappatre Comunicazione passano le attività di pr, promozione e cultura. In questo momento Katja si occupa (coadiuvata da me per i testi e da Marco per la presentazione internet dei comunicati stampa e per l’indirizzario gestito in rete) di tre clienti tirolesi (Stubaital, Innsbruck e Ischgl) che vogliono allargare la loro clientela italiana. Katja tiene i contatti con i giornalisti del settore turistico e confeziona i brief dei comunicati stampa; assieme organizziamo eventi stampa, vale a dire portiamo in loco i giornalisti interessati, ospiti per due o tre giorni delle località. I tentativi di allargare la clientela, anche in campo italiano e svizzero, procedono. Siamo anche impegnati, grazie all’aiuto di Laura Melesi, nelle funzioni di ufficio stampa dell’Ente Fiera di Brescia, quindi nella diffusione dei comunicati relativi alla prossima fiera Sportout e nell’organizzazione degli eventi collaterali con i testimonial sportivi. Ed è dell’ultimo momento il via alla mostra che il Comune di Milano vuole organizzare per ottobre/novembre con tema Milano e il K2. Giovanni Alfieri ci si è buttato dentro e io gli ho dato fiducia da lontano. Questo è un campo praticamente senza limiti, se riusciamo a essere bravi possiamo anche avere incarichi permanenti. Io miro all’Ufficio Stampa delle Guide Alpine della Lombardia o, prima o poi e addirittura, del Club Alpino Italiano. Le difficoltà di coordinamento di questi lavori di comunicazione sono notevoli, perché passano attraverso le consulenze di liberi professionisti che devono essere inquadrate sia economicamente che formalmente, pur conservando lo status di lavori a termine.
Grande importanza annetto al fatto di essere stato nominato, tra le guide alpine, “addetto ai rapporti editoriali e di comunicazione con il TCI”. Le guide hanno voluto aprire un nuovo canale, al di là di quello tradizionale con il CAI, e hanno trovato porte aperte nel TCI.
Le mie collaborazioni a giornali, enciclopedie e riviste, come pure i miei libri in corso d’opera, rappresentano qualcosa di maggiormente legato alla mia persona e alla notorietà della mia figura, piuttosto che a un lavoro di équipe. L’esempio più lucido è dato dalle mie conferenze, legate ovviamente all’immagine di Gogna alpinista e ambientalista. Il fatto che io metta a disposizione di Edizioni Melograno questi ricavi (che tra l’altro esigono poche spese) è fuori discussione, anche perché non desidero comparire mai più come singolo professionista dotato di partita iva. Però avverto una leggera scissione, quando penso che ci sono stati momenti di particolare fatica degli altri rami in cui l’intera struttura si è retta su questo tipo di ricavi.
E non è finita, perché questo discorso diventa ancora più duro se andiamo ad analizzare la quarta attività, K3 lavori verticali. Qui è tutto imperniato esclusivamente sulla mia persona: i lavori nella formazione da me condotti in quanto guida alpina, i lavori con le case di produzione dei film pubblicitari in qualità di tecnico (location, ecc.) e infine, e soprattutto, i lavori di bonifica territoriale che si sono susseguiti per sette ininterrotti anni, dal Monte Bianco allo Stelvio, dalla Marmolada al Plateau Rosa e all’Adamello, dall’Everest al K2, tutti realizzati come consulente esterno di Montana e come responsabile dei lavori. Il fatturato di queste attività è percentualmente più che significativo nel nostro bilancio. Se io mi rompessi una gamba o mi stufassi di stare qui a Concordia, i ricavi diminuirebbero drasticamente. Ecco perché mi sento a disagio e ho fissato su carta queste note, perché ritengo sia sbagliato continuare ad affidare la sopravvivenza e i nuovi investimenti di una società alle attività di un singolo, che comunque ha e deve avere i suoi limiti.
D’altra parte le necessità di danaro ci sono e rimangono: Marco e io siamo sempre gli ultimi a essere pagati e, se non fosse per alcuni benefit di cui godiamo, i nostri onorari non supererebbero quelli di Priska. Così la situazione non può reggere a lungo. Marco ha anticipato molti soldi di apparecchiature, io quelli della mia auto. Luisa Raimondi, compagna di Marco, continua ad assisterci per molte cose a titolo gratuito, dalla grafica alla gestione dei nostri siti internet.
E in ultimo, i ricavi relativi ai Grandi Spazi delle Alpi, oggi regolari e soddisfacenti, subiranno prima o poi una logica diminuzione (a meno che non si verifichino vendite speciali, grosse ristampe dedicate o vendite di diritti all’estero): questo è un ulteriore campanello di allarme che spinge alla prioritaria ricerca di lavori a reddito fisso, a contratto almeno triennale. La lontananza, poi, di tutti questi attori, quasi mai riuniti a lavorare sotto lo stesso tetto, è un ostacolo che va gestito. Marco abita a Besana Brianza e viene in ufficio circa due giorni alla settimana. Katja, con due bambini piccoli, abita a Merate e non viene mai. Laura abita a Lecco e io, ultimo, abito a Milano ma preferisco passare tutta la mattina al computer nella pace di casa mia. Con la posta elettronica si fanno miracoli, teoricamente tutti sono sempre informati di tutti, ma intanto in ufficio i topi ballano, specie Riccardo, in questo momento a briglia sciolta nel perdere più tempo possibile.
Ciò che ho appena descritto è causa del mio terrore del ritorno. L’8 settembre e successivi saranno veramente giorni focali. Non mancherò all’appuntamento, ma per non essere travolto dovrò presentarmi con soluzioni precise e inappellabili, alla faccia della società e dei consulenti. D’altro canto sono sicuro che Marco capirà e che le obiezioni saranno solo costruttive.
Concordia, 9 agosto, ore 10.30
Ieri sera, prima di cena, dopo essermi coperto con la giacca duvet, mi avvio fuori tenda per pisciare dal solito ciglio sulla balza ghiacciata.
A un centinaio di metri da me le ormai familiari “vele” di ghiaccio, accanto al torrente. Oltre, sono le morene che ci dividono dal Mitre Peak. Lì ci dev’essere anche la caverna in cui scompare per un lungo tratto il corso d’acqua glaciale. A un tratto vedo una figura umana che ballonzola sul ghiaccio, in equilibrio su scarpe lisce: dev’essere Ibrahim, mi dico, lo riconosco da come si muove. L’avevo osservato attentamente sui massi di Urdukas, gesti istintivi, suoi e basta. Non capisco cosa stia facendo, se cerchi o voglia nascondere qualcosa. Lo vedo spiare in una fessura del ghiaccio, poi scendere ancora verso un’apertura più grande, forse proprio la bocca d’inghiottimento. Poi allarga le braccia, forse per tenere l’equilibrio, forse per ammirare ciò che sta vedendo.
Poi risale a passi veloci verso la morena e verso di me. Con occhi che brillano mi descrive nel suo inglese smozzicato la caverna di ghiaccio che ha visto, con i giochi di luce e i riflessi.
“Caro Ibrahim,” mormoro tra me, “tu hai l’animo dell’esploratore, chissà cosa avresti potuto fare se tu non fossi nato baltì…!”.
In lui vedo l’individuo che va oltre, forse destinato a essere un esempio, forse così solo da non essere mai seguito.
Concordia, 10 agosto, ore 7
«Questa non è montagna. È fantascienza. Chimica stellare. Esperimento pazzo sugli spalti proibiti della Terra (Fosco Maraini)».
Tra i vari sogni fatti a naso chiuso, uno riesce a svegliarmi. Se il resto era credibile, questo ha una stranezza, un’impossibile verità agghiacciante: Guido Daniele e suo figlio Michael sono precipitati in ascensore e morti. Così, semplicemente. La notte fra l’8 e il 9, forse perché avevo appena finito di leggere L’ultima missione, una guerra sottomarina dove la fine arriva improvvisa, determinata da eventi paragonabili a mosse di scacchi, almeno la metà delle quali non dipendenti dalla nostra volontà. Una serie di asciutte tragedie in fondo all’oceano.
Ma perché Guido? E soprattutto Michael, che conosco appena? Guido, un pittore, rappresenta per me l’aspetto godereccio della vita, sia pur collegato al genio artistico, alla pazienza pittorica, all’ordine comunque in un’esistenza disordinata, l’evoluzione di un hippy. L’uomo che non esita ad andare a Cuba anche più di una volta all’anno, alla ricerca di sesso sensoriale, nell’adorazione di un atteggiamento di vita che, per lui, da noi non esiste più.
In effetti, tra gli innumerevoli luoghi che potrei scegliere per una vacanza, Cuba per me è sempre stata in ultima posizione, a pari merito con il Brasile.
Lo so che sono pregiudizi. Forse ho paura di un certo modo di vita. Di fatto le mie simpatie vanno ad altri paesi. Non è un caso che io non abbia mai messo piede in America Latina o Centrale, quando più o meno ho visitato gli altri continenti (a parte il disabitato Antartide).
Dunque Guido e il suo entusiasmo per Cuba rappresentano un mio opposto, una parte di me rifiutata, e fin qui va bene. Ma perché questa sta morendo? E di schianto, poi. Qui a Concordia siamo quasi agli antipodi di Cuba, non geograficamente, di certo come stile di vita. Qui però è uno stillicidio giornaliero di piccole sofferenze, sopportate in nome di una causa lavorativa, in definitiva di un sacrificio volontario. Ma se ciò è vero, avrei visto una morte di Guido più lenta, più agonica, meno teatrale, cui si poteva ricorrere in appello…
E Michael? Chi è per me? Un motivo per strappare maggior dolore, un’identificazione in lui di una mia ritrovata, ma ancor giovane, parte inconscia che tutto sommato va d’accordo con il padre?
In ogni modo è preoccupante. Non mi va di vedere amici, né figli di amici, morti per incidente, non mi va di assistere alla fine di alcuna delle mie parti.
Vedremo nei prossimi sogni. E l’ascensore? Come se quell’atteggiamento di vita cercasse (o avesse cercato) di risalire dalle profondità dell’inconscio. Bella immagine… Ma poi il guasto tecnico, e l’ascensore precipita con il suo prezioso carico. Fin qui il sogno non ammette né repliche né varianti, sembra una condanna definitiva.
La cena nella tenda igloo di Annalisa è stata piacevole, caratterizzata da una gigantesca pizza à la Baltoro (no comment) e da generose quantità di grana e prosciutto crudo (quello del senatore Giovanelli). Tagliare il prosciutto non stagionato con un coltello davvero inefficiente è stata un’impresa: fuori nevicava di brutto, la guida pakistana continuava a telefonare. Il discorso è stato ucciso da una raffica di barzellette di Giuseppe: noi crepavamo dal ridere, assieme agli argomenti conviviali. Una di quelle che ricordo: “Dottore, dottore, posso fare il bagno con la diarrea?” – Risposta: “Se ne ha abbastanza…”.
Il ritorno lo facciamo in un momento di tregua, con la mia solita pila traballante. Nella nostra tenda-mensa, dove entro per prendere un po’ d’acqua per lavarmi i denti, trovo quattro portatori che si affannano dietro alla loro stufetta. Chiedo il permesso di usare una loro tazza di metallo, bianca: accordato.
– Salamaleitchum!
– Aleitchumsalam.
Ho bevuto, ho risciacquato i denti in una loro tazza, dopo aver visto a fine pomeriggio cavare un dente, e dopo aver visto così tanti casi di infezioni gengivali e ascessi.
Il mondo è davvero sofferenza, per alcuni più che per altri. E Cuba? È lontana anni luce, qui si svolge “l’esperimento pazzo sugli spalti proibiti della Terra”. Chimica stellare e fantascienza faranno il miracolo di avvicinare oggetti distanti ventimila km e separati da 4600 metri di dislivello? Altro che ascensore… Guido, se avessi qui il tuo numero ti manderei un messaggino… potrei chiederlo a Guya… lo farò? Può cadere un ascensore da 4600 metri e far sopravvivere tutti felici e contenti?
Concordia, 11 agosto, ore 6.45
Ieri sono arrivati tutti i componenti dell’11° gruppo, guidati da Luca Salsotto, di Cuneo, e Claudio Chiaudano, di Brescia, in un totale di 32. Come sempre sono arrivati in ordine abbastanza sparso, la media è abbastanza giovane, provenienti da ogni parte d’Italia. Ci sono anche due francesi di Grenoble, padre e figlio. Quest’ultimo è giovanissimo, grande e grosso e somiglia a Primo Carnera: mangia come un bue, ma comincia sempre dopo gli altri in modo da non prevaricare.
Nel gruppo non ci sono particolari tensioni, ma ho già potuto, specie la sera al momento del briefing, individuare vari caratteri.
Divisi grosso modo in due categorie, ansiosi e non ansiosi, tutti s’interrogano sulle loro possibilità di raggiungere il CB del K2. Due hanno già deciso di fermarsi qui a Concordia, per problemi di respirazione insufficiente.
Tra i non ansiosi ci sono quelli che stanno benissimo e quelli che hanno qualche problemuccio, dal leggero mal di testa alla stanchezza, dal respiro un po’ difficoltoso all’inappetenza. È lo stesso tra gli ansiosi, ma qui tutto si traduce in una serie di domande le cui risposte non riescono quasi mai a placare l’ansia, anzi a volte l’accentuano.
Molti si sono dotati di mezzo portatore personale per il giorno dopo (cioè uno ogni due persone), pagato la bellezza di 800 rupie (ma per me i due terzi rimangono in tasca alla guida pakistana), alcuni hanno preferito rimandare alla mattina dopo la decisione se partire o meno.
Qualche piccola tensione spunta allorché v’è da stabilire la quantità di sosta che il gruppo dovrà fare. Uno, particolarmente competitivo (ma perdente), insiste sul fatto che non deve essere una gara (ma tutti assicurano che gara non c’è mai stata). E allora perché nelle tappe precedenti ci si sgranava come in un gran premio della montagna? Perché ognuno andava al suo passo, ma domani sarà diverso… perché altrimenti mettiamo i numeri sulla schiena e via… insiste lo stizzoso competitivo.
Alla fine le guide riescono a dirimere la questione, usando un po’ di autorità. Si conclude con la giaculatoria del bel tempo, che in effetti lascia un po’ a desiderare.
Luca mi fa parlare per una decina di minuti sulla gestione ambientale: le domande poi sono parecchie. Infine viene servita la cena.
Alle 5 di questa mattina li ho sentiti partire, il tempo non è male anche senza essere splendido.
Alle 6.50 Bashir mi chiede il permesso di allontanarsi per 6 giorni. Deve tornare al villaggio e ha trovato un sostituto. Mi spiace, temo abbia un problema, ma lui non si sbilancia. Si limita a chiedermi, con fare serio e risoluto, il permesso.
Speriamo torni effettivamente tra sei giorni. Sono indeciso se andare a vedere il loro lavoro o se andare con Annalisa alla base della montagna di Sella. Ora vedrò, dopo colazione.
Concordia, 11 agosto, ore 15
Il problema di Bashir è che lui è anche insegnante al suo villaggio. Ha ricevuto un biglietto dalla sua scuola dove gli si chiede di presentarsi. Quindi deve recarsi là per trovare un sostituto e per chiedere ancora un po’ di giorni di permesso.
Il suo sostituto qui per queste giornate è Fasal Hussein: decido così di andare sul luogo del loro lavoro, nelle località classificate come Conar 4, 5, 6. In compagnia di Mehfuz li raggiungo, stanno pestando a grandi colpi di pietra una montagna di barattoli in Conar4. Poi ci spostiamo a Conar5, dove il meccanismo si ripete. Conar6 è già a posto, le lattine sono schiacciate, insaccate e pronte per il trasporto. Nel frattempo si sono fatti un tè e ce ne hanno offerto.
Al ritorno, mentre Mehfuz circuisce un conducente di carovana di asini che stanno salendo, io vado a visitare Conar3, 2 e 1, trovandoli pronti per il trasporto. Anzi, mi sembra che manchi qualche carico, e infatti Mehfuz mi conferma di averne già spedito 10 o 12 ad Askole.
Tornato al campo trovo il dottore che intrattiene i quattro che hanno preferito riposare e non sono andati al CB del K2, così mi siedo per fare quattro chiacchiere.
Mehfuz arriva trionfante per dirmi che tutti i carichi partiranno dopodomani per Askole con gli asini. Quello del trasporto era un grande problema, mi aveva spiegato. Ché lui è sunnita, i baltì sono sciiti, lui è di Chilas, loro hanno anche da lavorare i campi, e infine che ben 500 carichi giacevano al CB del K2 in attesa dei portatori, per non parlare di Broad Peak o Gasherbrum. Questo voleva dire mancanza di manodopera. Io invece sospetto che offrisse loro troppo poco e giocasse al risparmio.
Sostanzialmente quindi siamo a buon punto: i collector preferiscono ridurre il volume delle lattine a colpi di pietra che, se ben assestati, permettono la schiacciatura di 3-4 barattoli per volta, piuttosto che a martellate. I punti d’intervento sono praticamente esauriti, qui a Concordia, a parte una verifica finale al campo orientale. Poi vedremo, se fare una puntata ancora ai CB del K2 e del Broad Peak o se anticipare il lavoro a Gore 2, in attesa dell’arrivo di Silvia e Alberto.
Concordia, 11 agosto, ore 16
Quelli del gruppo stanno rientrando alla spicciolata, io sono in tenda e fuori pioviggina, come quasi al solito: su venti giorni passati a Concordia, solo otto sono stati di bel tempo. Finito di scrivere il sunto della giornata, sono qui a riflettere sulla mia condizione. Di cosa ho ancora bisogno per meditare? Perché non riesco a imitare il Buddha? O meglio, perché non sento ancora dentro di me quella felice condizione di uomo sereno?
Io ci speravo. Credevo che la solitudine e l’isolamento favorissero una maturazione. Spesso invece avverto fastidio per essere qui, lontano da tutti, a volte inoperoso, desideroso che il tempo passi, che il programma si svolga.
Mi tengo in serbo alcune cose, come le gite all’Ali Camp o alla Quota 5461 m, se arriverà la Noblex. Attendo i piccoli eventi, come gli arrivi dei gruppi o gli incontri casuali. Ma in realtà sono un infelice travestito, mi rifugio nel sonno, nelle fantasie sessuali, contraddico pienamente la massima cui avrei voluto sempre rimanere fedele, cioè «sii felice dove sei, non desiderare mai di essere altrove».
Conto sulle dita i momenti leggeri, la confidenza che mi ha fatto Petra riguardo al suo non poter entrare nel mio studio, la lettera ricevuta da Guya tramite Mario, il ricevimento (ieri) del tester che mi ha permesso di verificare che (grazie al consiglio di Verza) ero stato in grado di ricaricare le quattro batterie, date per spacciate. Sono piccole cose, ma ce ne vorrebbero di più: sono importanti, ma da sole non bastano. Non sono sufficienti perché io non sono in grado di assorbire da loro la quantità di energia che potenzialmente possono dare, come se la volessi sprecare.
Sono infastidito perché devo scrivere in tenda, non posso occupare il tavolino della tenda medica, dove la gente va e viene. Ieri ho perfino giocato al computer, Freecell e Solitario, come nei peggiori momenti a casa mia.
Scelgo la posizione, ma alla fine è una sola, sdraiato di schiena. A occhi aperti, a occhi chiusi, lasciare libero il pensiero o costringerlo su un tema: il mio è un girare a vuoto, attorno al nocciolo, che è là, ancora da svelare, rivestito da anni e anni di azione.
E a questo punto dell’avventura di lavoro, oltre la metà, ho meno paura che all’inizio. Alla partenza mi ero sorpreso a pensare che avevo tanta paura per l’implicito e possibile cambiamento. Sembrava ragionevole, quasi un’intuizione. Ma ora? Ora che non ho più paura, dove è il cambiamento? La trasformazione non c’è, dunque il timore decresce.
Continuo a perdermi nei vicoli dell’Io, non c’è respiro, non c’è la grandiosità dell’Essere. Le cattedrali che mi circondano sono anche un incubo del passato, quando desideravo salirle tutte: e la loro bellezza per ciò che mi riguarda si esaurisce nel momento in cui le fotografo, come fossero donne da possedere e quanto ad amarle c’è sempre tempo.
Venti giorni che dormo sul ghiaccio e ancora nessuna illuminazione, solo dolorini e bugne nella schiena, pisciate notturne nella bottiglia, cagate diurne in cessi comuni. Guardare come vivono i baltì quassù, senz’altro con meno lussi di me, aiuta. Per loro è tutto normale, anche quando si presentano con aria sofferente al medico e lamentano tosse, mal di testa, o anche vomito e febbre. Però, che Giuseppe mi abbia regalato un paio di sandali da riposo, è più importante. Almeno al ritorno non soffrirò più con le estremità costrette negli scarponi come è successo all’andata.
Ecco, questo è tutto. Non ho più nulla da scrivere, ho solo da riprovare a sdraiarmi e stare fermo. Immobile. Un forzoso letargo della mente, unico antidoto a questa immensa prigione. Ricordo la fortezza di Orvieto, tanti anni fa. Rigido nella mia divisa di lana grigio-verde, guardavo l’Autostrada del Sole e il suo traffico: non vedevo l’ora che quel Centro Addestramento Reclute finisse, ne avevo abbastanza di quell’inutilità, del rancio, del cubo delle brande, dei commilitoni, della fureria, dei cessi. E del tanto freddo che sentivo, lontano da casa e dalle mie passioni. Ma almeno allora non cercavo nulla, attendevo e basta. Attendevo la fine, quella era la soluzione. Ora, accanto all’attesa, c’è la netta sensazione di fallimento, un binomio che non auguro a nessuno.
Concordia, 12 agosto, ore 8.30
Ieri sera due di Biella mi hanno confidato di essere stati amici di Guido Machetto, di averlo seguito in tutte le sue scalate. Lei mi ha chiesto se ero io il compagno di Guido al Tirich-Mir.
– No, quello era Gianni Calcagno…
– Ah, certo, Calcagno.
Il discorso è scivolato sull’Annapurna, su Leo Cerruti, su Miller Rava, altro biellese.
– Sono un sopravvissuto! – è il mio commento finale, nel senso che non sarebbe stato opportuno rattristare ulteriormente la cena.
Sopravvissuto! era il titolo di un libro di Messner. Sopravvissuto, posso dirlo anch’io. Rivedo tutti quegli amici, ma poi mi stanco. Forse è più funzionale passare in rivista quelli che sono ancora vivi. La moltitudine si affolla alla memoria, rivedo i loro volti, per nulla sfuocati, in disordine, senza rispettare i tempi, scomparire in modo violento. Gianni, certo. Leo, Miller, Guido e poi Lorenzo Pomodoro (solo per citare quelli dell’Annapurna); Renato Casarotto, Michl Dacher e Friedl Mutschlechner (solo per citare quelli del K2); e poi Gianni Ribaldone, il mio maestro, Paolo Armando, Andrea Cenerini, Ettore Pagani (saltato su una mina in Niger), Benvenuto Laritti, Renato Reali, Cosimo Zappelli, Claude Barbier, Gian Piero Motti (morto sulla cima più difficile), Patrick Cordier, Joe Tasker, Pete Boardman, Tiziana Weiss, Roberto Bassi, Ermanno Gugiatti, Gianpietro Masa, Franco Piana, Lorenzo Mazzoleni, Patrick Bérhault, Jean-Marc Boivin, Eric Escoffier, Wanda Rutkiewicz, Jerzy Kukuczka… ma andare avanti con questo elenco sarebbe una sciocchezza assoluta e lo chiudo qui quando ormai mi si affollano altri nomi. È sorprendente quanto poco sfuocate siano queste immagini, in movimento. Ciascuno per sé, a meno che non siano morti in coppia. Mi guardano, come mi guardavano quando erano in vita; quando il dolore supera una certa soglia, i volti scompaiono come in una proiezione di diapositive.
No, tutti assieme sono decisamente troppi, meglio lasciarsi avvicinare dai singoli, ogni volta che lo desiderano, ogni volta che siamo pronti.
(continua in https://gognablog.sherpa-gate.com/sulle-orme-di-vittorio-sella-2/)
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Ricordo molto bene quel giorno e l’incontro con te Alessandro e Annalisa in quel luogo stupendo con quella bellissima vista sul K2
Quasi 10 anni fa ho assistito a una conferenza della dottoressa Annalisa Fioretti, nel frattempo non più signorina ma con un marito e due bambini. Ricordo che disse di aver scoperto l’alta montagna per caso, inviata improvvisamente come medico se non sbaglio alla piramide ai piedi dell’Everest. Ha sottolineato di aver sì mancato la vetta di alcuni “8000” ma di esserle rimasto un grande viaggio. Ha illustrato la sua attività di soccorso a popolazioni nepalesi colpite dal terremoto del 2015. Ha inoltre puntualizzato uno dei suoi bambini la rimproverasse di fare scalate pericolose, capovolgendo il tradizionale ruolo madre-figlio.
Sono soprattutto le tue riflessioni, il guardarsi dentro, che mi piacciono.