Il bosco atro e la scalata
(da Un alpinismo di Ricerca e da La Parete, 1981)
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***
Il bosco atro
“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita (Dante, Inferno, I, 1.3)”.
Camminavo nel bosco con la ferma intenzione di attraversarlo. A Benares mi avevano detto che la foresta era grande e buia ma che, se ero abituato a camminare, avrei potuto essere dall’altra parte il mattino dopo. Il che voleva dire camminare per tutto il giorno e dormire all’aperto, sotto un albero. Le ore di marcia non mi spaventavano e neppure la solitudine. Ero anche certo che avrei potuto evitare di caricarmi di cibo e di acqua. Ero abituato a credere letteralmente alle parole della gente, senza dar peso alle sfumature. Il lieve sorriso di quel contadino, quella vaga strizzatina d’occhi, per me erano state senza peso. Dopo gli ultimi pascoli, ecco le prime piante; il sole per un po’ riuscì a trapelare ma dopo fu la foresta più fitta. Il passo era spedito, saltellavo evitando il grosso delle macchie di mirtilli. Spesso un muschio più morbido e più dolce-verde era combinato a una pozzanghera spugnosa di acqua nitida. Ero molto felice, avevo incontrato una numerosa famiglia di gallinacci e li avevo messi nel tascapane, subito sotto alla macchina fotografica e ai rotolini di pellicola. Pensavo che la sera me li sarei arrostiti volentieri con quel po’ d’olio che mi ero portato, la padella sulla legna. Come condimento miele e cipolline, che dicono essere una vera specialità. Dopo qualche ora di marcia sostenuta, sempre minori tracce di passaggio umano potevo osservare. Mi venne il dubbio di essere il primo. Incontravo radure deserte, in luce incerta di penombra. Nessun rumore. Quando già cominciavo a entusiasmarmi delle mie piccole scoperte, ogni tronco era nuovo, ogni filo d’erba era diverso, ogni orma era di un animale mai visto, mi trovai improvvisamente sul ciglio di un enorme nastro asfaltato, precisamente in corrispondenza di un grosso cartello che minacciava severe punizioni a chi gettava spazzatura a lato della strada.
Seduto e deluso sul guard-rail, osservavo un TIR Scania autosnodato che con immane fragore procedeva in direzione occidente. A questo fece seguito un lungo corteo di mezzi a motore, dalle targhe più svariate. C’erano auto utilitarie italiane, camper americani, berline giapponesi. Non solo non ero primo, ma ero proprio l’ultimo di quella folla, diseredato autostoppista. Mi venne in mente che avrei potuto vendere ciclamini o anche i miei funghi. Al primo che si fosse fermato, un bel colpo di piccozza sulla testa e via con la sua auto. Poi pensai che erano tutte macchine teleguidate e che sarei finito dritto in prigione. Traversare l’autostrada fu un’impresa, nessuno voleva lasciarmi, anzi facevano a gara a investirmi, cercando senza complimenti di lisciarmi sull’asfalto. Per fortuna non ci riuscirono: però me la vidi alquanto brutta. Chissà quali erano i pensieri di quella gente: per ore e ore costretta a guidare dei mezzi che ormai andavano da soli, la conduzione dei quali non richiedeva più che un intervento ogni tanto. Le sigarette e altri intrattenimenti potevano aiutarli a non pensare, ma poi? E soprattutto dove andavano così in fretta e da dove venivano? E perché non sapevo niente di tutto questo e i contadini non me ne avevano parlato? Mi accinsi a passare la notte a circa cento metri dalla corsia nord. Per tutte le ore notturne fu un seguito di rumori assordanti, tanto che non chiusi occhio. Non ebbi neppure il coraggio di farmi i funghi né di assaggiare qualche cipollina.
La scalata
“Once I could habitualise into climbing the Wall, perhaps it would seem no different from any climb I had done before (Pete Boardman, The shining mountain)”.
“Una volta abituato a salire sulla Parete, forse non avrei più visto differenze con le scalate che avevo già fatto (Pete Boardman, La montagna di Luce)”.
Ero un alpinista, uno che scalava le montagne. Ero fiero di me e avevo avuto anche molta fortuna. Ma «vien sempre il tempo di mollare le menate (Eugenio Finardi)», sempre che di menate si riconosca che si tratta. Una volta scrissi un libro dove la pretesa di dire la verità era superiore al volerla veramente vivere. Il titolo sembrava umile: un alpinismo di ricerca. Come dire «ehi, ragazzi, sono in ricerca! Non vogliatemene se dico cose che ai più suonano misteriose o indigeste. Sapete, devo raccontare, come faccio a tacere la verità? Vorreste evitare di cercarla? Scoprirla? Riferirla?».
Ma in base a quale motivo pretendessi che agli altri la verità fosse sconosciuta o comunque che fossi tra i pochi sul sentiero di ricerca, fu per me un mistero. Riassumendo i capitoli del libro, sfogliando le pagine vedevo «io». Ho sempre avuto una buona considerazione di me e non soltanto di me ma anche dei perché che potevo avere «io», delle risposte che riuscivo a darmi «io». Come tentacoli invisibili affioravano le battute di spirito nelle condizioni più difficili, le macabre allusioni alla nostra sorte se qualcosa non avesse funzionato, i falsi pudori, le false umiltà, le frasi «intelligenti». Il libro girava i suoi fogli, ci si avviava alla fine, le cose accennavano a cambiare, giungevano le pagine che ancora oggi non mi pento d’aver scritto dove l’idea era allo stato puro. Negli ultimi due anni la ricerca era «precipitata».
Ideali crollati come castelli di carte furono da me sostituiti con altri che sembravano allora più solidi. Dall’alto della collina sulla quale salivo, vedevo che tra me e gli altri c’erano ancora forti ideali comunitari. Qualcuno timidamente scandagliava il fondo. Stavamo approdando anche loro alla Nuova Terra. Ma non c’era urlo di gioia, s’udiva solo una lamentevole preghiera. Si implorava miserabilmente di essere seguiti sulla medesima strada, perché la paura faceva tremare, non si sopportava di essere soli, o di credere d’esserlo. Gli urli erano di richiamo a chi veleggiava sicuro e le minacce erano terribili. Ma sembrava che nessuno sentisse, se non i pochi compagni di sventura. Dall’alto della mia collina vedevo ancora tutto il triste scenario di chi si affannava a proclamare la «rivoluzione totale» prossima ventura. Nel tentativo antropofago che seguì al nostro sbarco sulla spiaggia, nella caccia all’uomo più cruda e più vera alla quale avessi mai partecipato, provai nausea e fuggii lontano, dove lo spettro delle ghigliottine non tormentava gli ideatori delle rivoluzioni. La mia destinazione era l’Est. Fu un viaggio memorabile. Ero andato in Asia per colonizzare a mio modo i miei dissimili e per dominare con astuzia la quarta montagna del mondo, il Lhotse. Entrambe le guerre furono dure e per fortuna le persi, anzi riconobbi dopo qualche tempo la mia impotenza. Ma nell’altro continente, l’Europa, mi attendevano i soliti nemici e durante la via del ritorno ero incerto. Mi si affacciò un compromesso. Avrei potuto tornare l’anno dopo in Asia, per tentare il Dhaulagiri, ma questa volta ci sarebbero stati gli amici con me. Ero sinceramente contrario a salire le montagne extraeuropee con i sistemi e con la mentalità che da quando ero approdato sulla spiaggia e da quando ero sfuggito alla caccia all’uomo, condannavo apertamente. Speravo che gli amici mi seguissero ma presto compresi, e qui fui consigliato da Nella e da Gian Piero, che non potevo pretendere da altri ciò che non avevo la forza di mettere in atto io stesso. Compresi che la mia era una spiaggia fittizia, che le idee delle quali mi ero imbevuto non solo erano irrealizzabili, ma addirittura devianti, uno specchietto per allodole. Secondo l’idea più forte allora, pretendevo che la competizione in alpinismo cessasse per dar luogo a un’amabile convivenza pacifica di «amanti» della montagna. Il sistema capitalistico, base della connivenza tra egoismo e alpinismo, doveva scomparire nella dialettica stessa della storia e dell’alpinismo; e tutti sarebbero vissuti felici e contenti. Purtroppo era già stato ampiamente dimostrato che non si cambiano gli individui cambiando la società. Casomai, molto difficoltosamente, avviene il contrario e anche questo può rivelarsi un’illusione.
Salendo la facile collina, guardando la spiaggia dalla quale mi ero appena allontanato, non sarei mai andato molto lontano. Non basta contemplare i propri errori. E ancora oggi nulla sarebbe mutato se, durante il viaggio di ritorno, mentre facevo il bagno sulle spiagge vicino a Tessaloniki e mentre soffrivo di una fastidiosa diarrea per i troppi yogurt sorbiti in Turchia, qualcuno non mi avesse fatto recapitare un messaggio non scritto e non registrato. Non conoscevo allora costui e neppure oggi so bene chi è. Non si è mai neppure presentato, fisicamente intendo. Forse è qualcosa di meglio di un angelo custode, è simpatico ma sempre piuttosto scorbutico e inavvicinabile. A volte penso che sia il mio destino. Certo che quella volta in Grecia fu grande! Come quando si è soli in un deserto e non si comprende chi abbia urlato così forte. L’orecchio ancora risuona di quella sferzata e gli occhi nulla vedono. Il dubbio di essere pazzi sulle prime non interviene e non si è turbati: le certezze di brutto scherzo o di affascinante miraggio si fondono in statua bifronte, l’inganno è evidente ma non si hanno le prove. Non l’avrei mai riconosciuto s’egli non mi avesse stretto la testa tra le mani costringendomi con una forza inappellabile e contro la mia volontà ad alzare gli occhi al cielo. Ciò succedeva e io avevo un libro in mano, stavo leggendo con le spalle a sud-est. Non vidi l’Olimpo e neppure il Monte Athos, vidi una montagna enorme. Non ricordavo che una massa così vertiginosa fosse segnata sulle carte geografiche ed era probabile che non avesse nome. In quel momento mi scosse un terribile rumore e la vidi crescere al di là di ogni misura e quando toccava ormai le nuvole mi chiesi quanto poteva essere alta, ora che sembrava essersi fermata. Senza rumore riprese a crescere, alla sua base ci fu un ribollio di sfere di sapone che si gonfiavano, scorgevo le cime degli abeti curvarsi sotto un vento di tempesta. Ormai non distinguevo più la vetta, era scomparsa dietro le nubi, ma la base e i fianchi si delineavano ancora bene. Questi non erano difficili, forse più adatti al pascolo arcadico che non a sollecitare qualche alpinista che s’intendesse di pareti verticali e di cenge sospese sul vuoto. Lassù nulla sembrava celare pericoli. Eppure emanava uno strano fascino, sembrava che la creazione non fosse finita. Infatti mancava ancora un anello, l’ultimo.
Credetti che quella fosse la Montagna più alta del mondo e che fossi stato io a scoprirla. Ancora una volta ero il primo e così m’immaginai sulla cima, stremato, con l’ultimo fiato piantare la piccozza sul culmine con una smorfia di sorriso. Avvertii un gran freddo, tutto si ricoprì di ghiaccio, le nubi scomparvero, vidi la cima che ormai si confondeva con il cielo e la pressione delle mani sulle tempie si accentuava. Fu allora che mi alzai, corsi alla spiaggia e vomitai in mare. Era notte e non vedevo il colore dell’acqua. Ritmicamente un martello mi colpiva le pareti craniche dall’interno. Ero bocconi sulla spiaggia, sapore di mare e di vomito si confondevano: allora firmai l’ipoteca su me stesso. Il contratto prevedeva che io scalassi quella montagna. Pena: la morte; premio: la morte consapevole. Ma non ero spaventato, forse non sapevo bene, forse sono stato imbrogliato. Al mattino la montagna era ancora lì, una leggera nebbiolina ne circondava la base, si vedevano alcune luci, forse c’era gente lassù. La cima era invisibile e sapevo che per molto tempo non l’avrei più vista. I primi strapiombi me l’avrebbero nascosta chissà per quanto tempo. La prima tappa, Tessaloniki-Padova, guidai senza mai fermarmi. Le difficoltà sarebbero venute dopo e io non mi preoccupavo che mi mancasse il materiale da scalata.
La grande decisione era presa. Qualcuno aveva parlato, la montagna era lì, davanti a me, bella, gigantesca, irraggiungibile. «Salirò lassù» mi dissi.
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La sola permanenza è l’oscillazione.
Si vede bene qui.
Un po’ di libertà da sé stessi, un po’ di ricerca del Bonin(i), passando per la luminosa cecità assoluta dei sogni.