Metadiario – 74 – Una situazione insostenibile (AG 1978-002)
(da La Parete, 1981)
“Sempre un’ansietà, sempre un’inquietudine, sempre uno scontento! Siamo appena al principio, e già io veggo la fine. Come dunque godere dell’ora che passa? (Gabriele d’Annunzio, Il trionfo della morte)”.
La scalata a quel picco che s’innalzava oltre le nubi si confermava lenta e ricca d’ostacoli, ma non ero ancora stanco, salivo di buon grado e solo talvolta mi concedevo un po’ di riposo. I guai seri cominciarono quando m’accorsi che qualcosa dentro si ribellava alla salita e non mi permetteva una marcia regolare lungo quel ripido sentiero sassoso e assolato. Ogni tanto passavo la mano sulla fronte a tergere il grosso di sudore che colava mentre il pensiero si fissava sulla «cosa». I giorni passavano e lei cresceva e mentre s’ingrossava mutava di continuo aspetto, come una farfalla attraversava gli stadi delle trasformazioni prima della forma definitiva. Un mattino finalmente la percepii con chiarezza: era un insetto, una specie di ragno dalle zampe lunghe. In apparenza innocuo spiava le sue prede e provavo ribrezzo per quell’essere nero costruito così diabolicamente dalla natura. Volevo ucciderlo ma al suo posto ormai mi seguiva un gatto che mi fissava con occhi gelidi. Con gesto più automatico che di vera simpatia tesi la mano per accarezzarlo ma ancora una volta l’animale mi sfuggì mentre proprio di fronte a me una vipera in erezione mi sbarrava il cammino. All’interno dei miei occhi due lenti ne ingrandivano le dimensioni, sulla testa a triangolo portava con fierezza un disegno, una specie di mezzaluna in posizione orizzontale. Sentii la minaccia attraversarmi il corpo lungo la spina dorsale e senza esitare fuggii per un sentierino a lato; saltando i cespugli di macchia mediterranea, inciampavo nei sassi, i rovi si avvinghiavano alle caviglie, disordinato e ansante riparai in una grotta. Mentre riposavo un poco cercavo di riordinare le idee che non resistevano più agli urti. La buona volontà di salire l’avevo dimostrata. Contro maltempo, difficoltà e stenti fisici non avevo ancora combattuto su quella montagna, mentre pericoli inaspettati e soggettivi continuavano ad affacciarsi con insistenza e la buona volontà non bastava più. Io ero venuto lì per scalare e non per sfuggire come un’antilope a tutti quegli animali. Nella notte sognai che rifiutavo di dar loro da mangiare e solo al mattino ripresi la marcia.
– Se il incontrerò, mi dicevo, proverò a porgergli qualcosa.
Il pomeriggio era inoltrato quando pesanti nuvoloni invasero il cielo. In lontananza brontolavano tuoni sordi e caddero le prime gocce. Rinunciai a coprirmi, tanto faceva caldo, anzi mi spogliai quasi completamente. Salivo su una cresta affilata, saltando di blocco in blocco, evitavo i lati dove cresceva una robusta vegetazione. Dietro ad un masso, anch’egli grondante acqua da un cappellaccio nero, un uomo, guercio dell’occhio destro, mi attendeva. Erano parecchi giorni che non vedevo anima viva e quello non aveva l’aria del pastore.
«Dove vai? Lo sai che di qui non si passa!».
«Perché non si passa? Io devo passare».
«Non farmi ridere, cretino, lo sai benissimo che ti è proibito. Non c’è nessuna carta, nessuna autorizzazione che ti farà mai passare di qui vivo».
Pensai di far finta di andarmene e poi durante la notte non avrei avuto difficoltà, con quel tempaccio, a passare il limite. «Stupido pazzo», mi lesse nel pensiero «neppure di notte riuscirai a sventare la mia sorveglianza. Io sono il custode, ah ah, il tuo angelo custode, quello del catechismo! Non mi fai neppure pena, dalla paura che c’è nei tuoi occhi. Ma è di te che devi aver paura».
«Potrei ucciderti a piccozzate», dissi minaccioso.
Lo sconosciuto non ne poteva più dal ridere, ma prima di smettere quasi singhiozzando le sue risate di scherno mi puntò il dito addosso e mi urlò:
«Tu devi morire. Tu solo se muori passerai di qui».
Ma a quel punto il suo urlo era un ruggito tremendo ed io scappavo di nuovo, questa volta verso il basso, dove non pioveva più, dove non c’erano né bestiacce né angeli custodi, perché ero stufo di terrore. Invece il tipaccio mi seguì per più giorni. Anche lui in seguito si trasformò in ancor peggiori esseri e così mi vidi alle calcagna un lanzichenecco, poi un pirata saraceno, poi un lebbroso inferocito, poi ancora un orco e quindi un mostro dell’età antidiluviana. Finii per gettarmi a nuoto in un fiume dalle acque putride e risalii a terra a Benares, proprio dove i pellegrini si bagnano. Alcune gradinate, moli dove s’inceneriscono i cadaveri, caldo soffocante, una musica per suicidi del pensiero che si snida da una cameretta a quindici metri dal Gange, ripetitiva, angosciante e dolce, odore di incenso e di sandalo, l’India che ti abbraccia, ti avvolge, ti strangola, ti allatta.
Sulle gradinate due file, una per parte, di orrendi esseri deformi, storpi, senza occhi, senza gambe, la pelle colore della polvere si protendono verso di te a richiesta di qualcosa, con mugolii che si confondono con la litania religiosa che da ormai ventiquattro ore ti gira nel cervello come la centrifuga di una lavatrice. Uno per uno risalii quei gradini, gomito a gomito con la folla di pellegrini che saliva e scendeva ed entrai nella città torrida.
Valle dell’Orco, Sergent, Roberto Bonelli sulla prima lunghezza di Situazione Insostenibile, 31 maggio 1978
Come in ogni città indiana il traffico era molto intenso, ma un traffico più umano che meccanico, il sudore in luogo della benzina, la folla si muoveva a proprio agio lungo binari invisibili e corridoi naturali non individuabili perché mutevoli, un ondeggiare senza riferimento che stordisce come una musica insolita. Ai lati della calca due file di insegne e di negozi, dall’ombroso interno dei quali biancheggiavano pantaloni e camici di commercianti seduti a gambe incrociate. Questi servivano i clienti con flessuosi piegamenti del busto e con mano agile impacchettavano e davano la merce e ritiravano il denaro. Più oltre si agitava lievemente una fila di figure candide. Uno per uno gli involucri si sfasciavano, le bende che gli avvolgevano il viso, con gesti concisi, misurati. Ne uscivano volti sereni di anziani che senza sorridere avrebbero vissuto un altro mattino di pace nella bolgia polverosa di una normale e pazza strada di una città indiana.
Credevo che la mia presenza passasse inosservata, comunque ero certo che il mio atteggiamento fosse naturale. Una bambina scalza, con due grandi occhioni neri, mi seguiva da qualche tempo e io godevo quel mio soggiorno curioso, quel privilegio di essere là, con quella gente e il piacere di osservare distratto un mondo al quale non appartenevo. Ma qualcuno di loro era di avviso differente. Specialmente un ragazzo dall’espressione intelligente e vestito con pretese occidentali ma di scuro, si diceva molto offeso di come mi comportavo. Io mi ero rifugiato in un locale dove servivano del tè con il latte, la bambina mi aveva seguito, sembrava sempre più interessata alla mia fuga. Sentivo che il giovane fuori minacciava apertamente: avrei pure dovuto uscire da lì prima o poi, ché a casa avrei certo dovuto andare. La situazione non tardò a irrigidirsi, perché quando ci fu servito il tè al tavolo eravamo in quattro. La bambina era sempre attenta, ma non poteva essermi d’aiuto, anche se la sentivo dalla mia parte. Poi c’era un ragazzotto dallo sguardo un po’ ottuso che si diceva fratello di quello che fuori teneva i comizi contro di me. Infine un altro indiano ascoltava, ma senza intesa con nessuno di noi. La neutralità di quest’ultimo mi dava, però un certo coraggio, mentre la luce fuori calava e la stanza era ormai quasi completamente buia. Da parecchio tempo il padrone della locanda non si era più fatto vedere e il ragazzotto stupido era sempre più arrabbiato. Più io tentavo di ridurlo alla ragione e con il buon senso gli esponevo come non ritenessi così offensivo il mio comportamento nei loro confronti e più quello si imbestialiva e mi sbraitava contro le minacce più terribili, così che io avrei dovuto secondo lui soccombere a gente infuriata e armata di coltelli e di bastone, che avrebbe travolto me e la bambina.
Era ora di finirla: non sopportavo più quell’odioso e idiota rompiscatole. Frastornato dalle minacce sue e agitato dai movimenti di massa che supponevo al di fuori, non controllavo più i miei gesti di stizza. Presto ci azzuffammo nell’oscurità, temevo la sua ferocia e non gli risparmiavo colpi, ma non volevo fargli troppo male. Rotolandoci per terra e tempestandoci di pugni ci urlavamo insulti. Mi aveva preso alla gola e io con uno sgambetto e uno spintone me ne liberai facendolo sbattere di schianto con la testa su una porta che si socchiuse un poco lasciandomi intravvedere una folla di volti che ci spiavano e mi sembravano in attesa di menar le mani. Sanguinavo, ero stanco e non ressi oltre: l’occhiata dietro la porta aveva stroncato le mie ultime difese e mi accasciai su una panca stordito. Ma nel mio assopimento non ci fu alcun soccorso.
Roberto Bonelli sulla prima lunghezza di Situazione Insostenibile, 31 maggio 1978
Ricordo la mia arrampicata con Roberto Bonelli sul Sergent, nella passabile giornata del 31 maggio 1978, dopo una notte ignobile di pioggia. In effetti la sera prima con Marta Gobetti e Roberto avevamo rizzato una vecchia tenda sul prato e dopo una discreta cena ci eravamo addormentati. Ma nella notte piovve a torrenti e dalla mia parte era tutta una pozzanghera. Mi ero seduto nell’angolo meno bagnato e avevo già raccolto le mie cose, ma non mi decidevo a uscire sotto al diluvio per continuare a dormire in macchina. Roberto si svegliò e mi chiese che cosa succedeva.
«Non vedi cosa succede?» e mi raggomitolai ancora di più, ingrugnito in fondo perché loro erano all’asciutto. Dopo altri dieci minuti, quando ormai Roberto si era riaddormentato, schizzai fuori dalla prigione urlando: «La situazione è insostenibile!».
E nel bagliore delle folgori guadagnai l’auto con già la chiave in mano.
Sulla parete del Sergent, dopo quattro chiodini «rurp» messi di fila e in verticale, esclamai ancora la stessa frase e quello fu il nome della via, conclusa sotto scrosci e diluvi.
Sognai poi di quell’incontro con il mio custode sulla Montagna ed ebbi la sensazione che l’ostilità di quello fosse la stessa dell’indiano che mi perseguitava. Ad un tratto mi fu di sollievo immaginare che la frase «tu solo se muori passerai di qui» avesse un senso compiuto, come se effettivamente l’azione del «passare» avesse significato pur dopo la morte del diretto interessato. Decisi di sacrificarmi, sperando di poter continuare la salita, ma solo in sogno poteva sembrarmi così facile. Da sveglio, avrei saputo mantenere i propositi? Certe verità mi sarebbero sempre apparse tali, o ancora le lenti di distorsione della veglia avrebbero impedito la valutazione reale dei fatti?
La linea obliqua di Situazione insostenibile. L’itinerario 7 è il Diedro del Mistero.
Il risveglio fu spietato, ma sapevo di non poter più negarmi al sacrificio di me. L’indiano rozzo e stupido mi aspettava, due o tre boia erano pronti a dargli man forte. La bambina e io ci presentammo a petto nudo che ci fu squarciato da due coltellate decise. Mentre cadevo a terra guardavo il mio carnefice e speravo di averlo accontentato, poi strinsi la mano alla mia bambina e non potei più vedere nulla. Non ero morto però: sentivo, percepivo. Sotto il mio corpo c’era sabbia, eravamo in un giardino, vicino a un atrio d’ospedale. Sembrerà strano, ma ero felice, quasi avessi finalmente compiuto quel dovere che mi trascinavo da anni, quasi mi fossi sgravato di una colpa, quasi potessi di nuovo amare quella vita che sentivo forse più di prima scorrere in me. Vicino a me la bambina, sempre bella e silenziosa, ha cambiato l’abito e mi sorride. Se l’indiano ci lascerà andare, partiremo assieme. Abbiamo ancora paura del giovane terribile, dello spietato fratello del nostro esecutore, quello che è sempre stato nell’ombra e ha ordito la scena del nostro sacrificio. Qualcuno ci sussurra che forse se ne andrà in America e per un attimo spero di non doverlo più incontrare. Ma presto lo scorgo: sempre vestito di scuro, si avvicina sorridente, l’andatura sciolta e orgogliosa di un corpo senza nodi. L’incubo è finito, gli porgo la mano. Con finta distrazione accenna a qualcuno che voleva vendicarsi, che era molto offeso… Però aveva saputo che era tutto passato…
Lo guardo negli occhi, così neri e così fermi da non poter protestare: «Beh, veramente…». Ma poi scrollo le spalle perché sono rotto dall’emozione di poter riabbracciare il mio nemico. Piango, anch’egli è molto espansivo e assieme usciamo al sole, commossi ci raccontiamo le cose vissute quando eravamo separati.
«Vedi, noi due è come se fossimo le due parti di una stessa persona ed è bello che possiamo stare ancora insieme così» dicevo.
Egli mi osservava attento, accettava sorridendo i miei balbettii infantili. Poi ci salutammo, perché non c’era più necessità d’essere separati. Ero sull’orlo di una grande foresta.
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