Cambiare rotta

“Le disuguaglianze sono una scelta”. Sono il frutto della svolta a 180 gradi che cultura politica e politiche, di ogni parte, compiono fra anni Settanta e Ottanta. Della subalternità culturale alla forma mentis neoliberale. Certo che globalizzazione e tecnologia digitale hanno scosso il sistema. Ma anziché tentare di indirizzare questi processi, l’azione pubblica li ha abbandonati alle scelte di pochi. Si deve e si può cambiare rotta. Ecco come.

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Cambiare rotta
(le disuguaglianze sono una scelta)
di Fabrizio Barca
(pubblicato su laterza.it il 10 dicembre 2019)

Essere uguali non vuol dire vivere la stessa vita degli altri. Vuol dire piuttosto poter decidere quanto non essere uguali, come realizzare la propria diversità. Proprio la mortificazione sistematica di questa capacità da parte delle classi dirigenti ha segnato in modo crescente l’ultimo quarantennio, provocando la rabbia e il risentimento dei ceti deboli e subalterni; di ultimi, penultimi e vulnerabili, come diciamo noi del Forum.

Fabrizio Barca

Nell’improvviso e tardivo gran parlare di “disuguaglianza” da parte di cultura egemone e partiti, si sente l’ansia per questa rabbia e questo risentimento e per gli effetti che tutto ciò potrebbe avere per la crescita e la democrazia. Ma è assente il riferimento alla giustizia sociale. E da alcuni viene riproposta la tesi secondo cui “la crescita fa salire tutti”, negata dalla storia degli ultimi quaranta anni. O addirittura già si argomenta che in fondo l’aumento delle disuguaglianze di reddito e ricchezza non è stato così significativo (è il caso del messaggio politico lanciato dalla rivista The Economist, n. 9171, pure illustrando e commentando stime che, ancorché diverse fra loro, confermano tutte la forte inversione di tendenza, al rialzo, delle disuguaglianze a cavallo degli anni ’70 e ’80). E comunque, la riduzione delle disuguaglianze viene esaurita nella “redistribuzione”, senza comprendere che è nel “come” si crea la ricchezza che si gioca gran parte della partita della giustizia sociale. Si parte male. Non sorprenda allora la carenza della diagnosi, la natura frammentaria delle soluzioni, il fatto che esse non parlino ai ceti deboli. Ci vuole ben altro per cambiare il corso che gli eventi hanno preso. E per imboccare uno sviluppo giusto e sostenibile. A cominciare da una consapevolezza della pluralità di dimensioni di vita a cui si riferisce il nostro istintivo senso di giustizia.

Certo, è giusto partire dal reddito. Mentre nel mondo le disuguaglianze di reddito si riducevano, per l’emergere tumultuoso dalla povertà di centinaia di milioni di esseri umani in Asia, mentre peggiorava ancora la condizione dei più poveri della terra, in Italia, come in tutto l’Occidente, dagli anni ’80 la disuguaglianza di reddito cessava la discesa iniziata sessanta anni prima. E tornava anzi a crescere. Ma anche solo sul piano delle disuguaglianze economiche c’è molto altro, e ben prima della crisi del 2008.

La ripresa da inizio anni ’80 dell’indice di Gini relativo ai redditi (netti e lordi), la riconosciuta misura sintetica di disuguaglianza. L’aumento della povertà. Il fortissimo aumento della disuguaglianza di ricchezza, con i 5mila adulti più ricchi d’Italia che passano dal 2 al 7% della ricchezza nazionale. L’irrigidimento della mobilità sociale. L’arresto della riduzione delle disuguaglianze fra regioni e la sua risalita, segnata da forti migrazioni interne ed esterne. E dietro tutto questo, la divaricazione fra buoni lavori – sempre meno – e cattivi lavori – in forte crescita. Lavori segnati da instabilità, vulnerabilità, una protezione e un’autonomia scarse o nulle. Lavori precari. Lavori presentati come un dono anziché un diritto. Con forme tali di sfruttamento da configurare talvolta una vera e propria schiavitù. Tutte forme di subalternità che tornano ad aggravare la condizione femminile.

Negli stessi anni si andavano aggravando anche i divari nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali, fra aree interne e aree urbane, fra centri e periferie e fra città. È un fenomeno che tocca tutti gli ambiti della vita umana: dall’istruzione alla cura della salute (un paradosso, visto che l’Italia rappresenta in media un’eccellenza internazionale); dalla mobilità alle comunicazioni; dall’abitare all’intero welfare.

E poi c’è la disuguaglianza di riconoscimento: il riconoscimento, da parte delle classi dirigenti e del pubblico dibattito, della tua dignità, delle tue abilità, delle tue capacità di contribuire alle comunità a cui appartieni. L’assenza di riconoscimento ha progressivamente toccato molteplici fasce sociali della nostra società: abitanti delle aree rurali, insegnanti, operai, piccoli commercianti. Le classi dirigenti si sono occupate, a tratti, degli interessi di breve termine di queste fasce sociali, non più del loro ruolo culturale e politico: un atteggiamento fonte di mortificazione.

L’insieme di queste disuguaglianze è in sé ingiusto. È fonte della reazione di rabbia e risentimento dei ceti deboli e subalterni. È alla radice dell’arresto dello sviluppo e della fragilità della democrazia.

Ma perché è avvenuto tutto questo? Per convincere e muovere all’azione non bastano i fatti. Serve uno schema concettuale con cui interpretarli e narrarli – lo sa bene la destra. Serve una diagnosi, per capire come cambiare rotta. Come costruire un’altra storia.

Fabrizio Barca – Forum Disuguaglianze e Diversità, Cambiare rotta. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia

Con contributi di Sabina De Luca, Massimo Florio, Elena Granaglia, Vincenzo Manco, Anna Lisa Mandorino, Andrea Morniroli, Andrea Roventini.

Fabrizio Barca, economista, esperto di politiche di sviluppo territoriale, presidente del Comitato per le politiche territoriali dell’Ocse dal 1999 al 2006, è stato Ministro per la Coesione territoriale dal 2011 al 2013.

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Cambiare rotta ultima modifica: 2020-04-05T04:44:50+02:00 da Totem&Tabù

3 pensieri su “Cambiare rotta”

  1. Meglio mettersi a pensare come piuttosto che dare per scontato d’essere morti.
    Meglio morire in battaglia che altrove.
    La creatività per sua natura genera quanto non c’era.
    E l’utopia è vuota di speranze solo per chi non ne ha la visione.

  2. Cambiare rotta?

    Si potrebbe far cambiare rotta ad una nave rompighiaccio attanagliata nei ghiacci della banchisa durante un’ Era Glaciale?

  3. Ma perché è avvenuto tutto questo? Per convincere e muovere all’azione non bastano i fatti. Serve uno schema concettuale con cui interpretarli e narrarli – lo sa bene la destra. Serve una diagnosi, per capire come cambiare rotta. Come costruire un’altra storia.
    Purtroppo mi viene un dubbio.
    Se un analista a questo punto – vedi brano riportato – non cita il capitalismo finanziario, mi pare sufficiente per dubitare della sua parola.
    Il capitalismo prima e quello finanziario poi, la loro fagocitazione della politica, la loro sovrannazionalità globalista, il loro potere più forte degli stati, la loro potenza di fuoco in merito a scelte d’ordine mondiale, come possono non essere presenti tra le parole di chi scrive Cambiare rotta?
    Che rotta si potrebbe cambiare entro il sistema che le ha voluto ciò che siamo ora?
    A meno di non ritornare a vendere che con qualche aggiustatina al sistema stesso tutto va a posto.

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