Centonovantadue, banali storie di famiglia
di Marcello Cominetti
(pubblicato su marcellocominetti.blogspot.com il 28 agosto 2020)
Schiacciati dal basso soffitto a volte di un palazzo secolare di Genova, ce ne stiamo in una trattoria di Piazza Cavour, mia madre ed io. Aspettiamo un piatto di trenette al pesto. Mia madre non va volentieri al ristorante perché cucina benissimo e, soprattutto se si tratta di pesto, è molto esigente perché lei fa quello che probabilmente è il migliore al mondo. Ma questo lo sostengo io e i pochi che lo hanno assaggiato.
Siamo qui perché mio padre Enrico è ricoverato in ospedale con poche possibilità di sopravvivere. Ha quasi 90 anni e una brutta emorragia cerebrale. Fino a pochi giorni prima faceva la vita di un sessantenne in forma: tanta strada a piedi, lunghe nuotate, canoa, lavoro in giardino e bricolage di ogni genere. Vederlo esangue in un letto non piace a nessuno di noi familiari, anche perché fino a pochi giorni fa scorrazzava per le vie della città come se avesse la metà dei suoi anni. Appena usciti da una visita all’ospedale, non siamo per nulla confortati dalle notizie sulla sua salute: è un lottatore nato che sta per essere sopraffatto da qualcosa più forte di lui.

L’alternativa del pranzo in trattoria mi è sembrata un modo per distrarci.
Mentre aspettiamo, mia madre mi dice che non conosceva quella trattoria, o meglio, non c’era mai entrata perché semmai pranzava da sua sorella che abitava lì di fronte, nel palazzo adiacente all’ex mercato del pesce – quello in cui Fabrizio De André registrò tra i banchi l’inizio di Creuza de Mâ. Mentre attraversavamo la strada, mia madre diceva: quante volte ho percorso questa strada da ragazza, con te per mano da piccolo e poi con tua sorella, e poi da più grande lungo le vie del porto dove era cresciuta. Ma lì dentro non era mai entrata. Il posto vanta un premio come miglior produttore di pesto al mondo, mia madre è scettica.

Mi ricorda che 55 anni fa mi portava ai bagni Cava, poco distanti e che lì lei aveva imparato a nuotare. Ma come? La diga foranea del porto di Genova rappresentava la meta. In mezzo c’era il canale dove transitavano le navi del porto più trafficato del Mediterraneo. Le onde sollevate dai piroscafi costituivano una sfida. Si nuotava a stile libero e ci si riposava a cagnolino, mentre le navi passavano alzando onde e provocando correnti. Inimmaginabile oggi! I compagni di gioco di mia madre di poco più grandi di lei e delle sue amiche erano, tra gli altri, Egidio Cressi, Duilio Marcante e altri aspiranti uomini di mare in profondità che avrebbero messo le basi della storia delle attrezzature subacquee. Solitamente si avventuravano per primi lungo la traversata verso “U miaggiun”, ovvero il termine della diga foranea dove c’era un piccolo faro. Quando si riuscivano a vedere le cupole della basilica di Carignano si era a buon punto.

A volte, chi restava in spiaggia, ne approfittava per far visita alle borse dei nuotatori, lasciate nelle cabine dello stabilimento balneare, in cerca di qualche panino. Ci si raccontava di immersioni in apnea a grandi profondità e di esperimenti con respiratori collegati a scafandri ricavati dalle latte dell’olio da 5 litri su cui con lo stucco si applicava un vetro a fare da maschera.
La sfida non finiva lì, perché nell’acqua c’erano anche gli squali. Sì, gli squali (i pescicheen)! Non era raro avvistare le verdesche, squali lunghi un paio di metri che terrorizzavano mia madre più d’ogni altra cosa. Poi c’era lo scoglio scaletta, così chiamato perché aveva diversi livelli d’altezza da cui tuffarsi. Oggi tutto questo mondo è stato inghiottito dalle strutture del porto e non ne resta traccia sul terreno, ma solo in questi racconti o in qualche sbiadita fotografia. Per questo li ascolto volentieri anche se li so quasi a memoria: c’è sempre un particolare in più che li arricchisce ogni volta.

Nel tavolo vicino al nostro una coppia di giovani napoletani ci ascolta facendo finta di niente. I foresti sono sempre intimoriti dai genovesi perché hanno fama di essere scorbutici e con un brutto carattere, e quindi non osavano attaccare discorso, ma si capiva che ascoltavano senza perdersi una virgola perché i racconti di mia madre erano incredibili. Sembravano le avventure di Sandokan, ma io che li ho sentiti decine di volte, sapevo che era tutto vero, anzi, conoscendo la modestia e il pragmatismo di mia madre, probabilmente c’era nella realtà una dose d’avventura superiore in tutto quello che stava raccontando. Mi diceva che quella breve scalinata che portava alla trattoria, una volta era di un altro marmo, più chiaro e consumato e una volta mio zio era scivolato giù in una giornata di pioggia, e che lì davanti, al Varco di Porta Siberia i contrabbandieri passavano di notte, col beneplacito dei finanzieri di guardia ai quali allungavano qualche moneta, con sacchi pieni di sigarette che poi rivendevano nei vicoli poco distanti.

Il porto era un covo di delinquenti, prostitute e tagliagole e fino a non molti anni fa, aggirarsi nei suoi paraggi non era molto consigliabile. Oggi questa parte di porto è stata resa fruibile dalle opere di Renzo Piano che ha abbattuto molte barriere d’ogni tipo così che oggi è una zona molto frequentata dai genovesi e dai turisti.
Arrivano le trenette, sono buone e anche il pesto non scherza. Il titolare della trattoria, non appena un avventore lascia qualcosa di mancia, suona un campanaccio e urla: Manciaaaa! In modo che tutto il locale lo senta. Mia madre all’inizio si spaventa ma poi ride divertita. Si tratta di pochi spiccioli se l’avventore è locale e forse di qualcosa di più sostanzioso se quest’ultimo non lo è.

Prima di pranzo, durante la mattinata le cose non sono state facili, anche se non tragiche. Per il montanaro quasi eremita che sono diventato, destreggiarmi nella giungla cittadina è ogni volta un’impresa e una presa di contatto con l’assurdo di un luogo dove si è costretti a vivere in molti in poco spazio. Parcheggiare l’auto fuori dall’ospedale richiede una ricerca in stile caccia al tesoro e quando finalmente trovi un posto scopri che il cartello che lo sorveglia è un divieto di qualche tipo e quindi continui a cercare lottando contro l’orario di visita che si accorcia sempre più. Siamo a metà febbraio 2020 e si sente parlare di un virus arrivato dalla Cina che si dice si stia diffondendo anche tra di noi. In ospedale ci fanno entrare solo un parente alla volta al capezzale di mio padre. Ci diamo il turno per stargli vicino, tenendogli una mano e bagnandogli le labbra arse da giorni dal divieto di ingerire qualsiasi liquido. Faccio fatica a trattenere le lacrime mentre scrivo queste parole. Ho davanti un carosello di immagini di mio padre giovane e forte che ho sempre visto come un eroe senza paura, che quando ero piccolo sapeva esattamente con cosa interessarmi. Una gita a un luogo misterioso, una storia appassionante, un percorso in fuoristrada dove nessuno osava andare, un lavoro da fare con le mani rischiando di farsi male, manovrare una gru dal braccio di 120 metri nel cantiere di cui era responsabile, ricevere in dono un cane, una gallina e una pecorella o un falco ferito. Ecco, questi erano i regali che mio padre faceva a mia sorella e a me. Non andava mai a comprarci un oggetto per farci un regalo. I suoi regali erano esperienze e che belli che erano quei regali! Non ti facevano sentire possessore di oggetti, ma ti facevano sentire amato. E poi c’erano gli scherzi che ci faceva spesso. Riusciva a essere severo e serio architettando scherzi d’ogni genere. Si arrabbiava di rado e aveva nel sangue l’avventura, caratteristica che lo rendeva interessante al popolo femminile con l’ovvio disappunto di mia madre.

Quel letto d’ospedale ora gli stava proprio male, ma almeno le infermiere più premurose lo circondavano d’affetto e carinerie per sopperire alla sua quasi totale immobilità. La coscienza lo visitava a momenti così come lo abbandonava in altri, facendoci capire che trascorreva lunghi periodi in un mondo lontano dal nostro dove solo lui sapeva cosa succedeva. Una bolla di sangue dal diametro di 12 cm nel suo cervello provocava la rivoluzione tra i neuroni e la sua vita scorreva di certo nel caos di quello che impulsi incontrollabili inviavano a quella piccola parte di ragione che rappresentava l’ultimo collegamento con noi.
Mentre questo collegamento si affievoliva sempre più, quel virus arrivato dalla Cina iniziava a spaventare un po’ tutti perché se ne parlava come di una minaccia e il primario del reparto decise di trasferire mio padre in una stanzetta tranquilla in modo da permetterci di visitarlo lo stesso. Negli altri reparti si iniziavano a vedere cartelli che vietavano l’accesso ai parenti e il personale ospedaliero era ogni giorno più nervoso e scontroso con chi andava lì già rattristato dal male che gli stava portando via qualcuno di caro.

Una mattina medici e infermieri sembravano isterici e mi vietarono assolutamente di avvicinarmi alla stanza dove si trovava mio padre. Ordini dal Ministero della Sanità, dicevano. Non c’erano scuse, dovevo andarmene e lasciare mio padre a morire da solo.
Arrivarono i rinforzi costituiti da mia madre, che meravigliata non si spiegava perché non potesse stringere la mano dell’uomo della sua vita che stava lottando con la morte, mia sorella, un tipino che se s’incazza è meglio andarsene, e i miei nipoti, entrambi sempre eleganti perché al lavoro. Costituita una momentanea unità di sfondamento ottenemmo dalla dottoressa di turno di poter entrare in camera di mio padre nonostante il virus ormai dilagasse ovunque e ci distribuimmo intorno al letto con la solita voglia inane di portarci mio padre a casa. Quella sera non volevo andare a casa, volevo restare lì con mio padre e lo feci passando la notte su una sedia e tenendo la mia mano intorno alla sua ormai insensibile da qualche giorno, gonfia e blu senza sangue, pesante e inerte.

Un infermiere dall’iniziale aria distaccata si rivolse a me nella notte con belle parole invitandomi ad andarmene a casa anche se capiva perché stavo lì e quindi non insisteva. Mio padre aveva gli occhi spalancati e guardava fisso in una sola direzione, sempre la stessa, in alto a sinistra, come il titolo di un libro del mio amico Erri De Luca. In alto a sinistra, mi ripetevo, che in un racconto del libro indica un’uscita di emergenza. Come avrei voluto trovarla quella notte un’uscita d’emergenza e scappare con mio padre in spalla ricambiandogli lo sforzo che lui aveva fatto tante volte quando sulle sue spalle stavo io da piccolo, abbarbicato al mio pilastro preferito. O da adulto, quando lo contrariavo per sentirmi più forte di lui riconoscendo, anche a distanza di anni, che aveva ragione. Mio padre ha sempre avuto ragione su tutte le cose di cui discutevamo. Posso dire che le cose su cui avrebbe potuto avere torto non le consideravamo affatto. Ci piaceva, forse di più a me, dibattere sulle cose che lui aveva chiare e che io credevo di avere più chiare di lui. Mi sono sbagliato ogni volta e quando gliel’ho detto, avevo già più di cinquant’anni, mi ha guardato con quella sua aria da “io te l’avevo detto” che però, saggiamente, non ha espresso a voce.

Quella mattina ero, per copiare Erri, come “biglia di flipper”, quando me ne andai da mia madre per dirle falsamente che la notte era andata bene. Ci fu ancora un tardo pomeriggio in cui l’unità di sfondamento era ulteriormente rinforzata dalla presenza di Marta, mia moglie. Mia madre massaggiava alternativamente le mani a mio padre, che ormai se ne era andato nel suo mondo da qualche giorno, come per compiere un dovere istintivo verso l’unico uomo della sua vita. Noialtri si discuteva di varie cose quando venne fuori la storia del Galletto.
Il Galletto era uno scooter della Moto Guzzi che nei primissimi anni ’60 rappresentava il mezzo a motore della mia famiglia.

Con mio padre alla guida, mia madre seduta dietro a lui di traverso e con me in piedi tra il conducente e il manubrio, al quale mi tenevo attraverso una barra applicata all’uopo, ce ne andavamo in giro per l’Italia. Il viaggio più lungo che facemmo fu, molto probabilmente, quello per raggiungere Tambre d’Alpago nel bellunese, dove viveva mia nonna paterna. Il viaggio durò due giorni, con tappa a Mantova per pernottare e fare un po’ di turismo di allora, che per mio padre significava trovare una buona trattoria tipica (a quei tempi c’erano ancora) e magari fare quattro chiacchiere con qualcuno del posto che avesse racconti interessanti da ascoltare. Quello era l’aspetto culturale di ogni nostro viaggio e ne facemmo tantissimi!

Anche in futuro, con mia sorella che nel frattempo ci aveva raggiunti, e tutti e quattro insieme restammo fermi nello stesso posto davvero poco tempo, perché in viaggio si era costantemente. Tra buone trattorie, fondamentali, e qualche vulcano, siti archeologici, nuraghi sardi, trulli pugliesi, catacombe sicule, anfiteatri romani (quelli poi…). Mio padre credeva nella reincarnazione e ne parlava spesso. Non era credente ma era convinto che l’anima se ne andasse da qualche parte, possibilmente dove ci fosse anche una buona trattoria. Non l’ho mai sentito chiamare un luogo che servisse piatti caldi col nome di ristorante.

I miei nipoti non avevano mai sentito parlare del Moto Guzzi Galletto e io cercavo di descriverglielo. Aveva le ruote di una moto, la carrozzeria di una specie di Vespa un po’ più massiccia e allungata, una ruota di scorta tra lo scudo e la forcella anteriore, quello del nonno era color sabbia e aveva un motore a 4 tempi, lento e inesorabile. tun, tun, tun, avete presente? Era il mezzo preferito dai parroci di campagna e dai veterinari e il motore aveva la cilindrata di… mmmhh, quanti centimetri cubici? Mi sembra 150, ma certi modelli avevano un motore poco più grande, forse 160 cm3. Addirittura c’era una terza motorizzazione ma non ne sono sicuro, forse quello del nonno era uno degli ultimi prodotti e il motore era, era…? Mentre cercavo di ricordare la cilindrata possibile ci fu uno di quei momenti di silenzio che nel mezzo del brusio ogni tanto accadono per puro caso e, in quello, mio padre, con voce decisa come suo solito disse: centonovantadue!

Ci sembrava di averlo sognato, ma l’aveva detto davvero perché tutti l’avevamo sentito chiaramente. Fu l’ultima parola che sentii pronunciare, e inaspettatamente, da mio padre, che ci lasciò pochi giorni dopo. Quando non si poteva già più entrare in ospedale e lui se ne sarà stato nella sua stanzetta tutto solo eccetto quando le solite infermiere lo accudivano per il minimo sindacale giornaliero. Chissà se avrà detto qualcos’altro, in quella sua lunga notte caleidoscopica in cui magari lo potevano ascoltare cavalli alati siculi o gnomi del bosco partenopei, i protagonisti dei suoi racconti con cui ipnotizzava i nipoti che quando scoprirono da più grandi che si trattava di racconti di fantasia si pentirono di essere cresciuti. Non lo sapremo mai.

I funerali erano vietati. Marta ed io inseguimmo in vespa come di nascosto il carro funebre fino alle porte del cimitero di Staglieno dove i guardiani impedivano a chiunque di entrare. Erano le norme anti CoViD-19 che di lì a poco avremo conosciuto più approfonditamente, ma al momento, era l’11 marzo, eravamo troppo frastornati per ricordarci che dovevamo indossare una mascherina chirurgica che infatti non avevamo anche perché erano introvabili.
Un anziano prete dall’aria spaesata continuava a dire che era tutto ingiusto mentre con un’acquasantiera benediva le bare ricoperte di fiori che arrivavano numerose. “Almeno questo”, ci diceva, tra i guardiani e i vigili urbani che disperdevano i convenuti per evitare assembramenti pericolosi. Era difficile da capire, giuro.
Capii che la mia vita aveva preso una svolta quando il pesante portone metallico del camposanto si chiuse dietro la Mercedes scura che trasportava il corpo di mio padre.
6
Il babbo non ha mai amato la montagna, ma con lui fin da bambino si andava a far narcisi ai Resinelli. Era uomo di città, Milano. E di collina, come quelle romagnole da dove veniva la sua mamma e dove ha combattuto tra l’8 settembre 1943 e la liberazione di Forlì, nel novembre 1944. Ha avuto una moto, una Enfield inglese, con la quale andava a fare comizi e a volantinare alla Necchi di Pavia, nel nebbioso autunno padano. Era pieno di vita, ed ha avuto una vita piena, dedicata al Partito, alle COOP, all’ANPI. A modo suo ci ha voluto bene, e me lo sono sentito dire nel 2017, nonostante la demenza senile e la carrozzina su cui era relegato. “Ti ho sempre voluto bene Marco”. Ho pianto a questa frase, molto più profondamente di quando ci ha lasciati a settembre del 2017, a 92 anni. Una volta magari trascriverà il libretto che abbiamo scritto insieme, tra ricordi e appunti, quando era già malato, pubblicato dall’ANPI di Milano e autografato, uno a uno nonostante la mano malferma. Sì, anch’io in realtà, gli ho sempre voluto bene. E gli sono grato per quel che mi dato. Vabbé, mi è venuto così…
Mio papà non aveva compiuto 50 anni quando se ne andò per una malformazione all’aorta che oggi richiederebbe una semplice operazione quasi banale.Avevo 11 anni, mio fratello 3.Tanti ricordi scolpiti nella memoria.Uno in particolare: Mio fratello era appena nato e papà venne a prendermi a scuola in auto, inconsueto per i tempi.Era eccitato e felice.Entrato in cortile mise l’auto in garage e corse in casa…lasciandomi sola e chiusa fuori!Dopo poco corse affannato e disperato a prendermi.Mi strinse tra le braccia quasi stritolandomi e chiedendo perdono.Non ebbi il coraggio di lamentarmi e insieme corremmo a vedere quel cosino rosso e urlante che era il mio nuovo fratellino!
mio padre ha 86 anni è sempre stato un brontolone, faceva il camionista e si è fatto un culo come un paiolo per la famiglia. E’ sempre stato un tipo molto energico dal carattere assai spigoloso, nonostante l’età e gli acciacchi non molla. Vanga, zappa, taglia, pota, ect. ha un orto che produce come un’azienda agricola poi si lamenta che è stanco. Cazzo gli dico sarei stanco anch’io con tutto quello che lavori!
I sui brontoli e minacce di sculaccioni, non mi hanno creato problemi. L’unica cosa che un pò mi dispiace è che non ha mai capito o cercato di capire fino in fondo la mia passione per la montagna. Ancora oggi, ogni tanto, mi dice se non ho ancora smesso, se non mi sono stufato, di andare sui SOLITI sassi.
Pasini mi ha fatto venire in mente una storiellina, letta non so più dove, che più o meno faceva così:
A 5 anni dici: papà ha sempre ragione
a 15 anni dici: mio padre non capisce niente
a 20 anni dici: guarda che me ne vado e non mi vedrai più
a 30 anni dici: scusa papà potrei chiederti un consiglio?
a 40 anni dici: maledizione papà, perché non ci sei più?
Capisco Marcello. Mi riferivo alla situazione generale di impatto sulle famiglie e ad alcuni lutti non diretti ma che mi hanno toccato personalmente. Comunque il tema della mia reazione empatica al tuo racconto era quello della morte del padre per quello che significa per noi maschi di certe generazioni. Ho sperimentato non poter salutare. Ero negli USA e l’ho saputo al telefono in piena notte. Non dimenticherò mai quel dolore e quella notte. Ciao
Ci tengo a sottolineare che mio padre non è morto di Corona virus. L’ho scritto nel racconto ma ci tengo a precisarlo.
Era mio padre. John Harlin jr ha scritto un intero libro per gestire la relazione con suo padre che lo abbandono’ bambino per inseguire il suo sogno. Molto intresssante la prefazione di Mirella Tenderini all’ultima edizione. Una delle figure chiave del libro di Cognetti è il padre, che introduce il protagonista alla montagna. Straziante la descrizione del padre che cerca compagnia quando è da solo in rifugio. Penso ci siano frammenti di autobiografia. Albino Ferrari ha scritto un libro commovente sulla madre, dove in realtà in ogni pagina emerge il rimpianto di un padre mai conosciuto. Ora questo intenso ricordo di Cominetti, con il suo carico di amore e nostalgia. Altre volte i padri hanno fatto capolino nel blog. Gogna ha pudicamente accennato in uno dei suoi pezzi autobiografici al difficile rapporto col padre e al rimpianto per un dialogo che avrebbe potuto esserci. Crovella parla spesso di suo padre e dell’influenza cruciale che ha avuto su di lui. Benassi ha ricordato le urla di suo padre quando era bambino e il fatto che a suo parere non lo hanno certo danneggiato. Io stesso ho accennato a mio padre, alla Regia Marina Militare e al suo stile educativo nei miei confronti che ha scavato un solco tra noi per molti anni, salvo poi rivalutarlo. Tutte conferme che anche nel mondo dei maschi appassionati di montagna appartenenti ad almeno due generazioni del dopoguerra la figura paterna ha giocato un ruolo fondamentale nella definizione della loro personalità, sia come identificazione che come opposizione. Caro, vecchio Sigmund, sei stato geniale, anche se ormai è passato più di un secolo e le nostre conoscenze sono andate avanti. Mi chiedo, e se lo chiedono esperti ben più competenti di me, sarà ancora così per le nuove generazioni, con la “morte” del padre e la diffusione del “mammo” ? Un tema di cui abbiamo già discusso a proposito dell’iperprotettivita’ materna sul porno dei maschietti, ma che mi è prepotentemente tornato in mente questa mattina leggendo il racconto sincero di Marcello, dove malgrado il controllo si sente la lacrima che scende pudica e pensando alla distruzione prematura che sta operando il Covid su molti vissuti familiari.
Io di Galletto 192 ne sto restaurando uno del 1957 trovato quasi per caso inutilizzato da uno che voleva disfarsene.
Bel racconto Marcello, cioè racconto di una bella vita, di cui qui racconti soprattutto lo scorcio finale!
Ho usato molto anch’io il mitico Galletto, mezzo che mi ha concesso libertà di movimento in montagna, sottraendomi all’alea dell’autostop. Non avevo visto il titolo, “192”, ma da vecchio possessore di una moto usata soprattutto dai preti e dai fattorini che facevano le consegne, antesignani degli attuali rider, giunto alle righe in cui parli della cilindrata mi sono detto subito, Centonovantadue. E mi è venuto un brivido giù per la schiena a leggere che tuo padre l’ha detto, brivido aumentato quando aggiungi che sono le ultime parole che gli hai sentito dire. Grazie Marcello!
Nei tempi in cui i solchi della tradizioni piccole e grandi si sono riempiti di mota della modernità liquida, nella quale i valori sono affogati, in cui galleggiano, come macchie iridescenti e tossiche, i vizi e il degrado, è semplicemente emozionante, sapere di ciò che ha resistito, del suo urlo di umanità.