Cerro Riso Patron
(e traversata dello Hielo Patagonico)
di Lorenzo Colombo
(pubblicato su Passo dopo passo, CAI Sottosezione di Ballabio)
E’ nel 1988 che la Sottosezione del CAI Ballabio scrive una delle pagine più belle e spettacolari della storia dell’alpinismo e dell’esplorazione mondiale: la prima traversata invernale completa dello Hielo Patagonico Sur e la salita all’inviolata cima del Cerro Riso Patron 2550 m c.
L’idea è del grande Casimiro Ferrari, il quale, pur vantando una lunga e brillante carriera ricca di successi (Cerro Torre, Fitz Roy, Cerro Norte, Murallón, Jirishanca, Huantsan, Alpamayo e Serapo, solo per citarne alcuni), dimostrò più che mai di non avere ancora esaurito la voglia di sfidare se stesso. Aspetto sottolineato anche da Alberto Benini nel suo libro Casimiro Ferrari, l’ultimo re della Patagonia: «Intanto Casimiro ha raggiunto un’età in cui gli alpinisti, perdonate il gioco di parole, tirano solitamente i remi in barca. Per lui, invece, tutto sembrava iniziare adesso».
Il sogno del Miro era quello di attraversare lo Hielo Patagonico seguendo i ghiacciai che dal Cile portano in Argentina durante la stagione più difficile: l’inverno Australe. Sogno che contemplava anche la conquista di una montagna inviolata della quale non sapeva nulla, se non il nome e il racconto di alcuni che l’avevano descritta come «stupenda». Si trattava del Cerro Riso Patron.
Il sogno divenne presto realtà quando, nella sede della Sottosezione di Ballabio, Casimiro confidò agli amici il suo progetto. Nonostante fosse evidente a tutti che non si trattava di una «normale» spedizione, prevalse l’entusiasmo. E la proposta venne subito accolta.
Fu così che si costituì il gruppo capitanato da Casimiro composto dai soci della Sottosezione CAI di Ballabio, Egidio Spreafico, Bruno Lombardini, Luigi Corti e da alcuni altri alpinisti lecchesi e non solo quali Gastone Aldè, Annibale Borghetti, Carlo Buzzi, Ferruccio Buzzi, Giuliano Maresi, Serena Giudici, Olga Laureanti, Luciano Spadaccini, Claudio Vantellini.
Luigi Corti, siccome l’obiettivo era «impegnativo» e richiedeva come racconta nel suo libro I miei primi settant’anni – «una preparzione particolare che si raggiunge solo con un ferreo allenamento» – con Egidio Spreafico, qualche settimana prima di partire, iniziò un allenamento «fatto in casa» ma che si rivelò efficace. Ogni giorno i due amici mettevano in spalla uno zaino di 30 chili e lo portavano a spasso per qualche ora su e giù per la Grigna e il Due Mani. Del resto era d’obbligo prepararsi al meglio visto che il Riso Patron, fino ad allora, non l’aveva mai affrontato nessuno. Tuttavia lo descriveva bene un antesignano dell’esplorazione come il salesiano Alberto Maria De Agostini, che nel suo libro Ande Patagoniche pubblicato nel 1949, scriveva: «Una piramide di terribile aspetto, sormontata da guglie e da pinnacoli, che emerge da un vasto campo di ghiaccio nel lato nord-est del fiordo (Falcón, NdA) e la cui altezza mi sembrò non inferiore ai 3000 metri. La denominiamo “Riso Patron” in onore del geografo cileno che apportò pregevoli contributi alla conoscenza della Patagonia».
Così nel luglio del 1988 la spedizione lecchese parte dall’aeroporto di Linate alla volta di Buenos Aires in Argentina, quindi si sposta e raggiunge Rio Gallegos in Cile e da qui s’imbarca via mare verso Puerto Natales, passando sotto la straordinaria corona rocciosa delle Torri del Paine. Una volta raggiunto il piccolo paese di pescatori, situato nel bel mezzo della Tierra del Sur, il benvenuto agli amici italiani lo diede l’inverno patagonico, che li accolse con una nevicata che giunse fino al mare.
Per la comitiva inizia una lunga attesa – di circa tre giorni – prima di vedere attraccare al porticciolo la piccola imbarcazione «Trinidad», il cui compito era quello di portare la «ciurma» sino al Fiordo Falcón, punto da cui Casimiro, Egidio, Bruno, Annibale, Carlo, Giuliano, Luciano e Luigi avrebbero intrapreso il lungo e faticoso avvicinamento al Cerro Riso Patron. Il resto del gruppo invece avrebbe atteso il rientro degli alpinisti comodamente accasato all’Estancia Cristina.
Tornando alla lunga attesa di Puerto Natales non ci volle molto per vedere la comitiva «sbuligà» (agitarsi) perché bramosa di iniziare l’avventura. E così, tra l’alternativa di rimanere in panciolle a oziare e quella «de fa vergot» (fare qualcosa), il gruppo decide di sfruttare il tempo a disposizione organizzando una serie di escursioni: la visita a Punta Arenas, un’occhiata al museo dedicato ai mezzi da combattimento che hanno fatto la storia della Terra del Fuoco, la degustazione del buon «mariscos» (pesce fresco). Ci fu anche l’occasione per assistere a un siparietto memorabile, Casimiro che rilascia un’intervista a una televisione locale. La giornalista, giunta appositamente a Puerto Natales per ascoltare le intenzioni degli alpinisti, dopo le classiche domande di rito, chiede al capo spedizione, Casimiro appunto, quale era l’itinerario e l’obiettivo dell’impresa. «Miro», prima di prendere la parola estrae dalla tasca del giubbetto una cartolina raffigurante il Cerro Riso Patron e, mostrandola alla giornalista, spiega in corretto spagnolo: «Bene: questa è la cima che vorremmo scalare. Una volta giunti in vetta l’intenzione è quella di scendere dal versante opposto rispetto a quello dal quale siamo saliti e quindi attraversare il ghiacciaio fino all’Estancia Cristina». A quel punto Casimiro con nonchalance passa dallo spagnolo al dialetto lecchese, concludendo: «Se l’è pusìbil, se no va da via èl cuu… turnem a cà!» (Se è possibile, se no va a dar via il culo… torniamo a casa). Una scena insuperabile!
Tre giorni di attesa stavano alimentando l’impazienza di Casimiro, ma alla vista della «Trinidad» l’animo dello «jefe» (“capo” in spagnolo) si placò.
In poco tempo viene caricato sulla piccola imbarcazione tutto il materiale e si salpa alla volta del Fiordo Falcón. Lo stesso che De Agostini descrisse così nel suo libro: «Contempliamo da una balconata glaciale il bellissimo spettacolo che ci offre il Fiordo Falcón, che si svolge come un nastro azzurro sotto di noi, tutto costellato di ghiacci galleggianti, come frantumi di cristalli, rinchiuso fra due elevate barriere di monti, in basso rivestiti di fitte e verdeggianti boscaglie, ed in alto, nudi ed incappucciati di neve».
Raggiunto il fiordo, dopo un viaggio non comodissimo a causa dei capricci del mare, ecco un altro problema: trovare un punto di attracco per l’imbarcazione. L’operazione non si rivela per nulla semplice, visto che la zona incontaminata presenta una fitta vegetazione che si estende sino alla riva del mare. Tuttavia, dopo un’attenta perlustrazione, viene individuato un punto accessibile che consente di sbarcare in una rara foresta subtropicale, davvero inusuale per quella latitudine. Una volta scaricato parte del materiale, inizia l’avvicinamento alla montagna, ma la complessità del terreno rende problematico il cammino.
Guadare un fiume e districarsi nella fitta vegetazione sono ostacoli insidiosi che vengono superati non senza difficoltà. Ancora una volta Alberto Maria De Agostini fotografa bene l’ambiente che avvolge il Fiordo Falcón: «… procediamo lentamente lottando disperatamente per aprirci il passo attraverso un fitto groviglio di arbusti e di alberi rivestiti di muschi e di licheni, fra cui si intrecciano liane e pungenti cespugli dei Barberis. Il suolo coperto da uno spesso ed elastico tappeto di muschi, umido come una spugna impregnata d’acqua, nasconde talvolta buche pericolose, tronchi molli e putrefatti per la vecchiaia; si affonda, si cade, si ruzzola e ben presto gli abiti sono inzuppati di acqua…». «Era un terreno così insidioso – ricorda Luigi Corti – che le tracce lasciate sul muschio scomparivano non appena si sollevava il piede».
Dopo circa 3 ore di faticosissimo cammino Casimiro e i suoi uomini localizzano un punto idoneo per montare il Campo 1, situato circa 350 metri sopra il livello del mare. Il freddo pungente e la forte umidità, hanno fatto sì che quel posto venisse battezzato con l’appellativo di «Siberia». Mentre Casimiro, Maresi e Buzzi rimangono al Campo 1 alle prese con il montaggio delle tende, il resto della comitiva s’incammina per ritornare al Fiordo Falcón. Giunto al punto di attracco il gruppo formato da Luigi Corti, Egidio Spreafico, Bruno Lombardini, Gastone Aldè, Ferruccio Buzzi, Serena Giudici, Olga Laureanti, Annibale Borghetti, Claudio Vantellini, Luciano Spadaccini trova una terribile sorpresa. La Trinidad è scomparsa!
Il buio stava avanzando e non c’era più tempo per ritornare al Campo 1. Così, bagnati fradici, sudati, senza cambio, senza cibo e il benché minimo riparo, i dieci compagni di avventura sono costretti a un bivacco all’addiaccio. Mentre scende la notte, accompagnata dal freddo che si fa sempre più pungente, Egidio si ricorda che Padre Maria De Agostini nel suo libro parlava di un arbusto che cresce in modo rigoglioso proprio sul lato dell’Oceano Pacifico ed è capace di bruciare anche se verde. Si tratta del «tepù» (Tepualia Stipularis) «una mirtacea di foglie molto piccole – scrive De Agostini – che forma spesso, lungo la costa, una massa impenetrabile denominata tepuales. I marinai lo raccolgono per bruciare, poiché arde sebbene verde e sviluppa molto calore». Egidio mette in pratica con successo i suggerimenti di quella lettura. Di lì a poco infatti un bel fuoco riscalda il gruppo. Nessuno quella notte riuscì a prendere sonno, troppi erano i pensieri che si rincorrevano nelle menti di ciascuno.
Il mattino seguente alle luci dell’alba, seppur stanchi e infreddoliti, i lecchesi raggiungono il punto di attracco dove, per magia, ritrovano l’imbarcazione: scoprono che il capitano è stato costretto ad abbandonare il fiordo, alla ricerca di acque più salate, per evitare che il ghiaccio in formazione rovinasse lo scafo del battello.
Uno dei campi allestiti durante la spedizione
Tutti si rimisero al lavoro per scaricare il resto del materiale al fine di portarlo al Campo 1 insieme a Casimiro Ferrari, Giuliano Maresi e Carlo Buzzi che nel frattempo, ben riposati, avevano raggiunto a loro volta il Fiordo Falcón. Di nuovo al Campo 1, dopo aver sistemato tutto, il gruppo si divide. Gastone, Carlo, Ferruccio, Serena, Olga e Claudio tornano alla barca e rientrano a Puerto Natales, mentre Casimiro, Egidio, Bruno, Annibale, Carlo, Giuliano, Luciano e Luigi rimangono al Campo Siberia.
II giorno dopo gli otto si svegliano di buon mattino per riprendere il cammino di avvicinamento. Superato il limite della vegetazione, il gruppo entra nel mondo bianco delle nevi perenni, trovando in serata un candido pendio dove poter allestire il Campo 2. Anche la mattina seguente il tempo è favorevole. Il gruppo procede spedito. E come previsto dal buon Casimiro, viene raggiunto un colle da dove è possibile proseguire con gli sci ai piedi, trainando ciascuno la propria slitta. Il viaggio si fa più confortevole. Al calar della sera, raggiunto un dolce pianoro, lo «jefe» decide che può bastare. Si piazza il Campo 3 per trascorrere la notte.
L’indomani, accompagnati sempre dal bel tempo, «Miro» e i suoi «ragazzi» proseguono l’avvicinamento. A quota 2000 metri il paesaggio regala scorci sempre più affascinanti con cime e guglie mozzafiato. Per l’ultima volta lo sguardo dei lecchesi riesce a scorgere il Fiordo Falcón. La bellissima giornata consente loro di osservare anche il ghiacciaio Caupolican. Viste le condizioni favorevoli comunicano via radio agli amici rientrati a Puerto Natales che possono salpare per poi raggiungere l’Estancia Cristina dove si sarebbero rivisti… «Un leggero senso di angoscia ci assale… ci siamo tagliati la ritirata», fu il pensiero del gruppo, ricorda Giuliano Maresi. La spedizione prosegue fino a raggiungere il valico battezzato «Paso Casimiro». I fiordi cileni vengono ben presto lasciati alle spalle per entrare nel magnifico scenario delle montagne argentine. D’ora in poi il Cerro Campana sarà la bussola naturale che guiderà il resto del tragitto. I lecchesi non avevano altro contatto col mondo e nessuna tecnologia GPS a disposizione in quanto il Global Positional System, inventato negli anni ‘70 divenne operativo solamente negli anni ’90. Per questo motivo diventò fondamentale orientarsi tenendo d’occhio il Cerro Campana che divenne più di un semplice punto di riferimento, come spiegano bene nel loro libro Patagonia: Terra magica per viaggiatori e alpinisti Silvia Metzeltin e il marito Gino Buscaini: «Dare un nome agli elementi della natura e in particolare alle montagne significa entrare in relazione con essi e creare un riferimento tanto geografico quanto emozionale, più ricco delle scarne indicazioni tramite le coordinate, procedimento oggi facilitato dall’uso del GPS. Il nome di una montagna può trasmettere un messaggio al pari della sua posizione, della sua forma e dei suoi colori».
Si procede su pendenze sempre più forti
A questo punto la spedizione si prepara per la discesa che consente di aggirare il Riso Patron a nord-est. Viste le difficoltà si procede sci in spalla con la massima sicurezza e attenzione. Il terreno è molto crepacciato e il buon senso suggerisce al gruppo di legarsi. Viene raggiunta la parte bassa dell’immenso spigolo nord-est del Riso Patron (1500 metri di altezza); la sua imponenza fa capire subito ai lecchesi cosa li aspetterà là dietro. E infatti, eccolo, l’inviolato pilastro Norte: «Rimaniamo senza respiro», si legge nelle memorie del gruppo.
Sul pianoro, sotto la parete nord-est, viene fissato il Campo 4. «Quella notte Casimiro dormì poco, le sue energie dovevano essere liberate al più presto sulla parete… al Campo la tensione rimase altissima», ricorda Maresi.
All’alba il gruppo parte per l’attacco alla parete. «Miro» disegna nella sua mente la via di salita sulla parete nord-est: 800 metri di ghiaccio. Il terreno è ricoperto da una neve poco compatta; quando i componenti della spedizione transitano in una zona crepacciata, nonostante la grande attenzione posta nell’incedere, il pendio si apre sotto il peso di Bruno… il più leggero della comitiva. Il Ragno scompare davanti agli occhi degli amici inghiottito dalle nevi!
Un grosso spavento e nulla più perché Bruno si ferma quattro metri più in basso su un ponte di neve. Con una semplice manovra di corda Bruno torna in superficie, ma l’avvertimento è chiaro: d’ora in avanti si procede legati.
Passo dopo passo si arriva all’attacco della parete, in prossimità della crepacciata terminale, sotto un enorme bordo strapiombante.
Miro attacca con decisione. E’ pomeriggio inoltrato e il freddo si fa sentire. Lo «jefe» sale lentamente il muro verticale, mentre i compagni lo seguono con attenzione assoluta. La scalata si presenta subito insidiosa e delicata, tant’è che Casimiro per salire deve superare alcune difficoltà: fissa alcuni chiodi e una staffa. Terminato il lavoro si cala su una piccola piazzola dove viene montato il Campo 5: una minuscola tenda dove Miro, Egidio e Bruno passeranno la notte. Gli altri (Annibale, Carlo, Giuliano, Luciano e Luigi) invece scenderanno al Campo 4.
All’alba Casimiro, Egidio e Bruno risalgono veloci le corde fisse e proseguono in stile alpino verso il centro della parete. Il materiale da scalata è ridotto all’essenziale per affrontare una parete di 800 metri da ridiscendere poi a corda doppia; per questo motivo «Miro» costeggia la roccia e attraversa sotto il muro di ghiaccio centrale, subito seguito nella manovra da Bruno ed Egidio. Dal primo sperone roccioso i tre alpinisti piegano verso destra attraversando in diagonale un ripido canale per portarsi sotto un’erta parete che percorrono centralmente nonostante le forti pendenze. I giorni nell’inverno australe sono cortissimi, così è necessario trovare al più presto un posto sicuro dove poter passare la notte. Ma su una parete verticale, dov’è possibile individuare un punto in cui sostare in tre per l’intera notte?
Incredibilmente «Miro» scorge un buco naturale che, una volta allargato grazie all’uso delle piccozze, si rivela una grotta di ghiaccio naturale, un ottimo posto per riposare. E infatti «Miro», Egidio e Bruno riescono a riposare e a recuperare le forze, rendendosi protagonisti di una salita molto veloce. Quasi tutti gli impegnativi 800 metri di parete sono sotto i loro piedi. Tutto procede per il meglio.
All’alba i tre lecchesi escono dalla «tana» e riprendono il lavoro. La vetta è ormai vicina, ma la fitta coltre di neve cedevole li impegna a fondo per superare il salto finale esaltando le loro doti alpinistiche. Raggiunta la cresta, finalmente ecco spuntare davanti ai loro occhi il fungo sommitale. Un’altra formidabile iniezione di fiducia. «Miro» riparte deciso per affrontare l’ultimo ostacolo prima della vetta. Scavando una vera e propria trincea nella neve il fortissimo alpinista lecchese corona il proprio sforzo raggiungendo la cima. Sono le 13.30 dell’11 agosto 1988 quando il Ragno Casimiro Ferrari scrive un’altra epica pagina dell’alpinismo toccando la vetta inviolata del Cerro Riso Patron.
I festeggiamenti devono attendere ancora qualche minuto perché il ruggito della montagna prova a respingere i suoi «violentatori». Egidio infatti, a causa della neve inconsistente, perde aderenza e scivola nel vuoto. Casimiro non se ne accorge. Ma per fortuna Spreafico non si fa prendere dal panico: dondolandosi sulla corda come fosse un pendolo, riesce a rimettere i piedi sulla neve. Un’astuzia vincente che però gli consiglia di non rischiare oltre. Ormai l’impresa è stata compiuta.
Due scatti, una sigaretta – come da tradizione – e Casimiro torna da Egidio e Bruno per iniziare la discesa. A notte fonda, stanchi e felici, arrivano al Campo 4 dove l’entusiasmo è alle stelle.
Ma il viaggio è ancora lungo. Occorrerà ancora qualche giorno e circa 120 chilometri per raggiungere la sponda del lago argentino.
Per loro fortuna il tempo continua a essere splendido. Smontano il Campo 4 e lasciano le pareti per affrontare nuovi grandi spazi attraversando il ghiacciaio verso la rampa centrale che porta al Paso Ancho. Il gruppo sale in quota fino ad aggirare a nord il Cerro Murallón e il Cerro Don Bosco.
Ormai sono otto giorni che è stato lasciato il Fiordo Falcón. La stanchezza per i chilometri percorsi e per il traino della slitta è compensata dalla maestosità dell’ambiente, mentre il Cerro Campana continua a essere la loro Stella Polare. Quando scorgono il Paso Ancho sanno che, se tutto andrà bene, dopo tre giorni potranno raggiungere l’Estancia Castina. Sullo Hielo Continental viene allestito l’ultimo bivacco. «Quella fu una delle notti più fredde con temperature di meno 35°C», ricorda Maresi. La direzione che mantengono è quella del ghiacciaio Upsala, verso sud. I lecchesi continuano a macinare chilometri e se ne accorgono quando sono costretti a salutare con lo sguardo il Cerro Campana. Casimiro, nel guardarlo per l’ultima volta, si sofferma un attimo e dice rivolgendosi al gruppo: «Che bèll che l’è. Vedarì ch’el Campana el farèm quànd sarèm püsee véce!» (Che bello che è. Vedrete che il Campana lo faremo quando saremo più vecchi).
II viaggio prosegue, ma a un tratto, nell’immenso deserto di ghiaccio, i lecchesi scoprono di non essere soli… enormi orme sulla neve mettono in guardia il gruppo. Un puma è nelle vicinanze. Ma il felino fortunatamente non si farà vedere, permettendo ai lecchesi di proseguire il cammino sulle nevi perenni fino a quando vengono localizzate le prime chiazze di ghiaccio vivo, che annunciano il termine della traversata su neve. Il disgelo si sta facendo spazio: il ghiaccio si frammenta e compaiono le prime lagune blu. Per evitare lunghi giri il gruppo si arrischia ad attraversarne qualcuna, ma alla fine ancora una volta vince il buon senso e la marcia prosegue sulla terra ferma. Nei pressi del rifugio Pascal, che verrà raggiunto alle 2 di notte, la comitiva si trova di fronte a un altro ostacolo, quello più ostico: una battaglia psicologica con il «Crapun de Laurca» (Crapone di Laorca) (1) Bruno Lombardini che, stravolto, aveva deciso di non muoversi più da un grosso sasso su cui si era fermato a riposare. «Aveva i piedi a pezzi – ricorda Spadaccini – era tre giorni che dormiva senza togliere gli scarponi perché aveva piaghe ovunque. Sembrava impossibile smuoverlo da quel sasso, ma alla fine decise di desistere e compiere l’ultimo sforzo per raggiungere il rifugio Pascal». Un simpatico aneddoto che ancor oggi capita di sentir ricordare e che valse a quel sasso un nome tutto suo: Sasso Bruno. «E c’è chi negli anni a venire – prosegue Spadaccini – passando da quelle parti rammentava ai presenti: “Eccolo lì il Sasso Bruno”».
La mattina seguente segnò l’ultima tappa. Dopo aver costeggiato l’ennesima laguna i lecchesi proseguono per qualche ora fino a raggiungere l’Estancia Cristina. «Non ci sembra vero di aver realizzato in una manciata di giorni due grandi imprese», diranno agli amici rimasti ad aspettare.
La prima traversata invernale dello Hielo Continental e la prima scalata del Cerro Riso Patron sono state compiute. Davvero un capolavoro.
Tutto finito? Neanche per sogno! A distanza di anni Giuliano Maresi la chiama «sceneggiata napoletana», ma l’avventura dei passaporti è una parentesi terribile che tutti ricordano come fosse ieri. Soprattutto Bruno, Egidio e Giuliano: i tre protagonisti.
L’itinerario dei lecchesi, dal Fiordo Falcón all’Estancia Cristina passando per la vetta del Cerro Riso Partron e attraversando lo Hielo Continental. Circa 120 chilometri macinati durante l’inverno patagonico, un’impresa unica al mondo e non ancora ripetuta.
Il problema era tanto semplice, quanto grave o meglio gravissimo. I lecchesi dopo aver fatto ingresso in Cile non avevano più varcato la frontiera eludendo anche la dogana argentina. Risultato? I passaporti non avevano il visto di uscita dal Cile e nemmeno quello di ingresso in Argentina. Gli otto lecchesi erano contemporaneamente disertori (per il Cile) e clandestini (per l’Argentina). Se si considera che in quegli anni il clima politico non era dei più accomodanti con il dittatore Augusto Pinochet alla guida del Cile, era palese che la situazione non era certo delle migliori.
La vastità dello Hielo Continental
A dire il vero i lecchesi sapevano già in partenza che se tutto fosse andato secondo i piani, si sarebbero trovati in Argentina. Tant’è che avevano escogitato una scusa bella e buona nel qual caso li avessero fermati: «ci siamo persi». Nessuno li avrebbe creduti e semmai, questa trovata, avrebbe potuto funzionare nel bel mezzo dello Hielo Patagonico. Con questa gatta da pelare la comitiva intanto si sposta da El Calafate a Rio Gallegos dove in tutta fretta una parte del gruppo, quella regolare, si imbarca su un aereo diretto a Buenos Aires, mentre Bruno, Giuliano e Casimiro con in mano i loro tre passaporti e quelli di Annibale, Carlo, Giuliano, Luciano e Luigi, d’accordo con Vittorio Gotti, imprenditore italiano che si era trasferito in Argentina e amico di Casimiro, si recano dal console cileno. Sentita la storia il diplomatico consegna ai tre italiani una lettera chiusa. «Non sapevamo nulla di cosa ci fosse scritto – ricorda Maresi – avrebbe potuto anche essere un mandato di arresto: noi eravamo all’oscuro di tutto». Per ovvie ragioni e in pieno stile clandestino il quartetto decide di raggiungere la frontiera argentina di notte. Arrivati al confine i tre, spalleggiati da Gotti e forti della lettera del console cileno, consegnano la missiva alle guardie argentine che vistano gli otto passaporti senza battere ciglio: tutto fila liscio. Alla gendarmeria cilena invece, il clima si fa rovente. «Presa la lettera non passarono 20 secondi che il funzionario divenne paonazzo – ricorda Maresi – Noi diversamente sbiancammo. Io ed Egidio ci guardammo fissi negli occhi e senza proferire parola ci capimmo benissimo, il pensiero di entrambi era chiaro: “che finisem dent” (qui finiamo dentro). Il funzionario prese i cinque passaporti e iniziò a timbrarli con violenza. Non oso immaginare cosa fosse successo, senza quella lettera. Sta di fatto che ci riconsegnò i documenti timbrati consentendoci finalmente di raggiungere il resto del gruppo a Buenos Aires per poi fare rientro in Italia».
Durante un incontro al CAI con Egidio Spreafico, Giuliano Maresi e Luciano Spadaccini impegnati a ricordare i momenti salienti di questa grande impresa, ci fu qualcuno, seduto al tavolo, che chiese ai tre alpinisti: «Se anziché trovare sempre bel tempo, aveste trovato brutto?».
Sconvolgente la risposta data all’unisono: «Sérem gió amò adèss…» (Eravamo giù ancora adesso…).
Nota
(1) Crapun de Laurca tradotto Craponi di Laorca. La tradizione vuole che gli abitanti della frazione lecchese di Laorca abbiano come caratteristica quella di essere testardi e cocciuti. Orgogliosi di questo fino agli anni ‘70 i laorchesi avevano l’usanza, subito dopo il battesimo, di condurre il nascituro nei pressi della colonna dei Craponi posta di fronte alla parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo, fargli compiere un giro attorno ad essa e quindi appoggiare la testa del neonato al candido granito della colonna, per suggellare indelebilmente la sua appartenenza alla comunità dei Crapun de Laurca.
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Erano gli anni di “Giochi senza frontiere “e le comunità facevano a gara per parteciparvi.La comunità di Ballabio in questa bella e straordinaria impresa si gioca ben tre jolly;
un lontano parente del mirto sardo ma piu combustibile ,una nicchia nel ghiaccio provvidenziale per non assiderare e non meno importante un diplomatico che a parole scritte li toglie dai casini,delle frontiere appunto.
Si sente dentro il racconto tutta l amicizia la stima reciproca e le indubbie capacità leganti che hanno contraddistinto Ferrari.
gran bella avventura
li invidio
Una spedizione dall’altra parte del mondo di un piccolo paese di provincia con forti tradizioni di montagna, una generazione di persone affiatate, cresciute insieme in un piccolo mondo , che si conoscono in modo profondo, un gruppo con forti legami personali con peculiari affinità e identità anche comunicative e linguistiche, che ha portato avanti e tramandato grandi imprese alpinistiche con la propria iniziativa, capacità, determinazione e volontà, con una apparente semplicità e ingenuo provincialismo…me sunt de lecch sô piatt me na maa…