Cervino sacro e profano – 1 (1-2)
di Luca Gibello
(già pubblicato su Rivista della Sezione Ligure del CAI, 2-2017)
Accolgo con piacere l’invito degli amici del CAI Ligure a raccontare la traversata del Cervino, con salita dalla Cresta del Leone e discesa da quella dell’Hörnli. Tranquilli, nessuna descrizione o cronaca, in quanto non si tratta di exploit alpinistico, di apertura di nuove vie o altro d’inedito ed estremo. L’impresa, semmai, è a livello prettamente personale, quella di due ‘alpinisti della domenica’. E anche del lunedì, mi ricorda sempre il fido compagno di corda Federico, in quanto spesso ricorriamo al giorno supplementare perché ritardatari nel rientro. Inoltre, il percorso è dei più noti da non necessitare d’essere illustrato e poi, diciamocelo onestamente, le relazioni descrittive nude e crude, se non accompagnate da altro, sono sempre così noiose… Proverò invece a riportarvi alcune impressioni, emozioni, considerazioni.
Astanza
Nella dotta introduzione al bel libro di Luisa e Beat H. Perren (Cervino. La gran becca. Ascensioni lungo le vie classiche, Fondazione Enrico Monti, 2009), Luigi Zanzi sviscera il concetto della presenza ‘individuale’ del Cervino, che “è là”, dovunque lo si osservi: una personalità forte, quasi ipnotica, cui pochi, alpinisti o turisti che siano, sanno sottrarsi. Del Cervino pressoché tutti conoscono quanto meno il nome e ne riconoscono le sembianze. Non è così per nessuno degli altri giganti alpini; neppure per il Monte Bianco, per quanto esso detenga il primato in altezza (e i primati contano…). Il sottoscritto fa parte della categoria degli ‘stregati dal Cervino’ e, fin da quando ha frequentato alpinisticamente i monti (ormai da 30 anni), la salita è stata il suo sogno proibito. Molto meno lo considerava il mio socio Federico, per il quale il Cervino non era che un grande cumulo di sfasciumi (quando non lo catalogava con epiteti assai meno eleganti…).
Adeguatezza
In precedenza, per la Gran Becca non mi sono mai sentito adeguato: tecnicamente e forse anche ‘moralmente’. Ho sempre ritenuto che, più ancora di altre cime, il Cervino meritasse rispetto. Andasse cioè avvicinato non solo con la giusta preparazione fisica ma anche mentale: sia a livello psicologico (ovvero saper reggere la stanchezza e soprattutto le possibili difficoltà e l’esposizione ‘d’ambiente’), sia a livello intellettivo (ovvero conoscerlo a fondo, ancor prima di calcarne il suolo).
E di testa, o carattere che dir si voglia, anche Federico (che alla fine ha ceduto alle lusinghe mie e del forte amico avellinese Massimo, il quale è salito legato all’altrettanto forte Roberto), ha dimostrato di averne tanta quando, alla partenza dalla capanna Carrel, dopo una nottata insonne con forti nausee ed emicranie per l’ipossia d’un ambiente in cui eravamo stipati oltre misura in un caldo asfissiante, ha stretto i denti ingurgitando un cocktail di farmaci (è medico, bontà sua…) e provando comunque a seguirmi; poi, man mano che saliva, la sua condizione di stordimento è andata fortunatamente svanendo.
Presentarsi adeguatamente di fronte al Cervino per me significava non solo conoscerlo preventivamente: attraverso le letture, gli scambi con chi vi era stato, le osservazioni da basso e da lontano (compresa una prima salita esclusivamente di ‘assaggio’ fino alla capanna Carrel, nel lontano 1988, non ancora maggiorenne). Per me significava anche presentarsi all’altezza, ovvero con un curriculum minimamente degno: così ho atteso 30 anni e 56 quattromila precedentemente saliti. Per me, il Cervino non merita di essere violato neppure da un fuoriclasse se questi è alle sue prime uscite; per non parlare dei record di velocità (come la strabiliante quanto assurda impresa di Kilian Jornet Burgada, in vetta da Cervinia e ritorno in 2 ore e 52 minuti…).
Circa l’essere degni, deve averla pensata similmente anche Philippe Génin, francese, cosiddetto “Pianista delle cime”, capace di portarsi in spalla una pianola con due cavalletti per inscenare un concerto “per la Pace, l’Amore, la Fraternità e la Protezione del nostro Pianeta” alla capanna Carrel la sera al tramonto e poi l’indomani in vetta, dove abbiamo mancato la performance per poco, in quanto mentre lui raggiungeva la cima italiana noi stavamo iniziando la discesa da quella svizzera (non perdetevi i suoi video su Youtube).
Infine, al Cervino ci sarei dovuto andare con le mie forze. Pur con il rispetto che nutro per le guide alpine (dei cui servigi intendo avvalermi in altre circostanze), lì dovevo cavarmela da solo, visto che una forma di azzeramento già c’è, ovvero la presenza dei canaponi. Ecco perché non ho mai cercato di aggregarmi neppure a qualcuno di più forte; bisognava provare a salire, pur con tutti i nostri limiti, con il compagno dilettante, a me circa equipollente, di dieci anni d’indimenticabili avventure sulle Occidentali.
Storia
E bisognava salirlo in traversata, senza ridiscendere dalla stessa parte (come hanno invece fatto, per ragioni logistiche, gli amici Massimo e Roberto). Perché evitare di ritornare sui propri passi significa, come nella più elementare delle escursioni ad anello, raddoppiare la scoperta, l’emozione, le trepidazioni e la gioia della meraviglia. Poi, per il Cervino, significava compendiare le epiche vicende del suo raggiungimento (non mi piace parlare di conquista e altri termini militareschi; le montagne salite non sono di nostra proprietà, non le vinciamo e noi siamo, per dirla con Lionel Terray, I conquistatori dell’inutile). Significava unire e omaggiare i due versanti più approcciati da generazioni di alpinisti, guide e dilettanti (talvolta allo sbaraglio): Whymper vs Carrel, Italia vs Svizzera, nazionalismo vs turismo.
E la storia si respira a pieni polmoni, lungo quelle pendici. Dalla croce laddove è spirato (non è caduto, perché – come scrive Paolo Paci in Nel vento e nel ghiaccio. Cervino, un viaggio nel mito – una leggenda non può cadere) il ‘bersagliere’ Jean-Antoine Carrel, al Rocher des écritures (con le iniziali incise da Carrel e Whymper, in quel momento alleati nel tentativo del 1861 che segnava il punto più alto raggiunto allora), fino ai tanti nomi che segnano, soprattutto dal lato valdostano, i passaggi chiave del percorso (Seiler, Crétier, Giordano, Tyndall, Jordan, Piovano, Wentworth, Thioly). E ancora, affacciandosi per la prima volta sull’impressionante baratro della parete nord al cui bordo si delinea l’insidiosa e ghiacciata traccia di discesa, sembra di percepire dal fondo del ghiacciaio, oltre mille metri più giù, il grido terrorizzato delle anime dei quattro sventurati (Croz, Douglas, Hadow, Hudson) che, appena dopo la trionfale ascesa del 14 luglio 1865, scivolarono inesorabilmente spezzando la corda e lasciando salva la vita (ma non la serenità) a Whymper e ai due Taugwalder.
Poi, narrano la storia, le pietre e i legni che, in forma di manufatti, son diventati ricoveri. Le testimonianze esistenti o reperibili sotto traccia lungo le due creste ci raccontano, dagli anni ’60 dell’Ottocento a oggi, l’evoluzione dell’idea di rifugio alpino e di confort. Dagli strapiombi o dalle cavità naturali che offrivano ripari primordi (la Balma della Cravatta di qua, la nicchia della vecchia capanna Hörnli di là), passando per le tracce dei siti di costruzione delle capanne della Gran Torre e Luigi Amedeo di Savoia (quest’ultima dal 2003 ‘traslata’ a valle, a Cervinia, come museo di se stessa); dal modello prefabbricato in legno della Solvay (dono dell’industriale belga del bicarbonato), a quello del rifugio-albergo d’inizio Novecento incarnato dal Duca degli Abruzzi all’Oriondé, fino all’extra lusso fuori misura – quanto meno nel prezzo – del recente ampliamento della Hörnlihütte.
Luna Park
Leslie Stephen, tra i fondatori dell’Alpine Club nel 1857, parlava delle montagne, allora appena ‘scoperte’, come del Playground of Europe. Qui, così come salendo il Monte Bianco dalla via normale francese, tale lettura è palpabile. La stessa attrezzatura delle vie lo dimostra: canaponi, corde, catene, fili metallici, fittoni. Con la conseguente processione di alpinisti in coda nei passaggi chiave (a noi per la verità è andata bene, con ‘traffico regolare’ e solo qualche ‘ingorgo’ alla scala Jordan; fu molto peggio al Dente del Gigante) e i soliti superman maleducati che ti sorpassano di sopra, di sotto, di lato. Infatti, soprattutto nei confronti dei canaponi si possono instaurare vari tipi di rapporto: c’è chi li usa proprio come attrezzi in una palestra di fitness. In questo, sul lato italiano, la Cheminée rappresenta la selezione all’entrata: poco sotto la capanna Carrel, è tra le prime corde che s’incontrano e, dopo il crollo di una sezione di roccia nella torrida estate del 2003 (la stessa che scaricò una pietra sul tetto della citata capanna Luigi Amedeo, da allora dismessa), si è fatta molto più ardua. Passato quello – per noi non senza patemi -, gli altri punti chiave son sembrati più agevoli, comprese le famigerate Corda della Sveglia, Gran Corda e Scala Jordan.
La Gran Torre e la capanna Carrel
Poi, i tipi umani. Se ne vedono di tutti i colori, soprattutto dal più abbordabile lato svizzero: abili o improbabili; iperaccessoriati o sprovveduti. Alla capanna Solvay, dove abbiamo pernottato, sebbene non fossimo in emergenza ma decidendo di fermarci per precauzione alle 17.30 (confermando la nostra regola del rientro al lunedì), dopo di noi sono ancora transitate alcune cordate verso valle, mentre altre sono sopraggiunte fermandosi alle 20, alle 22 e alle 2.30 di notte: tutti avevano semplicemente percorso la via normale svizzera, impiegando quasi però 24 ore per giungere lì… Fantastico poi, la mattina, veder salire la colonna di guide con cliente al seguito. Salvo poche eccezioni, li riconoscevi subito: il primo come se passeggiasse in piazza Caricamento, il secondo come un predestinato al patibolo.
Noi stessi ci siamo sentiti attori dello show quando, sotto la Hörnlihütte, qualche escursionista italiano vedendoci bardati ci chiedeva meravigliato della traversata; oppure clienti paganti del luna park raggiungendo in jeep l’Oriondé o risalendo con gli impianti al Piccolo Cervino per rientrare in Italia. Comunque, per un’apoteosi del kitsch sempre connaturato ai fenomeni di massa, suggeriamo – a vostro rischio per la violazione delle regole dell’ordine pubblico – la salita del Cervino in miniatura al centro della rotonda stradale di Chatillon, all’imbocco della Valtournenche: forse di minor soddisfazione, ma senza faticare sbriciolerete il record di Burgada.
L’autore di questo articolo, Luca Gibello, è storico dell’architettura e giornalista, fondatore di Cantieri d’alta quota, www.cantieridaltaquota.eu.
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