La contemplazione come via di conoscenza del mondo e di sé.
Contemplazione
di Lorenzo Merlo
(ekarrrt – 28 gennaio 2024)
Non è come dirlo
Se fossimo educati alla contemplazione, le relazioni sarebbero intrise di autenticità. Se la cultura ci allevasse con il valore della contemplazione, nelle serre della politica non crescerebbero fiori neri. Se la contemplazione facesse parte dell’educazione, l’analisi, la morale e il predominio della concezione materialista del mondo sarebbero ridimensionate a svolgere il ruolo che spetta loro, a fornire il servizio organizzativamente utile, senza più mortificare il potere creativo degli uomini.
Ma si tratta di illazioni anch’esse al guinzaglio del razionalismo e del meccanicismo. I se rappresentano prospettive di chi le esprime. Non cambiano di una virgola la concezione di sé e del mondo degli altri. La consapevolezza non è trasmissibile. Se lo fosse saremmo saggi da millenni.
Il discorso fondato sul se, è dunque sterile. E quando appare invece fertile è facile che vi si nasconda la dottrina, l’ideologia, il dogma. Ma è, appunto, solo apparenza. È questa un’eventualità che tende a realizzarsi quando il destinatario del messaggio ne accredita la fonte. L’esempio per eccellenza lo si vede nel totalitaristico potere della parola dei genitori sui bambini.
La prospettiva attraverso la quale traguardiamo il mondo, che ci permette di affermare i nostri se e le conseguenze che sono già presenti nella nostra visione, non può dunque avere proseliti autentici, ma solo diaconi replicanti. Un’evoluzione tutt’altro che favorevole, in quanto in essa risiede tanto l’autostima del sacerdote, quanto il germe dell’idolatria, della violenza, della maggioranza.
Tutt’altra realtà si realizza invece quando la prospettiva non è assunta come vera in quanto corrispondente a noi per quale aspetto e misura, ma quando essa è ricreata. L’eureka è il segnale distintivo tra imitazione e ricreazione.
Un’eventualità che, a sua volta, tende ad essere probabile in modo direttamente proporzionale all’esplorazione del mondo e non alla conoscenza creduta all’interno delle – non viste e percepite – consuetudini, né nella scienza, cosa che farebbe di noi dei devoti, degli scientisti.
Come l’eureka rivela l’autenticità del nostro procedere, così la svestizione del mondo dalle sue forme allude ad una liberazione dal conosciuto e quindi alla dimensione energetica delle relazioni. Che significa una lettura del reale svincolato dal proprio interesse personale, libero dalle imposizioni egoiche che l’identificazione con l’io ci impone e in quel modo facilmente ottiene.
L’ultimo se
Nella contemplazione ogni realtà si fa visione e il carattere della visione è l’unione. Nella contemplazione le infrastrutture culturali tendono a sollevarsi, lasciandoci leggeri di avvertire diversamente la realtà. Nella contemplazione c’è meraviglia e non c’è né l’ovvio, né il banale. C’è la conoscenza per ciò che la realtà è e non secondo quella raccontata nei sussidiari. Nel fluttuare della contemplazione risalgono a noi aspetti che il giogo delle consuetudini e quelli dell’interesse personale, della paura, del vittimismo avevano tenuto schiacciato e ammutolito. C’è l’evidenza della parzialità del nostro pensiero e della pretesa di farlo prevalere. Nella contemplazione ci si riconosce come spiriti liberi, ovvero come esseri denudati dai pastrani dell’ipocrisia, della menzogna, della bugia, sempre indossati in tutte le relazioni della vita.
Contemplare è unire sé alla visione, all’oggetto. Che oggetto più non è perché esso siamo noi, esso è in noi, e noi non possiamo più dirci colui che ha la visione, colui che contempla, perché l’io si scioglie nello spazio totalizzante della contemplazione.
Nella contemplazione una sedia non è una sedia. È una quantità esorbitante di sensazioni, informazioni, scoperte, emozioni. Tutto un sapere autentico, in quanto personalmente esperito, totalmente annullato dal sapere precostituito “sedia”.
La contemplazione, sebbene non costituente la nostra cultura, non è da imparare. È una dote umana come un occhio o un’unghia. Ma se occhio e unghia, per quanto ridotti a occhio e unghia, non possono essere cancellati, la contemplazione ha subito una sorte differente. È stata castrata e gettata nel cestino della scienza.
Se la contemplazione fosse in noi, potremmo guardare il firmamento e scoprire, senza studio, né titoli, né altre baggianate simili, che ci perdiamo in gorghi di forme e quisquiglie razionaliste ed egoiche per una vita intera, invece di rimirare il cielo o chi per esso pieni di gioia e meraviglia.
Eppure se la vita durasse un istante, nessuno vorrebbe consumarla soffrendo.
Ma anche qui, c’è un se di mezzo.
Ricreare è necessario.
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Se fossimo anche contemplazione non avremmo bisogno di una stanzetta di lusso in montagna per prendere coscienza che siamo anche firmamento.
Bruno, io non sento imposizione alcuna.
Errore. Tralascio un commento sulla distopia di Giavazzi!
Purtroppo l’utopia della contemplazione si scontra spesso con la distopia del neoliberismo che impone le scelte dell’utile e del lavoro senza lasciare spazio all’ozio e alla bellezza.
Ho letto ieri sul “Corriere della sera” un commento di Francesco Giavazzi