High Lab Dolomiti

Metadiario – 202 – High Lab Dolomiti

Il 22 febbraio 1996 è una giornata un po’ triste, il definitivo riconoscimento della perdita di ogni legame fisico con Genova. E’ la data infatti dell’atto di vendita della casa dove avevo vissuto otto anni, quella di via Lorenzo Pareto 8.

C’erano state parecchie complicazioni per la vendita, dato il frazionamento della proprietà. Io avevo il 50%, dopo la morte di mio padre avvenuta il 10 settembre 1987. Il resto era suddiviso tra cugini vari: Oreste Merano, Linda Tallone, Gerolama Tallone, Catterina (sic) Guglieri, nonché i miei compagni d’infanzia Domenico e Vincenzo Gandolfo.

Al di là del piacere di rivedere qualcuno che da decine d’anni non vedevo, non rimane un buon ricordo: perché comunque è la fine di un passato che non tornerà.

In salita verso la Cima dei Paradisi, 4 marzo 1996

Ritornato a Milano, sono assorbito nei preparativi di un grande impegno.
L’idea in fondo è semplice: nobilitare la prova. Data una richiesta iniziale, gli esperimenti si devono con­durre in laboratorio, da una parte cercando di riprodurre le condizioni della realtà, dall’altra minimiz­zando le variabili. Ciò di solito porta alla realizza­zione di prodotti che si avvicinano alla richiesta i­niziale. Va aggiunto però che questa non è così preci­sa, perché le variabili di uso in monta­gna di un pro­dotto sono notevoli. E allora la prova finale dev’es­sere fatta in montagna, nelle condizioni più diverse e imprevedibili.

In salita verso la Cima dei Paradisi, 4 marzo 1996

Così è nato High Lab, un laboratorio in quota, mobile e aperto a tutti gli imprevisti. Le Dolomiti, tra le varie montagne delle nostre Alpi, sono quelle che mag­giormente si prestano alla rappresenta­zione della va­riabilità in spazi relativamente piccoli. Abbiamo scelto l’inverno, la stagione più rigida, per compiere una traversata con gli sci da Caorìa a Pozza di Fassa, bivaccando nelle tende, senza cioè usare i rifugi o gli alberghi di fondovalle. Una prova generale per una futura traversata di tutte le Dolomiti. Non era nostra intenzione fare una grande impresa, né imporci in qualche modo su chi invece le Dolomiti preferisce conoscerle e goderle in modi più comodi e meno avventurosi. Ciò che volevamo era conoscere più a fondo i materiali e in condizioni tali da essere co­stretti a conoscere più a fondo anche noi stessi.

Il 4 marzo 1996 partiamo da Caorìa 1050 m in Valle del Vanoi. Non è presto, il viaggio e l’attenta verifica al materiale hanno richiesto molto tempo. Siamo in tanti, undici persone sono convenute qui, alla fine con solo due mezzi, il nuovo furgone Transporter Volkswagen acquistato dalla Melograno e un’auto. Roberto Corsi ha incominciato a lavorare per la K3, ed è qui con Cristina Galliena per assisterci nella logistica, vale a dire spostare i due mezzi a seconda del programma, oltre ad altre mansioni, tipo ufficio stampa o rifornimento viveri.

Allestimento delle tende della prima notte, nei pressi della Cima dei Paradisi

Il gruppo è assai eterogeneo. Oltre a me e Marco Milani, con mansioni di fotografo, ci sono: Federica Frattini e Alessandra Galliani di Parma, Franco Girodo e Marco Degani di Torino, Davide Brighenti, Marco Preti e Luca Venchiarutti di Brescia. Questi due ultimi con mansioni di cineoperatore e aiuto.

Inutile dire che siamo carichi come muli, però siamo anche carichi di energia positiva, tanto che nel pomeriggio saliamo con costanza, a parte qualche sosta fotografica e cinematografica. Non era più necessario girare in pellicola, ma anche così il macchinario era assai pesante…

Cima dei Paradisi: il barista Alessandro Gogna offre il tè a Federica Frattini

È sera, fa molto freddo e siamo stanchi. Il sole è quasi all’orizzonte. Vedo i miei compagni davanti a me trascinare lentamente gli sci, in una salita che pare non abbia fine. Sono abituato a considerare la sera come la fine delle fatiche, e in­vece è con un vago senso di inquietudine che penso a tra poco, quando ci appresteremo a montare le tende in un luogo del tutto gelido e inospitale, e quando con un brivido m’infilerò finalmente nel saccopiuma a trangugiare cucchiaiate di minestra bollente.

Oltrepassata la Cima dei Paradisi 2206 m, scegliamo poco oltre un ripiano che sembra fatto apposta per la notte. Che si rivela assai lun­ga, scandita dallo sbattere frenetico delle ten­de per le folate continue di un vento rabbioso. L’alba è ancora più siderale.

5 marzo 1996, da Cima dei Paradisi verso il Lagorai: da sinistra, Coltorondo, Cima Moregna, Cima di Valbona, Cima di Valmaggiore, Forcella di Valmaggiore e, la più alta, la Cima di Cece.

Come previsto, la traversata High Lab Dolomiti aveva lo scopo di provare i materiali per l’alta montagna invernale in maniera continuativa e al massimo della tensione. Da questo punto di vista non potevamo essere più fortunati, perché le temperature quella notte hanno toccato i -24° (ma anche le notti dopo sono state poco da meno…). Le prove dunque hanno riguardato tende, sacchipiuma, materassini, zaini, cioè praticamente tutta la produzione Ferrino e Columbia. Le tende sono state montate in condizioni estreme di vento e di temperatura, cronometrando i tempi dell’operazione in vista di possibili migliorie. Temperatura interna ed esterna, umidità e velocità del vento sono state misurate più volte nel corso delle notti per meglio capire l’andamento della formazione della “condensa” all’interno dei teli, un fenomeno che non si può eliminare ma certamente si può tenere sotto controllo. Il fiato e la cottura dei cibi con il fornello hanno infatti portato ad una temperatura interna mai inferiore a -16° ma sono stati i principali artefici della “condensa”. La traspirazione all’interno dei sacchipiuma è altrettanto necessaria: con l’igrometro sono state fatte più misurazioni al loro interno. Ma l’esperimento più importante è stato l’accurato confronto tra i sacchi imbottiti di piuma d’oca e quelli imbottiti di materiale sintetico. È stato curioso osservare che il sintetico, sottoposto a compressione continuata (e questo è il caso di una persona sdraiata nel suo sacco per una notte intera) tende a ridurre solo di poco (e comunque assai meno della piuma) il volume delle proprie microcamere d’aria, con ciò conservando un maggiore isolamento dal contatto con il materassino e un maggior calore all’interno.

In marcia verso la Forcella di Valmaggiore, sotto alla Cima di Cece

In quelle condizioni, si chiede grande conforto ai materiali che s’indossano o si usano. Ma anche i compagni hanno una parte essenziale nella sensazione di relativo benessere. Non sono ammessi “tradimenti”, al massimo qualche debolezza. Ed è qui che i più scono­sciuti si trovano ad emergere nella considerazione emotiva, mentre qualcuno o qualcosa di ciò che credevamo di cono­scere riacquista una sua zona d’ombra se non di mistero…

Alessandra Galliani e Franco Girodo nei pressi della Forcella di Giuribrutto, 6 marzo 1996

Intanto, illogici e impalpabili sono i miliardi di fiocchi di neve centrifugati davanti ai nostri occhi. Sono i piccoli fiori della stagione rigida e ap­paiono e scompaiono in questo splendido giardino d’inverno. “Amabili fiocchi di neve che non cadono in nessun posto”, recita una poesia zen. La regia del nostro High Lab è lì, in quelle infini­te frazioni di secondo.

E comunque il mistero qui è di casa. Queste montagne sono leg­gendarie. Nei Lagorai, che svettano con ele­ganti rocce di porfido rossiccio, la natura è intatta e l’uomo la protegge con la Riserva di Paneveggio. Le tracce di animali, piccole orme nella neve, dise­gnano itinerari misteriosi per chi, come noi, è solo di passaggio e non conosce le leggi naturali di questo territo­rio. Poco distanti, le fa­tate Pale di San Martino tra­montano e albeggiano con forme così belle da essere istantanee, contorni di pensieri così fulgidi da vi­vere solo un attimo prima di essere sostituiti da al­tra poesia. Pen­sare che questa totale mobilità di e­spressione dolomitica è scolpi­ta nella pietra, è un paradosso: attorno, il vento ulula e turbina fioc­chi di neve che vengono da lontano e non si sa se cadranno mai.

Franco Girodo scende dalla Forcella di Giuribrutto verso la Malga Campo d’Orso

Poi ci sono le montagne della guerra, Cima di Bocche, Costabella, Marmolada, nomi di vette che ancora dopo ottant’anni mostrano le ferite di come ci si scannava nel più completo anonimato. Trincee, camminamenti, e­splosioni e cecchini: tutto dorme nel silenzio degli anni passati e dell’inverno che copre ogni residuo. Però noi sappiamo cosa c’è sotto ed è qui che il no­stro pellegrinaggio ci sembra davvero inutile.

Rilievi mattutini a Fociade, 7 marzo 1996

Il sospetto di inutilità ci aveva sfiorato già all’i­nizio. Con zaini assai pesanti affrontavamo una prova di più giorni in territorio ben conosciuto, do­ve non c’era nulla da conquistare, ma al cospetto della Grande Guerra i nostri salire e scendere ci sembrano per un momento ridicolmente poveri. Raggiunta e superata la Forcella di Valmaggiore 2180 m i fardelli pesanti ci fanno goffi anche nella discesa, che la tradizione dello scialpinismo dice essere il giusto coronamento delle fatiche della salita… Ma anche la gioia di muo­versi leggeri e ondeggianti, curva dopo curva, è ap­pannata dal peso delle cose che ci portiamo dietro. Solo dopo qualche giorno abbandonerò nella neve il peso più ingombrante, cioè il sospetto di fare cosa inutile perché contraria alla comodità. Lionel Terray riteneva così importante la conquista dell’inutile da intitola­re così la sua autobiografia.

Salita al Passo delle Cirele, 7 marzo 1996

La discesa in Valmaggiore termina sulla strada carrozzabile Predazzo-Passo Rolle, nei pressi dell’albergo Zaluna 1200 m c. Qui troviamo Cristina e Roberto che ci accolgono con thermos di caffè e tè caldi. Saliamo tutti assieme in auto alla Malga del Piano dei Casoni, poco dopo il bivio Passo Valles-Passo Rolle, a quota 1718 m. Anche qui montiamo le tende e ci prepariamo la cena.

Il 6 marzo, salutati gli amici, saliamo con rinnovata lena e confortevole sole fino alla Forcella di Giuribrutto 2381 m, tra la cima omonima e la Cima di Bocche. Forse questa è la giornata più leggera di tutte: scendiamo infatti nella breve Val d’Orso e raggiungiamo la Malga Campo d’Orso sulla statale Moena-Passo San Pellegrino più o meno a quota 1790 m. Qui incontriamo ancora Roberto e Cristina che ci portano al Passo San Pellegrino 1918 m. Lasciate lì le auto proseguiamo tutti con gli sci e in piano fino a all’alpeggio di Fociade 1982 m. Qui ci concediamo una pantagruelica cena nel ristorante del rifugio Fociade, citato nella guida Michelin. Casualmente, tra gli altri avventori, c’è anche Mario Dalmaviva, il proprietario di Alp.

Nei pressi del rifugio Contrin, verso il Passo di san Nicolò, 7 marzo 1996

A Fociade si spezza la continuità della solitudine, l’incontro con gli altri e con il giornalista ci riporta alla di­mensione consueta. Ci chiedono di raccontare, di spie­gare. Parlare troppo di materiali suonerebbe riduttivo nei nostri confronti, un’eccessiva preoccupazione pub­blici­taria. Narrare emozioni e momenti è così diffici­le… e richiede che chi fa la domanda sappia dischiu­dere tutti i cuori, il suo, quello di chi risponde e quello di chi ascolterà. Così ci si rifugia nella cronaca, nei -24° di temperatura, nei 17-19 kg di zaino. E che può ri­spondere una ragazza all’ovvia domanda “E perché tu, donna, in questa prova di forza?”.

A Fociade si acuisce la forzata convivenza con il so­spetto di inuti­lità. Se improvvisamente non ci bastia­mo più come interlocutori e appare al palcoscenico la figura di un pubblico muto che non ap­plaude e non fi­schia, ecco riapparire la domanda: perché lo fac­ciamo? Questo non è alpinismo eroico o esplorativo, il roman­tici­smo si è mascherato, siamo qui per lavoro e per diletto. Non è scialpinismo, non è sci di fondo escur­sionistico, non è trekking in­vernale. È un genere nuovo? Proprio la non appartenenza ad al­cuno schema fa di questa traversata invernale un episodio interes­san­te. È un viaggio diverso in mezzo a definizioni che non cal­zano, tra valli e montagne di cui non tocchiamo né le vette né il fondo. Un viaggio che all’u­tilità delle prove sui materiali associa l’inutilità di un nuovo genere di azione, nell’indefinibile sospen­sione tra terra e cielo, nel zig-zag che si rita­glia a sghimbescio per evitare strade e impianti di risalita. L’inutilità di tutte le discipline è ancora più evidente quando se ne definisce una nuova.

Ormai nei pressi del Passo di san Nicolò: da sinistra, Pala de Vernel, Punta Cornates, Gran e Piccolo Vernel, Forcella Marmolada, Marmolada di Penìa (con la parete sud-ovest), Cime d’Ombretta e, nella nuvola, Sasso Vernale e Passo di Ombréttola.

E dopo un pasto del genere non avremmo mai avuto la forza di montare le tende nei pressi: meno male che l’abbiamo fatto prima!

Ed è solo quando sono sdraiato che abbandono la sensazione di inutilità, perché domani l’avventura continuerà, in modo che l’inutile vada a naufragare nell’oceano del mistero: la salita al Passo delle Cirele 2683 m e la discesa al cospetto di una Marmola­da imbronciata sono una traccia nell’atmosfera misteriosa di un foglio bianco su cui può essere scritta qualunque cosa. È quando si vive e si respira il mi­stero che crolla nella neve il far­dello dell’inutile.

Il nostro viaggio assomiglia ad una piccola spedizione, ciascuno ha i suoi compiti. Mansioni dif­ficili che richiedono applicazione, metodo e vo­lontà. Chi deve fotografare o ripren­dere in video, chi montare e smontare le tende, chi far da mangiare e chi doveva annotare i dati degli strumenti e control­lare il funzio­namento del materiale dopo ormai più giorni di uso e di assenza di manutenzione; e infine avevamo un regista dentro che dava un senso, nel corso dell’azione, alla grande complicità emersa tra di noi.

La parete sud-ovest della Marmolada

In una neve fantastica scendiamo al rifugio Contrin 2016 m: il tempo ci sta assistendo, perciò forziamo l’andatura per poter salire quel tanto che basta per una storica foto verso la Marmolada al tramonto.
Raggiungiamo il Passo di San Nicolò 2340 m tardissimo, montando le tende al buio ventoso.

E’ l’ultima notte. La mattina dopo, mentre gli altri s’impigriscono al sole, salgo da solo sulla cresta verso il Sas Bianch 2431 m, fermandomi però a est di questo, sulla Quota 2410 m c.

Tutti assieme scendiamo la lunga Valle di San Nicolò: alla fine della neve ci aspettano gli amici e finalmente il riposo.

Dolomiti High Lab – 1996 – 28′
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High Lab Dolomiti ultima modifica: 2024-05-07T05:55:00+02:00 da GognaBlog

4 pensieri su “High Lab Dolomiti”

  1. 4
    Grazia says:

    Grazie, Alessandro, per essere sempre così profondamente umano e umile!

  2. 3
    Franco Girodo says:

    Manca poco al trentennio. Inutile non direi, già solo per il panorama. Faticoso il giusto, con quei carichi a quelle temperature e non per ultimo quando si arrivava al punto dove montare le tende era sempre un bel posto panoramico, al tramonto. Riprese, foto e per fortuna veniva buio. Ci siamo anche divertiti, e come dice Gogna ognuno aveva il suo da fare. Non è scontato che in un giro di quella portata tra gente che non si conosceva prima non ci sia mai stata una discussione o uno screzio. Grazie a tutto il gruppo ed in particolare a Gogna per avermelo fatto rivivere.

  3. 2
    Andrea Parmeggiani says:

    Sono d’accordo, e sono belli anche perchè maledettamente sinceri, non vogliono essere una autoproclamazione.

  4. 1

    Meno 24!?
    Quest’anno avreste potuto fare la traversata in pantaloni corti!
     
    Mannaggia a quelle tende Ferrino hilab che si montano appendendo la camera dall’interno a dei minuscoli gancetti che ti costringono a levarti i guanti. Ne ho ancora 2. Ho mandato così tante imprecazioni a chi le ha inventate… anche perché pesavano un botto.
     
    Franco Girodo lo ricordo perché organizzava un trekking in Sardegna in occasione dei mondiali di calcio, ispirandomi a proporre una spedizione in Gerogia Australe nel 2026 nei giorni delle olimpiadi qui a Cortina.
     
    E poi le foto fatte da Marco Milani con il Nikkor 35-70 f/2.8 che nei controluce fa quel gradevole effetto stella sul sole. Lo uso ancora. Mica sono passato a Canon o a Sony, eh!?
     
    Questi articoli mi piacciono perché sono pensieri buttati lì senza cura e senza preoccuparsi di scrivere cose interessanti oppure no. Sono articoli egoistici, come la musica degli Area o dei Gentle Giant, fatta per compiacere il musicista e non il pubblico. Già solo per questo belli.

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