La fuga di giovani e minoranze
(ecco l’America che ha tradito Harris e i democratici)
di Andrea Marinelli
pubblicato su corriere.it il 7 novembre 2024)
Quella di Donald Trump è stata un’onda alta e rossa, che ha travolto l’America. Quando alle 2.30 della notte americana i principali network televisivi gli hanno assegnato la vittoria in Pennsylvania, è diventato chiaro che la strada di Kamala Harris verso la Casa Bianca si fosse chiusa, ostruita dalla chiara volontà del Paese di bocciare l’attuale amministrazione democratica e richiamare il suo vecchio condottiero, concedendogli la rivincita: al terzo tentativo, il presidente eletto è riuscito infine anche a prevalere nel voto popolare, ottenendo quasi 5 milioni di voti in più a livello nazionale. È il primo repubblicano a vincerlo dopo 20 anni, mentre Harris ha preso 14 milioni di voti in meno di Biden.
Le indicazioni arrivate dalle urne sono state nette, come quella mappa che durante la notte andava colorandosi di rosso: Trump ha guadagnato consensi in 2.367 contee, ne ha persi in 240. Nella capitale Washington la vicepresidente ha ottenuto il 92,4% dei voti mentre l’ex — e futuro — presidente ha ottenuti appena 18 mila preferenze.
Le prime analisi del voto parlano di una vittoria a valanga, che va oltre il numero di voti elettorali, e non risicata come quella del 2016 che arrivò per appena 77 mila voti totali nel nordest post-industriale e di tradizione democratica conquistato con le promesse dell’America First: Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.
Era un «blue wall», ma Trump l’ha abbattuto per la seconda volta. «Onda rossa è riduttivo», ha scritto su X il politologo Ian Bremmer, che con la consueta chiarezza scatta la fotografia di questa elezione. Trump — si vede dal grafico che allega al post — ha guadagnato voti in quasi tutti i gruppi demografici, fatta eccezione per gli over 65 e le donne bianche laureate che avevano mostrato aperture alla candidata democratica.
Per il resto il presidente eletto — il primo da fine Ottocento che servirà per due mandati non consecutivi: unico precedente Grover Cleveland — ha fatto enormi passi avanti fra asiatici, ispanici, giovani fra i 18 e i 29 anni, americani fra i 30 e i 44 anni.
Guadagni minori, ma pur sempre importanti e indicativi dell’aria che tira nel Paese, il candidato repubblicano li ha ottenuti anche fra gli afroamericani, fra le donne (Harris ha ottenuto il 54% contro il 46% di Trump), in particolare quelle bianche e non laureate, fra gli uomini e fra gli americani di mezza età, quelli fra i 45 e i 64 anni. Non si tratta quindi solo di vincere negli Stati in bilico o di avere un vasto sostegno nell’America rurale e nei sobborghi, che pure è aumentato.
Trump ha pescato con abilità nella base degli elettori democratici, strappando voti che per la rivale Kamala Harris erano vitali e che per i progressisti ora diventeranno un segnale di allarme anche per il futuro.
Fra gli under 30 Biden aveva vinto di 25 punti e Hillary Clinton di 18, mentre Harris si è limitata a un margine di 6 punti — 52 a 46 che può rimbombare per generazioni: quello dei giovani, secondo il demografo del Census Bureau William Frey, è il dato più sorprendente dell’elezione.
Anche fra gli elettori di età compresa fra i 30 e i 44 anni il margine democratico è passato in quattro anni dai 12 punti di Biden ai 4 di Harris.
L’altra emorragia di voti, per i democratici, è avvenuta fra le minoranze, quelle a cui affidavano molte speranze: afroamericani e ispanici valgono entrambi circa il 14% dell’elettorato, e in quattro anni si sono spostati un po’ più a destra.
Nel 2020 il 90% degli afroamericani votò per Biden, permettendogli anche di strappare la Georgia ai repubblicani, mentre Harris si è fermata all’80%: dieci punti in meno che — come temeva Barack Obama — le hanno sfilato da sotto i piedi gli uomini afroamericani, raddoppiando i loro voti per Trump.
Anche fra gli ispanici, i democratici sono passati dal 63% di Biden nel 2020 al 56% di Harris: soltanto il 51% degli uomini ha votato per la candidata democratica.
L’ultimo dato riguarda gli arabi americani e le comunità musulmane, che avevano promesso di voltare le spalle ai democratici per il loro sostegno della guerra a Gaza. Nelle due città con la più alta percentuale di arabi americani di tutto il Paese — Dearborn e Hamtramck, in Michigan — Trump ha ottenuto il 42%: nella prima ha vinto (Harris si è fermata al 36%, mentre la verde Jill Stein ha preso il 18%), nella seconda ha perso di neanche 4 punti.
Nel 2020 Biden aveva ottenuto il 68% a Dearborn e l’85% a Hamtramck.
Non ha vinto Trump, ha perso la sinistra
di Massimo Cacciari
(pubblicato su lastampa.it il 9 novembre 2024
Nessuno si attendeva una vittoria di Trump tanto netta, a dispetto delle vicende giudiziarie e dello “stile” del personaggio. Sarebbe cosa buona e giusta che i sedicenti democratici-progressisti in giro per l’Occidente comprendessero che nell’orientare il voto dei loro concittadini pesano fattori più consistenti, più strutturali.
Lasciassero perdere gli elementi retorici e cercassero di capire che cosa “persuade” dei Trump, dai quali, di volta in volta, vengono sonoramente sconfitti. È sempre bene prendere sul serio i propri avversari, collocarli nell’onda lunga di una storia comune, interpretarli come segno profondo di un’epoca. Così si impara anche da loro e le sconfitte non si trasformano in inutili disastri.
Credo che il fattore decisivo negli ultimi mesi dell’affermazione di Trump sia risultata la discesa in campo netta, prepotente della maggioranza delle grandi corporations, dei Musk, dei gruppi come la Heritage Foundation, delle potenze economiche, finanziarie e industriali che hanno fatto triliardi negli ultimi anni grazie anche a epidemie e guerre. Retorica anti-comunista scatenata e insaziabile fame di profitto.
Distruzione di ogni residuo spazio di intervento pubblico per scuola e sanità, taglio a pensioni, povertà assunta come stigma di mancanza di iniziativa, di pigrizia intellettuale, di parassitismo sociale. La vittoria di Trump è anzitutto l’inequivocabile simbolo dello strapotere delle corporations sulla vita sociale e politica. E il boom borsistico che ne è seguito mi pare abbastanza eloquente. Certo, la domanda decisiva è oggi questa: potrà mai esservi un Politico in grado di stabilire un qualche “patto” con gli agenti fondamentali dello sviluppo economico e tecnologico, o il suo destino consiste nell’entrare in perfetta simbiosi con i loro interessi, col diventarne un lord protettore?
Posta la domanda, costantemente rimossa dalle retoriche su democrazia e sovranità popolare, non si è però neppure sfiorata la questione.
Perché votano i Trump proprio coloro che più dovrebbero detestarne strategia e intenzioni? Perché votano i Trump immigrati nei cui confronti costoro invocano la deportazione?
È una lunga storia, che se i sedicenti democratici-progressisti non ripercorreranno con spietata autocritica suonerà definitiva molto più della loro condanna, assisteremo alla conclusione della giovane avventura delle democrazie occidentali, come le abbiamo sperimentate, nelle loro diverse forme, nel corso del secondo dopoguerra. Il vecchio modello di welfare non poteva reggere: il suo modello si fondava su irripetibili ragioni di scambio del tutto favorevoli ai Paesi industrializzati dell’Occidente e su un intervento pubblico finanziato da deficit crescenti e una pressione fiscale concentrata sul lavoro dipendente.
Le vecchie culture popolari e socialdemocratiche non sono riuscite a elaborare alcuna strategia alternativa, alcuna riforma delle strutture istituzionali e amministrative capaci di garantire nuove risorse.
Sono fallite sul terreno che era tradizionalmente il loro: una efficace politica ridistributiva. Settori sempre più ampio di popolazione a reddito fisso, piccole imprese, lavoro dipendente si sono trovati nel giro di una generazione senza alcuna rappresentanza né politica né sindacale, a doversi accontentare di questa promessa: bisogna allargare la torta perché il benessere continui, la torta la sanno allargare soltanto i grandi gruppi economico-finanziari, aspettiamo che lo facciano e poi vedremo…. La narrazione è stata sostanzialmente accolta dai “democratici”; alla leggenda che smantellamento dello Stato sociale e riduzione di imposte a prescindere da efficacia e giustizia del sistema fiscale fossero premessa di ogni sviluppo, al modello neo-liberista, anche nelle sue versioni più estreme, ci si è arresi prima, a volte, di combattere.
Qui è mancata una minima coscienza delle “regolarità” della storia. Quando ceto medio e classi lavoratrici sono obbiettivamente minacciati nel loro status economico e sociale, quando una crisi globale, come quella che stiamo vivendo, ne attacca gli interessi, quando perciò cresce, anche nelle forme più irrazionali, il bisogno di sicurezza e protezione, aumentano in proporzione le potenzialità di affermazione della destra. Contro questa fisiologica tendenza delle società democratiche occorreva far fronte non solo mostrando come una politica di sviluppo non coincidesse per legge di natura con le ricette neo-liberiste, ma moltiplicando gli sforzi per “sindacare”, e cioè condurre a unità, organizzativamente e culturalmente, i ceti più colpiti dalla crisi, per radicarsi nei territori, nei luoghi, nei distretti produttivi che più drammaticamente la vivevano. Altro che ricerca del leader maximo, e altro che lamenti sul “miserabilismo” etico dei Trump. La destra vince inesorabilmente, votata dai ceti più popolari, quando i sedicenti progressisti diventano puri conservatori, quando credono si tratti di “conquistare” il voto dei “moderati”. Peggio, una politica “moderata” invece che radicalmente riformista spinge per forza la destra a cavalcare sempre più pericolosamente argomenti contrari a ogni Stato di diritto, a esaltare le sue vocazioni autoritarie. Il caso Trump è emblematico.
Ultimo e più doloroso capitolo. È del tutto evidente che condizioni di guerra sull’orlo della catastrofe contrastano con gli interessi più elementari del “popolo sovrano”, non dei Musk. Assistiamo al paradosso di un Trump che aumenta i suoi consensi anche promettendo di indossare le vesti del pacificatore, mentre quelle forze che si richiamavano, una volta, magari ai più astratti pacifismi, oggi non muovono un dito né avanzano una concreta proposta di mediazione per le tragedie in atto. Eppure proprio questo sarebbe nell’interesse della propria nazione, degli Stati europei in primis. Rovesciamenti simili non possono essere l’effetto di cause contingenti. Sono segni di un salto d’epoca nel quale le democrazie dell’Occidente traballano nelle fondamenta. Capirlo è il primo passo per correre ai ripari.
Cosa significa la vittoria di Trump per il mondo
a cura di Valigia Blu
(pubblicato su valigiablu.it l’8 novembre 2024
Madeleine Albright, Segretario di Stato di Clinton, una volta ha definito gli Stati Uniti la “nazione indispensabile” del mondo perché aveva un’influenza e delle responsabilità che superavano di gran lunga quelle di qualsiasi altro Stato. Questo ruolo – scrive Lawrence Freedman, professore emerito di War Studies al King’s College, nel Regno Unito, ed esperto di politica estera, relazioni internazionali e strategia – “non è stato adottato per altruismo, ma anche perché serviva gli interessi politici ed economici degli Stati Uniti che sarebbero stati irrimediabilmente danneggiati se fossero stati abbandonati”.
Ci si interroga su cosa farà ora Trump durante il suo secondo mandato. Dove condurrà gli Stati Uniti nel consesso internazionale? Quale sarà il ruolo che ritaglierà agli USA? Terrà fede a quanto accennato nel suo primo mandato e durante la campagna elettorale, sposando una posizione più isolazionista? E se lo farà, questa transizione sarà davvero così semplice come alcuni pensano, o il ruolo internazionale degli Stati Uniti continuerà ad agire da freno? Che ricadute avrà nelle altre regioni mondiali?
Quel che abbiamo imparato dall’esperienza precedente, scrive ancora Freedman, è che Trump non si rivelerà un globalista dichiarato. In linea di principio, “ritiene offensiva l’idea stessa di alleanza, secondo cui gli Stati Uniti devono intervenire in difesa degli altri in caso di attacco”. Trump ha mostrato scarso interesse per le iniziative multilaterali, ritiene il cambiamento climatico una “bufala progettata per minare l’industria petrolifera statunitense”, ha già abbandonato in passato gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico e, probabilmente, li abbandonerà di nuovo.
Tuttavia, le scelte che dovrà affrontare su questioni come l’Ucraina potrebbero rivelarsi più complesse di quanto abbia ipotizzato e, conclude Freedman, per quanto pensiamo di sapere cosa aspettarci, non dobbiamo dare per scontato che la direzione della seconda amministrazione Trump sia già stata stabilita.
Molto si capirà con le nomine per le posizioni chiave. Se ci sarà Mike Pompeo, ex direttore della CIA e poi è diventato Segretario di Stato, o Robert O’Brien, consigliere per la sicurezza nazionale di Trump dal 2019 al 2021. Entrambi non sono isolazionisti. Un articolo di O’Brien per Foreign Affairs dello scorso giugno descriveva una potenziale politica estera di Trump che sembrava escludere un eventuale disimpegno degli Stati Uniti dalle principali aree calde del pianeta. Una recente intervista di JD Vance minacciava un ritiro dalla NATO qualora l’Europa decidesse di perseguire X di Elon Musk e una posizione nei confronti di Mosca molto meno rigida rispetto a quella riportata da O’Brien. È difficile capire quanto queste intenzioni siano serie.
Dazi doganali
Uno dei leitmotiv della campagna elettorale di Trump è stato quello dei dazi doganali, esaltati come se fossero un modo agevole per raccogliere fondi e addirittura quasi come un’alternativa alle tasse.
Non è così difficile imporli, è sufficiente un ordine esecutivo. Tuttavia, le proposte di Trump sembrano andare ben oltre. Il neo-presidente ha proposto non solo una tariffa del 60% sulle merci importate dalla Cina, ma anche del 10% e forse più su quelle provenienti da ogni altro paese. Questo potrebbe avere un effetto disastroso sull’economia internazionale, col rischio di far salire l’inflazione e causare la perdita di posti di lavoro. È di questo che l’Unione Europea vorrà discutere al più presto con Trump prima che prenda decisioni drastiche.
E poi, prosegue Freedman, potrebbero esserci ripercussioni anche sull’economia americana che, negli anni di Biden, ha visto una crescita costante ma anche un debito pubblico stimato in 35.700 miliardi di dollari, di cui circa un terzo di proprietà di stranieri. Un’amministrazione che vuole tagliare le tasse e imporre dazi potrebbe trovarsi ad affrontare una grave crisi finanziaria.
La pace attraverso la forza
Una delle critiche mosse da Trump alla politica estera di Biden, almeno attraverso le parole di Robert O’Brien, consigliere per la sicurezza nazionale di Trump dal 2019 al 2021, è stata la sua incapacità di dissuadere gli altri paesi dall’iniziare guerre né di concluderle rapidamente una volta iniziate. L’approccio di Biden – è in sintesi la critica di O’Brien – avrebbe ottenuto solo il trascinarsi nel tempo dei conflitti e l’incancrenirsi delle tensioni. Non abbiamo però prove del contrario, e cioè che Putin avrebbe fermato la sua invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, o che non ci sarebbe stato l’attacco di Hamas e la risposta di Israele nell’ottobre 2023, se Trump fosse stato alla Casa Bianca.
Trump ha detto in campagna elettorale di essere pronto a tenere gli Stati Uniti fuori dalle guerre. Tuttavia, l’intervento di O’Brien sembra suggerire altro, e cioè un aumento della spesa militare e l’uso della forza per arrivare alla pace. Gli USA devono essere pronti in caso di possibili guerre nel mondo.
Durante il suo primo mandato, Trump ha autorizzato gli attacchi contro la Siria dopo l’uso di armi chimiche contro i gruppi di ribelli (cosa che Obama era stato riluttante a fare), ha affrontato l’ISIS in Siria e in Iraq e ha ordinato l’assassinio del leader delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Qasem Soleimani, nel gennaio 2020. Dopo aver minacciato la Corea del Nord all’inizio del suo primo mandato, ha intrapreso relazioni con Kim Jong-un per incoraggiarlo – senza successo – ad abbandonare i suoi programmi nucleari. E sebbene Biden sia stato incolpato di aver abbandonato l’Afghanistan nell’estate del 2021, è stato Trump a concludere l’accordo originale con i talebani, avendo chiarito fin dall’inizio della sua amministrazione che riteneva questo impegno inutile. E tutto questo non ha significato una distensione delle tensioni nelle varie regioni del pianeta.
Cosa attendersi, dunque? È probabile che si affidi alla diplomazia personale tanto quanto alle dimostrazioni di forza come fatto in passato, con la Cina, in Medio Oriente, in Ucraina. Tuttavia, non sarà semplice come sembra arrivare a un cessate il fuoco e gestire le tensioni nella regione indo-pacifica.
La guerra in Ucraina
Trump ha detto a Vladimir Putin di poter risolvere la guerra in Ucraina in un giorno. O’Brien ha parlato di mantenere gli aiuti all’Ucraina, finanziati dai paesi europei, di mantenere la NATO in Polonia, a patto che l’Europa faccia la sua parte in termini di difesa e facilitando l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, e di porte aperte alla diplomazia e con la Russia.
Il percorso, però, è tutt’altro che agevole. In primo luogo, non sarà facile imporre un accordo all’Ucraina, nemmeno minacciando di ritirare il sostegno statunitense. Gli ucraini potrebbero considerare alcune proposte per arrivare a una fine del conflitto, ma se non dovessero essere accettabili, considerato gli aiuti che riuscirà a dare l’Europa può raccogliere, l’Ucraina continuerà a combattere. Questo è stato il messaggio lanciato da Kyiv all’indomani delle elezioni, anche se il Presidente Zelensky ha inviato le sue congratulazioni a Trump.
In secondo luogo, Putin non ha mostrato alcuna disponibilità ad allontanarsi dalle sue richieste e potrebbe sentirsi tentato di mettere alla prova Trump per vedere fino a che punto può spingere l’Ucraina alla capitolazione. Se Putin non sarà disposto a negoziare, Trump dovrà decidere se minacciare di aumentare il sostegno all’Ucraina per incoraggiare la Russia a fare marcia indietro.
In terzo luogo, concordare anche un cessate il fuoco limitato, per non parlare di un accordo di pace completo, non è affatto semplice (tracciare le linee, disimpegnare le forze, garantire il rispetto delle regole).
Medio Oriente
Per quanto riguarda il Medio Oriente, Trump ha sottolineato l’urgenza di porre fine alle uccisioni, ma non ha detto altro. Il premier israeliano Netanyahu sperava in un successo di Trump per avere più mano libera per la sua strategia a Gaza, in Cisgiordania e in Libano.
La strategia delineata da O’Brien è chiara: l’obiettivo è indebolire l’Iran, chiudendo ogni possibilità negoziale, aumentando la presenza delle forze marittime e aeree, e isolando quei paesi che acquistano petrolio e gas iraniani.
L’intenzione della futura amministrazione Trump sembrerebbe quella di ridare centralità all’Arabia Saudita. Trump si aspetta di continuare con gli accordi di Abramo. Prima dell’attacco di Hamas a Israele, l’amministrazione Biden stava cercando di estendere gli accordi all’Arabia Saudita. Ma anche in questo caso, il percorso è molto accidentato. I colloqui avviati con l’amministrazione Biden mettevano sul campo l’ipotesi di uno Stato palestinese. Con Trump è tutto più difficile.
Cina e Corea del Nord
Infine, ci sono la Cina e la Corea del Nord. L’ascesa della Cina come rivale strategico degli Stati Uniti è stato un tema importante della prima amministrazione Trump e di quella Biden. L’articolo di O’Brien suggerisce la possibilità di sganciarsi completamente dalla Cina dal punto di vista economico attraverso dazi più elevati e una cooperazione strategica e militare con Australia, Giappone, Filippine e Corea del Sud. Ma non è detto che sarà così facile e lo sforzo per provarci potrebbe aumentare i rischi di una crisi finanziaria, spiega Freedman.
Taiwan potrebbe essere un interessante banco di prova della sua disponibilità a perseguire la pace attraverso la forza. O’Brien ha aperto alla possibilità di addestrare forze militari a Taiwan e di coinvolgerle nelle esercitazioni per migliorare la sua difesa. Il budget per la difesa di Taiwan non è elevato rispetto alla minaccia e possiamo aspettarci pressioni su Taiwan affinché faccia di più per rafforzare la sua difesa militare piuttosto che affidarsi a un intervento diretto degli Stati Uniti. Il timore di Taiwan è che un aumento cospicuo dei suoi preparativi militari possa essere una delle mosse che potrebbero scatenare l’aggressione cinese.
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Prima di affermare con tanta sicumera la svolta di tutta la società verso i destini magnifici e progressivi della destra nel mondo io darei però un’occhiatina alla figuraccia di certi suoi elementi simbolo, come Bandecchi che in un anno e mezzo di governo ha perso la metà dei consensi…
L’Europa non ha nemneno i soldi e la leadership per decidere di avere un esercito o una politica estera comune : in caso ci invadano noi contiamo sul Papa.
Mi auguro che la sua elezione costringa l’Europa ad affrancarsi da uno stato che non è più ai vertici del mondo
Copio e incollo:
“Per il resto il presidente eletto… ha fatto enormi passi avanti fra asiatici, ispanici, giovani fra i 18 e i 29 anni, americani fra i 30 e i 44 anni. Guadagni minori, ma pur sempre importanti e indicativi dell’aria che tira nel Paese, il candidato repubblicano li ha ottenuti anche fra gli afroamericani, fra le donne (Harris ha ottenuto il 54% contro il 46% di Trump), in particolare quelle bianche e non laureate, fra gli uomini e fra gli americani di mezza età, quelli fra i 45 e i 64 anni.”
Completa quanto scrivo da giorni. Tutta la società ha svoltato, non si tratta della vittorio di una oligarchia che ha 2manovrato2 il voto dall’altro. Per questo affermo che non è Trump che ha impresso il trumpismo alla società, ma la società che, desiderosa delle cose di base che costituiscono il trumpismo (1-meno tasse; 2-lavoro più dinamico; 3-NO immigrati) ha identificato in Trump il soggetto che può garantirgliele. Il trumpismo non è la destrizzazione dell’Europa (iniziata molto prima e con radici molto più profonde), ma certo l’effetto del trumpismo ora agirà come un “boost” aggiuntivo sui trend europei. Condivido le analisi del prof. cacciari, ma la sinistra è totalmente impreparata a rispondere alle nuove esigenza della società occidentale (sia in Europa che negli USA) perché continua aragionafre su un paradigma di valore che è obsoleto e che la società ha già spedito in soffitta. la risoposta “saremo una minoranza, orgogliosi di esser sani e liberi”, che è molto diffusa fra gli alternativi al vento che tira, è proprio la prima di queste ragioni della sconfitta dei cosiddetti progressisti. Se non scendete a “mescolarvi” con la nuova società e le sue esigenze, sarete destinanti a non capirla, quindi a non dare risposte alle domande degli elettori, quindi a essere irrilevanti nell’evoluzione socio-politica, quindi vi autocondannate a vivere in un mondo che vi farà sempre più schifo.