Metadiario – 169 – Dalla Groenlandia al matrimonio
Le fotografie del matrimonio sono in gran parte di Margherita Lombardi e di Gianluca
La famiglia Ferrari aveva appena preso in affitto un gigantesco appartamento a Levanto, in salita san Giacomo 4, un po’ sotto alla Torre dell’Orologio. Al piano ammezzato, era una classica costruzione ligure anni Sessanta, a cinque piani con qualche pretesa di nobiltà, in realtà lasciata abbastanza andare da una gestione miope e interessata soprattutto alla rendita. L’edificio, che non aveva certo risparmiato l’uso del marmo di Levanto, era immerso in un’ampia zona verde ad uso comune e a più piani rialzati. C’erano anche limoni e aranci che noi ogni anno raccoglievamo. L’appartamento, dicevo, era davvero enorme e dava alloggio a tre nuclei familiari con tanto di bambini e magari anche qualche ospite. Ricordo con piacere le colazioni, i pranzi e le cene in terrazza, quando il tempo lo permetteva (cioè quasi sempre, d’estate). La vista era su un giardino con enormi cedri del Libano. Più sotto c’era un ospizio per anziani (oggi si direbbe RSA) che, specie d’estate, ogni tanto ci facevano sentire i loro litigi o lamenti di disperazione senile. Fu chiuso uno o due anni dopo.
Il 21 febbraio 1993 mi presi la domenica per me e andai da solo in Apuane: camminai da Forno alle case Carpano e da lì al rifugio Aronte, già allora seriamente circondato dalle cave.
Invece il 13 marzo portai Bibi e Petra ai Piani dei Resinelli. La giornata non era un gran che, ma il freddo era moderato. Con Petra quasi sempre sulle spalle arrivammo, seguendo il sentiero della Direttissima, fino al Caminetto Pagani: qui l’ora tarda e il peggioramento del tempo ci fecero fare dietro-front. Il giorno dopo invece andai con Giovanni Rosti al Sigaro, dove salimmo la via Gasomania.
Il weekend della settimana dopo (20 e 21 marzo), su insistenza dell’amico Mauro Curzio, traversammo mezza Italia Settentrionale per andare a Viozene, luogo a me assai caro e legato all’infanzia. Mauro aveva prenotato al rifugio di Pian Rosso, che raggiungemmo in breve. Lì passammo un pomeriggio speciale, a giocare con Petra sull’erba di quel pianoro meraviglioso. Speciale per il luogo ma soprattutto per la compagnia. Nessuno poteva prevedere ciò che sarebbe successo dopo neppure quattro mesi. Anche i custodi erano speciali, cordiali e premurosi al punto giusto: fu una delle giornate più belle.
La domenica partimmo presto per la sovrastante Rocca dei Campanili, una parete con grande varietà di vie moderne. Scegliemmo Zitti e mosca, 7 lunghezze fino al 6c/A0, firmata credo da Manlio Motto su un calcare stupendo, verticale su tacche e diedri. Data la velocità di salita, avremmo potuto farne un’altra, ma al rifugio ci attendevano, come pure il lungo ritorno a Milano.
Il 28 marzo ero in Val di Mello a scalare con un 22enne Gianluca Maspes, assieme a Marco Milani, Matteo Pellegrini e Popi Miotti. Scegliemmo la via Cochise alle Dimore degli Dei, ma ne salimmo solo tre tiri, non ricordo più perché. Mentre, per ciò che riguarda la “merenda” alcolica che ne seguì, ho un ricordo preciso…
Il 4 aprile, nell’ambito del progetto “guida della Mesolcina”, Angelo ed io salimmo fino al rifugio Carlo Emilio. Con noi erano anche Giovanni Sicola e Paola Mazzucchi. Ma non fummo fortunati con il tempo, c’era un nebbione imponente e non riuscimmo a vedere alcuna cima. Giovanni e Paola mi prendono in giro ancora adesso per la mia pervicacia nell’ignorare il brutto tempo che già si vedeva alle 5 di mattina da Colico, luogo dell’appuntamento. Allorché si mise a nevicare io sostenevo che “si sarebbe aperto”. In ogni caso piacque a tutti il lungo sentiero che porta al lago artificiale, a tornanti quasi disegnati col compasso e selciato in perfette condizioni.
Giunti alla diga e constatato che non c’era alcuna speranza di fare o vedere altro, ci rifugiammo nella casetta dei custodi, dove scoprimmo grande accoglienza. Ne uscimmo ebbri di grappa, con Angelo che aveva anche intervistato i nostri ospiti sulla locale toponomastica, ricavandone preziose informazioni per la nostra guida.
In febbraio eravamo stati abbastanza impegnati nella preparazione dell’impresa dei fratelli Reinhold e Hubert Messner, che volevano traversare la Groenlandia in senso longitudinale, da Isertok a Thule. Eravamo stati assieme al Lago di Resia che, completamente ghiacciato, permetteva le prove generali di sciata con l’aiuto della vela.
Nessuno aveva mai traversato i poli, o anche la Groenlandia “per il lungo”, senza cani: la sfida era contro il tempo e contro la logistica, perché occorre limitare la quantità di chili per sopravvivere. Esiste però un limite che non si può superare e che bisogna aver imparato a definire con estrema accortezza in sede progettuale. Occorre conoscere molto bene se stessi, le proprie forze e le proprie capacità di resistenza per osare le traversate con viveri sufficienti. L’esperienza di Reinhold nella traversata dell’Antartide di qualche anno prima era ovviamente fondamentale.
Freddo, caldo, vento troppo forte, assoluta solitudine, nessun contatto con il mondo civile, nessun approvvigionamento intermedio. Queste sono le regole perché un’impresa oggi possa essere veramente tale.
Messner si è aiutato, in presenza di vento favorevole, con le vele. L’utilizzo della vela si basa sullo sfruttamento di una delle più antiche, “ecologiche” e naturali sorgenti di energia delle quali l’uomo dispone. Ma chi conosce anche in modo approssimativo le problematiche ambientali e del vento in zone artiche sa benissimo che il suo sfruttamento può avvenire solo in particolari condizioni, che si realizzano in tratti molto parziali rispetto all’itinerario previsto.
Inoltre, se da un lato questa tecnica permette di velocizzare la percorrenza di alcuni tratti, d’altro lato essa allarga il “range” di rischio: ai crepacci, agli sbalzi del terreno improvvisi, all’eccessiva velocità (e quindi alla possibilità di cadute) si aggiungono le difficoltà di prevedere con correttezza le scorte di viveri. Al di là dello splendido effetto scenico che fanno, le vele sono quindi un aiuto da sfruttare con moderazione, anche a causa dei dolori muscolari alle braccia che provocano.
Se le traversate della Groenlandia erano state parecchie in senso orizzontale (memorabili quella della spedizione di Fridtjof Nansen del 1888 e quella ben più lunga di Roberto Peroni e compagni del 1983), solo due sono state effettuate in senso longitudinale: nel 1978 il solitario Naomi Uemura compiva un exploit indimenticabile di 93 giorni parallelamente allo sviluppo della costa orientale, mentre dieci anni dopo la spedizione di Will Steger faceva la stessa cosa sul versante opposto. Entrambe le spedizioni però usarono non solo i cani, ma anche i depositi lasciati dall’aereo sul loro cammino.
Traversare quindi “by fair means” l’intera isola o quasi non era stato mai neppure tentato da nessuno. Nessun ausilio tecnico o supporto aereo, senza radio e, ad eccezione di un piccolissimo tratto iniziale, senza cani.
La scelta della stagione primaverile va incontro a svantaggi evidenti, quali una temperatura media ben più rigida, tempo assai più instabile e bufere violente e frequenti; ma l’assenza quasi assoluta di crepacci dovuta al manto di neve invernale e la minor probabilità di incontrare, verso la fine del percorso, i temutissimi torrenti d’acqua di scioglimento superficiale del ghiacciaio (ostacoli a volte insormontabili che costringono ad estenuanti ricerche del giusto passaggio), sono le motivazioni che hanno convinto Messner a non tentare d’estate.
Sponsor principale di questa impresa, assieme a quello tecnico Ferrino, era la Enervit. Il fondatore di questa azienda, e ancora mente tecnica e creativa, era Paolo Sorbini, il padre del mio amico Alberto. A dispetto di un’età non proprio verde, il dr. Sorbini volle essere della partita, allo scopo di documentare almeno la parte iniziale del “viaggio” dei due fratelli. Io fui scelto come accompagnatore tecnico e come fotografo, mentre Martino Poda, di Trento, aveva il compito di cineoperatore.
Partimmo da Milano il 21 aprile 1993. Dopo essere atterrati ad Angmagssalik (la Tasiilaq degli inuit) sulla costa sud-occidentale, ci trasferimmo con un piccolo aereo a Isertok (ancora più a sud). Qui ci mettemmo subito a cercare due inuit proprietari di slitte e mute di cani che ci accompagnassero fino a che il percorso, dal mare all’altopiano ghiacciato groenlandese, cessasse di essere in forte salita. Isertok era immersa nella neve, il mare tutto intorno era ghiacciato e gli iceberg erano prigionieri del ghiaccio. Le casette colorate erano in grande contrasto con il bianco accecante in cui ci trovavamo.
Il 24 aprile 1993, alle ore 14.30 locali, in una splendida giornata di sole a 65° e 30′ di latitudine N, partimmo. Mentre il dr. Sorbini era sistemato su una delle due slitte stracariche di materiale, noi quattro ci facevamo trainare sugli sci tramite delle corde. Traversammo la costa ghiacciata per circa due ore verso nord-est, poi piegammo decisamente a nord-ovest per risalire un valloncello che ci portò ad un esteso lago di acqua dolce, anch’esso ovviamente ghiacciato. La traversata di questo bacino era lunga qualche chilometro. Intravvedevamo il pendio per il quale dovevamo salire verso la calotta ghiacciata, almeno un sette od ottocento metri di dislivello. Non c’erano certo problemi di oscurità, perciò decidemmo di salire a oltranza. La progressione era faticosa solo per i cani, perché la pendenza non era così accentuata, pertanto noi quattro salivamo con le pelli di foca.
Purtroppo verso le 19 fummo costretti a fermarci. Si era scatenata un’improvvisa tormenta a ciel sereno, così fummo obbligati a piazzare in fretta e furia le tende in mezzo a un vero e proprio tornado.
Il giorno dopo, 25 aprile, a dispetto delle prime ore del mattino promettenti, marcia a bussola in una fitta nevicata verso nord su questo altopiano in leggera salita ormai senza confini e senza riferimenti. Alle 11.30, dopo circa 10 km, decidemmo di separarci. La posizione era 65°57’42″N – 38°58’30″W.
Furono scaricate e approntate le slitte che i due avrebbero dovuto trascinarsi dietro per un mese. Dopo gli abbracci di rito, i Messner si allontanarono mentre nevicava a larghe falde, trainando le loro due slitte e dopo pochi minuti non erano che due segmenti tremolanti che stavano rapidamente decomponendo la loro immagine su uno schermo assolutamente bianco.
Con l’aiuto di bussola e gps, visto che anche gli esquimesi talvolta mostravano qualche incertezza, iniziammo la discesa in una neve faticosa perché umida. Non disperavamo di raggiungere l’inizio della grande discesa. Ma, verso le 19.30, del tutto d’improvviso si scatenò una bufera bestiale. Gli inuit dettero ordine ai cani di fermarsi immediatamente e, all’urlo di “Piteraq, piteraq”, estrassero le due tende e incominciarono a montare freneticamente la loro. Le operazioni di montaggio erano quasi impossibili. La bufera della sera prima era niente in confronto alla violenza di quella specie di uragano. Quando ormai eravamo al limite della resistenza riuscimmo a rintanarci nelle tende. Non è che ci sentissimo rinascere, considerato il fragore che udivamo e il terrorizzante sbattere del tessuto. Dopo una pentolata di minestra liofilizzata cercammo di dormire, ma era decisamente al di là delle nostre speranze. Pieni di ansia che le tende non resistessero, tentavamo un dialogo tra noi con scarso successo.
Saranno state le cinque di mattina quando d’improvviso sentimmo la cerniera aprirsi e vedemmo i due inuit incrostati di ghiaccio che volevamo entrare ripetendo “Tent kaputt”. Facemmo spazio ai due, ma notammo subito che non avevano saccopiuma.
– Where is your sleeping bag?
– Sleeping bag in tent… kaputt… many snow… piteraq very strong.
I due tremavano di brutto. Martino ed io decidemmo di uscire per cercare di rovistare nella tenda abbattuta alla ricerca dei due sacchipiuma. Calpestando uno dei capimuta che si era appallottolato davanti alla nostra tenda, raggiungemmo il cumulo a pochi metri. Scavammo a mano per trovare lo squarcio, poi mentre Martino tentava di tenere i lembi io entrai all’interno facendomi largo nel cumulo di neve che ormai si era appesantito al di sopra. Trovai i due sacchipiuma e uscii più veloce che potei. Rientrammo subito dopo e demmo i sacchipiuma ai due inuit che si dimostrarono molto sollevati e ci riempirono di thank you. Martino mi confidò che quel minuto in cui era stato lì fuori era bastato per portarlo al limite.
Visto che nessuno dormiva, facemmo un tè per tutti. Intanto avevamo capito che Piteraq era il nome di quel vento.
– Ehi, Piteraq how long?
– May be one day… may be one week…!
L’idea di rimanere una settimana in quelle condizioni ci gettò nella costernazione. Maledicevamo il fatto che la nostra tenda, per fortuna più “speciale” di quella fornita ai due esquimesi, non godeva della perfezione tecnica che invece era stata riservata al modello che stavano usando i Messner.
La scomodità dell’essere in cinque in una tenda da tre era nulla al confronto della necessità di orinare: nessuno aveva il coraggio di uscire per le proprie necessità, tanto meno Martino ed io che sapevamo molto bene cosa significava. In più non è che potessimo pisciare semplicemente aprendo la cerniera: l’orina per buona parte sarebbe rientrata all’interno per via del turbinio e per l’altra parte sarebbe andata addosso ai due o tre cani che erano mezzo sepolti all’ingresso. Con il risultato che la neve che ci serviva per fare il tè o la minestra, oltre che piena di peli canini (il che non ci faceva poi tanto schifo), sarebbe stata decisamente inquinata. Perciò usammo due borracce, con l’intenzione di svuotarle in qualche modo più avanti.
Le ore scorrevano lentissime, mentre l’inferno non accennava ad attenuarsi. Riuscimmo anche a sonnecchiare. Io fantasticavo sulle possibilità che qualcuno, una volta cessato il Piteraq, venisse a cercarci, privi di radio come eravamo e in un tempo in cui il telefono satellitare era di là da venire.
M’informai, giorni dopo a casa, su cosa fosse ‘sto Piteraq. Sulla Groenlandia in inverno tende a formarsi un anticiclone al suolo, questo perché il vasto plateau groenlandese durante la lunga notte artica si raffredda enormemente per irraggiamento coinvolgendo l’atmosfera che lo sovrasta: l’aria così fredda diventa più pesante e la pressione atmosferica aumenta. E’ questa sovrapressione che fa traboccare l’aria gelida interna dai suoi bordi con questo vento scatenato verso la costa.
Alle 19.30, con la stessa istantaneità con cui era iniziato, il Piteraq cessò. Per ventiquattro ore non c’era mai stata alcuna interruzione, neppure di un secondo. Gli inuit balzarono seduti, si misero gli stivali e uscirono. Anche noi, quasi increduli, ci affacciammo dalla tenda. Il sole basso all’orizzonte arrossava l’ovest e le nuvole scure ormai galoppavano verso est: una visione che però non ebbi il tempo di documentare. Anche i cani avevano capito che si poteva ripartire e si agitavano abbaiando attorno a noi che disfacevamo la tenda e cercavamo di raccattare il salvabile da quella esplosa. In pochi minuti eravamo pronti: i cani all’ordine dei padroni schizzarono senza esitare, cessando i latrati. Non eravamo per nulla fuori itinerario, riconoscemmo subito la zona che avevamo risalito: eravamo proprio sull’orlo del punto in cui la discesa si faceva più ripida. Le due slitte scendevano a velocità sostenuta, Martino ed io facevamo quasi fatica a seguirle. In pochi minuti arrivammo al lago: lì però iniziò la grande fatica dei cani che trascinavano le slitte sprofondando nella neve fresca. Arrivammo alla costa verso le 22, poi ci vollero ancora due ore per avvistare le fioche luci di Isertok e per raggiungere la casa dalla quale eravamo partiti.
Dopo un giorno di totale riposo al villaggio, il 28 aprile Martino ed io ci scavammo una pista nella neve fino alla vetta settentrionale del Sonnansfjeldet, circa 700 m di dislivello partendo dal mare. Volevamo fare qualche foto e qualche ripresa dall’alto e la giornata lo permetteva e ci incoraggiava. Il 30 aprile eravamo di ritorno a Milano.
Giorno per giorno seguivamo la marcia dei Messner e traducevamo in comunicati stampa le informazioni avute per via satellitare. La loro marcia si dipanava tra soste forzate e corse al vento fino a 120–130 km al giorno. Il 7 maggio approfittarono di un venticello favorevole che in un balzo solo sospinse le loro vele per 170 km. Con questa giornata positiva i Messner si riportarono in pari con la tabella di marcia, riguadagnando il terreno perduto. L’8 maggio, altro giorno favorevole: 56 km avanti verso nord. Nella notte, il messaggio in codice dell’apparecchio Argos segnala che “veniva abbandonata la prima possibilità di fuga”, quella verso Sondre Stromfjord, la base aerea sulla costa occidentale dell’isola. Ciò significava che da allora in poi ai due conveniva proseguire verso la meta finale, Thule, eventualmente considerando in seguito la possibilità di fuga su Jakobshavn, la cittadina sulla Baia di Disko.
Il 9 maggio il vento favorevole continuava: Reinhold e Hubert superarono altri 125 km dell’enorme altopiano ghiacciato, sempre sui 2200 metri di quota, e arrivarono a segnalare la loro posizione a 69° 45′ 14″ N e 45° 35′ 38″ W, quindi già oltre la latitudine di Jakobshavn.
Il codice segnalava “dolori fisici”, dolori muscolari per l’eccessiva andatura a vela: in tre giorni erano stati fatti 351 km e, alla lunga, lo sforzo sulla barra per governare la vela si faceva sentire.
La sera del 10 maggio i Messner erano a 70° 54′ 4″ di latitudine N e a 45° 48′ 40″ di longitudine W, dopo aver fatto nella giornata uno splendido balzo di quasi 128 km. Contemporaneamente alla localizzazione, il satellite trasmetteva un messaggio in codice che significava “abbandono della seconda possibilità di fuga”, quella di Jakobshavn.
La sera del 14 maggio la loro marcia risultava drasticamente rallentata: solo 10 km in un giorno! Però arrivò contemporaneamente il confortante messaggio in codice di “abbandono della terza possibilità di fuga”, quella su Umanak, villaggio sulla costa occidentale, a nord della Baia di Disko. Ciò significava che avevano la netta intenzione di proseguire verso la meta finale, Qanaq (la nostra Thule).
Il 17 maggio il messaggio in codice comunicava che i due avevano superato il punto di “non ritorno”, quindi avevano rinunciato anche alla quarta e ultima possibilità di fuga, quella che li avrebbe portati al villaggio di Kraulshavn. Reinhold e Hubert Messner marciavano ormai da più giorni senza più alcun accenno di minor luce, però preferirono spostarsi nelle ore centrali della giornata, per godere di una temperatura più confortevole.
La sera del 26 maggio i Messner erano a 77° 51′ 10″ di latitudine N e a 68° 28′ 30″ di longitudine W, quindi a circa 60 km dall’arrivo, sull’orlo dello sconfinato altopiano di ghiaccio che costituisce il 95% della superficie della Groenlandia: li attendeva una discesa fino al mare ghiacciato e una traversata di 35 km fino al villaggio di Thule. Qui arrivarono, in orario “notturno”, tra il 27 e il 28 maggio, assai provati e con alcuni congelamenti alle mani da non sottovalutare.
L’8 maggio 1993, con Franco Ribetti ancora ospite a Levanto e questa volta nella “reggia”, andammo in Apuane, alle Torri di Monzone, per salire la via per Claudio, sei lunghezze fino al 6b/A0 che riuscimmo a salire in libera. La stupenda via, dedicata a Claudio Ratti e aperta da Mauro Franceschini, Mario Boschetti e Fabrizio Recchia nel 1993, si fermava dopo sei lunghezze: gli stessi, nel 2001, la allungarono di altri tre bellissimi tiri. Scesi in doppia, tentammo il monotiro Le Palme, 6b+ molto severo.
Il 22 maggio avevo come ospite a Levanto mio nipote Paolo Cerruti. Con lui andai al Monte Rovaio, con meta un bellissimo itinerario anch’esso intitolato via Claudio Ratti. Questo capolavoro era stato lasciato incompiuto da Claudio, causa la sua prematura scomparsa: fu portato meritoriamente a termine da Stefano Funk nel 1991. Uno degli itinerari più belli, sostenuti ed estetici delle Apuane, con roccia di gran qualità: un vero punto obbligato del curriculum dell’alpinista/arrampicatore apuano! Purtroppo non la portammo a termine. C’era qualcosa che non andava quel giorno e, dopo quattro bellissime lunghezze, un po’ timorosi del 7b (se non di più) che ci aspettava al di sopra, decidemmo di scendere.
Il giorno dopo, forse per il tempo incerto, preferimmo stare nei pressi di Levanto. Sopra alla cittadina e ad ovest è un’altura di roccia rossiccia, il Monte Ròssola, sul quale avevo messo gli occhi da tempo. Dopo esserci fatti strada in una boschina non indifferente, aprimmo un itinerario sul versante sud-est di due lunghezze. La prima, di III grado, niente di che; ma la seconda (V e V+) valeva la pena di essere salita. Lasciammo un chiodo (l’unico usato) proprio sotto al passo chiave. La chiamammo via di Entrelor. Sempre nello stesso giorno, scesi alla base della seconda lunghezza, ci spostammo un po’ a sinistra e aprimmo Instant karma (V+).
Il 6 giugno, non so più perché, mi ritrovai in Val di Mello, sotto al Precipizio degli Asteroidi: con Gianni Ghiglione e un suo amico, Alessandro, salimmo due tiri e mezzo di Piedi di Piombo. Poi rinunciammo: e anche qui non ne ricordo il motivo.
Il 12 giugno ancora a Levanto. L’ospite quella volta fu Angelo Recalcati. Nel pomeriggio lo portai al Monte Ròssola, dove con lui ripetei la seconda lunghezza di via di Entrelor; subito dopo aprimmo la via dei Profumi, tracciata tra Entrelor e Instant karma: difficoltà, 6a+, ma sarebbe meglio dire VII. Non contento, trascinai il mio compagno sul risalto ancora più in alto, proprio sotto alla croce di vetta, per aprire Cuori contenti, un tiro di 5c. Stranamente, nella parte alta del tiro e spostati a destra, trovammo due vecchi chiodi appaiati e arrugginiti, probabilmente serviti per una qualche discesa.
Dopo questa giornata di acrobazie un po’ fini a se stesse, il 13 giugno ci avviammo verso le Apuane, questa volta per salire il classico itinerario della via Ceragioli alla parete sud-ovest del Monte Contrario. L’avvicinamento a questa parete vale già da solo l’impegno e l’energia necessari. Il rudere della casa degli Alberghi incute brividi inquietanti, sospesi tra una geografia selvaggia e una pesante storia di fatiche umane. Da lì in poi occorre guadagnarsela la roccia, in un ambiente impressionante. Purtroppo, arrivati a due terzi della via, un temporale ci costrinse a scendere e a una rischiosa ritirata sul paleo (bagnato) con tanta fatica risalito (asciutto) al mattino.
Ma, a questo punto del racconto, siamo arrivati al matrimonio, ormai da qualche mese deciso. Come location avevamo deciso la cappella che è accanto all’Hotel Bagni di Màsino: poi purtroppo dovemmo rinunciare perché era già allora sconsacrata e quindi ripiegammo sulla chiesa parrocchiale di San Martino. In ogni caso la festa si sarebbe tenuta nel vecchio hotel, a me molto caro e sempre bellissimo nella sua atmosfera d’antan. L’amicizia con la storica gestrice, Vera Cenini, aveva contribuito parecchio alla scelta definitiva. Certo, c’era qualche difficoltà logistica, ma Bibi ed io eravamo sicuri che quel luogo avrebbe sedotto chiunque dei nostri invitati non lo conoscesse già.
Ci sono alcuni particolari nella preparazione di quel 19 giugno 1993 che non dimenticherò mai. Anzitutto la lista degli invitati, che superò il centinaio, era stata discussa e definita con molta attenzione: basta dire che all’inizio l’elenco superava le duecento unità… Credo che riuscimmo a mettere in equilibrio parentela, in genere un po’ anziana, con plotoni di amici della nostra età. Poi il sacerdote… Sia Bibi che io eravamo affascinati da padre Benedetto, di stanza a Santa Maria delle Grazie di Milano (sì, la chiesa del Cenacolo leonardesco). Un uomo di lampante simpatia, più portato a vedere il mondo sapendolo gustare e apprezzare che non giudicandolo. Quando andammo a confessarci da lui, ricordo bene di avergli detto: – Padre, ho infranto tutti i dieci comandamenti, ad eccezione del quinto, e commesso ogni genere di peccato veniale. Da dove comincio?
La sommessa risposta fu: – Ma tu in qualche modo ne sei pentito?
– Certo padre, sempre dopo i peccati ci si pente… il problema è che ci si ricasca lo stesso…
– Allora ti assolvo, devi solo recitare dieci avemaria e dieci paternostro.
Mi allontanai dal confessionale più o meno dopo due minuti che mi ci ero avvicinato. Bibi non ci voleva credere: aveva impiegato assai più tempo, lei.
Infine la scelta dei testimoni. Se per Bibi erano quasi obbligatorie le due amiche Francesca Priori e Patrizia Zambrano, per me era un po’ più difficile. Alla fine mi risolsi a scegliere Simone Ferrari (il mitico Bibo fratello di Bibi) e Mauro Corona, con il quale ne avevo già parlato l’anno prima quando ancora il matrimonio era ipotetico. Mauro accettò entusiasta, ma qualche giorno prima del 19 giugno, assieme a una sua opera, una meravigliosa statua di legno di Madonna che allatta il Bambino, mi giunse la sua accorata rinuncia, accampando che lui non aveva trovato chi lo portasse da casa sua a San Martino, visto che la patente gliel’avevano ritirata da tempo e magari anche stracciata. Ormai non avevamo neppure il tempo di insistere, così azionai il piano B e chiesi a Popi Miotti, che se non altro a San Martino era di casa.
Giunse finalmente il giorno: alle due del pomeriggio eravamo già tutti su ai Bagni per accogliere gli invitati che arrivavano a frotte. Il personale dell’albergo accompagnava i nuovi arrivati alle stanze, ma spesso mi recavo con loro anch’io, che non avevo da fare tanti preparativi come la sposa…
Fatalmente mi ritrovai nella stanza di Carlo Brenco e Ranieri Massola, due amici di Levanto e talvolta di stravizi; il primo era un intraprendente operatore ecologico, molto compreso nei suoi affari di riciclo; il secondo era un bravissimo grafico e lavorava da tempo a Milano. Nella stanza c’era già un odore di “fumo” pauroso. Insegnai a loro la tecnica del “purino” che consiste nel far bruciare un nocciolino di hashish dentro a un bicchiere per aspirarne il fumo nel momento in cui il nocciolino non si vedeva più. Molto peggio delle canne! Io l’avevo praticato una volta e ne ero rimasto sedotto. Dunque, nell’abbondanza di materia prima che potevo riscontrare, non ebbi alcun dubbio a proporre la cosa. D’altra parte loro si fecero convincere con molta facilità. Mentre eravamo intenti in questa pratica stupefacente, arrivò anche Bibo che si era dotato di una modica quantità di cocaina. Mentre preparava le strisce riuscì anche a fare un bel pieno del purino che stava spegnendosi. A questo, assieme alle più improbabili battute che producevano le nostre menti ormai spezzettate, seguì l’assunzione della coca, mentre dicevo a me stesso: “guarda che devi sposarti, cazzo”.
Perciò riuscii, sia pur a fatica, a mollare la pessima compagnia con qualche scusa e scesi le scale traballando fino alla hall. Era appena arrivato anche Reinhold Messner, come pure Heinz Mariacher e Luisa Iovane. Fui però travolto dalle problematiche del trasferimento a San Martino: e nelle mie condizioni trovavo tutto estremamente difficile. La cerimonia nella zeppa chiesa parrocchiale iniziò più o meno puntuale (c’erano anche parecchie donne del paese, evidentemente curiose). E si svolse regolarmente, con un padre Benedetto che riempiva l’altare con la sua presenza ieraticamente godereccia.
– Bibi, con l’aiuto di Dio camminerò al tuo fianco giorno dopo giorno, mi prenderò cura di te e ti circonderò di tenerezza. Dividerò con te il pane e il tetto, i giorni felici e quelli tristi, e nei momenti difficili ancora più forte ti stringerò a me.
– Alessandro, ovunque andrai ti seguirò. Con l’aiuto di Dio farò ogni cosa per renderti felice, riempirò la nostra casa di amore e di allegria, ti offrirò conforto e comprensione. Gioirò con te dei doni della vita e nei giorni bui ancora più intensa si farà la mia presenza.
– Bibi, io ti prendo come mia sposa, come dono stupendo che Dio ha serbato alla mia vita. Mi impegno ad esserti fedele sempre ed amarti e curarti teneramente. Tutto ciò che sono te lo dono. Tutto ciò che ho lo condividerò con te, nell’amore di Dio.
– Alessandro, io ti prendo come mio sposo, con amore devoto e sincero. Prometto di esserti fedele sempre condividendo doni e prove che il Signore ci vorrà dare.
– Bibi, ricevi questo anello segno della mia fedeltà e del mio amore. Portalo con la stessa gioia con la quale te lo dono. Ricevilo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
– Alessandro, con questo anello voglio ringraziarti per quello che sei e sarai per me; e ricordati in ogni momento il mio amore fedele. Ricevilo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Dopo l’uscita dalla chiesa e dopo la pioggia di riso, nel disordine più totale tornammo all’hotel. Dove era in programma l’esibizione di Giulia Veronesi (figlia del grande oncologo e allora fidanzata di Giovanni Rosti). Vestita da ballerina di flamenco, all’ora dell’aperitivo che generosamente veniva servito e ri-servito, al suono della musica andalusa ci regalò dieci minuti di pura estasi, in mezzo al meraviglioso giardino che accoglieva l’ultima luce di un giorno davvero radioso.
A quel punto, dopo gli eccessi stupefacenti del pomeriggio, cominciarono gli eccessi alcolici. Di vino ce n’era a volontà ed era anche molto buono, almeno a detta degli intenditori. Consumammo la cena nel frastuono più scatenato, interrompendo spesso con brindisi vari (non che tra un brindisi e l’altro non bevessimo, anzi…), con le scuse più varie. Qualcuno a un certo punto venne da me e mi chiese se mi andava bene una certa cosa. Non solo mi andava, la trovavo geniale. Mi alzai in piedi e chiesi il silenzio. Poi, con studiata lentezza, mi riempii il bicchiere di acqua, lo alzai e recitai: “Altissima, purissima, Levissima” guardando verso Reinhold seduto poco distante. Ci fu un’ovazione generale, anche se non giurerei che tutti abbiano fatto il brindisi ad acqua… Questa era San Pellegrino, ma sapevamo che Levissima e San Pellegrino erano della stessa proprietà…
Verso le 22.30, dopo il taglio della torta, ci trasferimmo nel grande salone dell’hotel dove nel frattempo la band che avevo scelto con l’aiuto di Paolo Romanini si stava preparando. Più scalcagnati non potevo trovarne, ma erano ragazzi simpatici e, dalla demo che mi avevano fatto avere, suonavano un buon rock. Perché, ovviamente, nessun’altra musica era ammessa…
In breve eravamo quasi tutti scatenati nelle danze più selvagge. I ragazzi sul palchetto pestavano duro e davano poco spazio a dolcezza e ritmi lenti. Faceva caldo, avevamo bevuto ai massimi, quindi eravamo fradici. Ballava anche qualcuno dei parenti, insospettabilmente. Uno che stava seduto a godersi la musica era Heinz Mariacher, che a un certo punto mi si rivolse e disse: “Questo sì che è rock…!”. Luisa lo guardava con aria di chi non comprende.
Verso l’una di notte ogni remora era stata accantonata. Io ballavo a torso nudo e a un certo punto andai a invitare mia suocera. Lei si negò, ma non fu troppo convincente. Capii che potevo farlo. La sollevai di peso e la portai in pista tra il putiferio generale. Lei, imperturbabile, seguì la musica con evoluzioni corporee adeguate. Alla fine del pezzo, la baciai in fronte.
La band fece l’ultimo pezzo verso le 2, poi capimmo che era il caso di chiudere. Ci fu ancora qualche grappino e qualche amaro al bar, ma poi ci fu la ritirata anche degli ultimi.
La mattina dopo, cioè il famoso “day after”, eravamo tutti un po’ rincoglioniti. Era ormai tipo mezzogiorno, nessuno aveva voglia di mangiare ed era bello stare a chiacchierare in giardino. Fu lì che appresi che, nonostante la corte serrata che le aveva fatto Reinhold, sembrava proprio che alla fine Giovanna Pierini gli avesse preferito la compagnia di Paolo Rosti. Altro episodio notevole fu la strisciata di guardrail che Umberto Favaro inflisse alla sua macchina mentre affrontava uno dei tornanti per scendere ad Ardenno.
Già in serata del 21 giugno eravamo a Levanto. Il giorno dopo partimmo in viaggio di nozze per la Francia. Saranno state le 14 quando la mia Passat Syncro si fermò nella galleria subito dopo l’uscita di Recco. Eravamo rimasti senza benzina, a circa 50 metri dall’inizio della galleria. Era un giorno feriale, dunque c’era il traffico anche di pesanti TIR. Abbiamo apposto l’obbligatorio triangolo, ma non eravamo per nulla tranquilli in quel frastuono. Grazie anche all’uso del telefonino riuscimmo ad avere il carro attrezzi che ci portò al distributore di Sant’Ilario. Dopo questa brutta avventura il viaggio proseguì regolarmente e il pomeriggio del giorno dopo stavamo già arrampicando nella zona dell’Ardèche. E così per tutti i giorni seguenti, con l’eccezione del 1 luglio, quando decidemmo di noleggiare una canoa per scendere 14 km del torrente Ardèche. In fondo ci arrivammo, ma nell’unica blanda rapida che dovemmo affrontare ci capitò di capottarci… Decisamente gli sport acquatici non sono mai stati il mio forte.
Sempre sentito narrare di questo matrimonio finalmente si vede un resoconto puntuale …????
A me sono venute in mente un paio di cose:
La prima è come negli anni, nella tipica gara “Rinaldo si / Rinaldo no”, ero uno che parteggiava per il secondo gruppo, facendo finta di non sapere e non dando peso alle sue innegabili imprese. Tipico atteggiamento italiano, aspetto per il quale spesso ci prendono in giro all’estero;
Ciò detto… non ho potuto fare a meno di notare l’abito dell’uomo dei record, giacca e pantaloni bianchi a un matrimonio. Di solito è la sposa a vestirsi di bianco e gli altri a evitare quel colore, per non rubarle la scena. Pensando all’uomo dei record, che viene spesso intervistato per sapere una qualsiasi opinione sulla montagna o sul frequentarla mi ha fatto sorridere;
Ultimo aspetto, anche io, per un disguido, anni fa, involontariamente, rischiai di rubare la scena alla sposa: solo il mattino del matrimonio mi accorsi di avere irrimediabilmente dimenticato a casa di una fanciulla giacca, camicia e cravatta, così all’ultimo, mi presentai in camicia a quadri, jeans e scarpe sportive…
Ieri ho aggiunto al testo di
Dalla Groenlandia al matrimonio
due filmati che riassumono il matrimonio. Al di là della qualità scadente, sono abbastanza significativi… Molte persone presenti allora vi si possono riconoscere. Alcuni purtroppo non ci sono più.
Anche io fui uno degli “imbucati” a quel matrimonio. Ci andai con Mauro Curzio in sostituzione della moglie impossibilitata per impegni di lavoro.
Il giorno dopo tentammo di fare “Oceano irrazionale” ma un provvidenziale temporale ci costrinse a scendere…non so come sarebbe finita, i fumi dell’alcool erano ancora abbondanti.
Tornati a casa aprimmo a Toirano al Salto del Lupo “La lunga notte degli agognati” e poi, poco dopo, Mauro ci lasciò.
Come sempre grazie Alessandro per i tuoi splendidi racconti e sopratutto, in questo caso, per il ricordo di Mauro e le bellissime foto di Viozene. Grazie.
Paolo (cognato di Mauro)
A me la cosa che piace molto e che qui viene condensata nel numero degli invitati è il numero degli amici che Alessandro è stato capace di circondarsi negli anni. Mi sembra di capire che molti siano amici veri e non occasionali. Nel mio piccolo posso dire di aver avuto una simile fortuna e la auguro a tutti giovani . Ci vuole un pò di fortuna ma anche disponibilità e consapevolezza della sua bellezza
Da San Martino salì dopo mezzanotte una flotta di miei amici che si imbucarono alla festa già degradata. Uno di loro, il più ubriaco, finì in pista a ballare con Messner e gli diede una violenta pacca sulle spalle: “Reinhold sei fotonico!”. Messner gli rispose: “Sei fotonico pure tu!” (questa cit. rimase famosa per anni in paese). Poi Marisa, la capa dei Bagni, venne a chiedere chi fosse quel gruppo di casinisti che si era intrufolato, ma lo sposo la calmò. Altra leggenda della festa fu che H.M. e L.J. (H.M. l’unico in scarpe da ginnastica), nel pieno della loro attività di punta, dopo i pizzoccheri andarono in bagno a mettersi due dita in gola per eliminare tutto, troppo grasso per la loro forma da 8a e 8b. Pollice giù non solo per la cravatta di Popi ma anche per la maglietta dell’Innominabile 🙂
Messnerone c’ha provato…, ma c’è rimbalzato.
No, non mi pare che il Messnerone abbia ballato il flamenco, però a tarda sera ballava (vabbé, ballava…) nella calca roteando la camicia sulla testa.
L’immagine più agghiacciante del matrimonio comunque rimane la cravatta del Popi.
Sarebbe interessante poter sbirciare l’elenco degli invitati al matrimonio. E, per differenza, quello degli esclusi…
Si scatenò nel flamenco anche il Messnerone?
Altra grande salita dei fratelli Sergio e Vinicio Ceragioli in uno dei luoghi più spettacolari ed integri delle Apuane.
Bellissimo racconto tra giornate calde e assolate liguri e gelate groenlandesi!
Il racconto del matrimonio, condito dagli eccessi, mi ha emozionata.
È proprio il caso di dire sesso droga e rock’n’roll!
Mi hai riportato alla mente, oltre a svariati personaggi pittoreschi, Martino Poda, con cui lavorai diverse volte, anche sott’acqua per la RAI. Cara persona che una brutta malattia si è portato via troppo presto, e nipote di Ettore Castiglioni.
Ciao.
Racconto interessante e godibilissimo.
Grazie Alessandro