Avevamo già dato relazione della fantastica impresa di Sandy Allan e Rick Allen con il post La più lunga delle vie, pubblicato il 9 dicembre 2015, estratto dal libro di Allan In Some Lost Place. Questo invece è il racconto che lo stesso Allan ha fatto per The American Alpine Journal.
Determinazione al Nanga Parbat
(la prima salita completa della Cresta Mazeno al Nanga Parbat)
di Sandy Allan
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2013)
Siamo sfiniti. Sono le 18.12, tardi per Rick Allen e me per essere in cima al Nanga Parbat, ma così stanno le cose. Avevamo lasciato il campo base quasi due settimane prima con altri quattro scalatori, con l’intenzione di attraversare l’intero Mazeno Ridge. Esausto, il resto della squadra era sceso da appena sopra il Mazeno Gap, lungo la via Schell, tre giorni fa. Rick e io abbiamo deciso di proseguire.
E’ dalle 14 che vagabondiamo sopra gli 8000 metri, salendo ogni piccola vetta mentre cerchiamo di trovare la vera cima con scarsa visibilità. La nebbia si è diradata nel tardo pomeriggio e potevamo vedere dove eravamo. Ero quasi pronto a rinunciare, ma i nostri anni di fiducia e lealtà reciproca hanno fornito la scintilla a Rick per spingersi avanti, ancora una volta, verso un punto alto molto vicino a dove eravamo già quattro ore prima. Un piolo, un breve pezzo di alluminio e un pezzo di filo segnavano la cima.

Ero già stato in cima al Nanga Parbat una volta con Rick, nel luglio 2009, quasi strisciando in un vento fortissimo. In quell’occasione avevamo scalato la parete Diamir lungo la via Kinshofer. Stavamo controllando la situazione, perché ero abbastanza certo che se fossi mai salito sulla Mazeno, una discesa veloce sarebbe stata fondamentale. Rick e io avevamo già provato la Mazeno, con Doug Scott e amici carissimi, negli anni ’90. Incredibilmente, la cresta continuava a chiamarmi e per rafforzare la mia autostima ho ritenuto essenziale capire la via per scendere dalla montagna se il mio desiderio insensato di scalare la Mazeno fosse durato.
La cresta Mazeno divide le pareti Diamir e Rupal del Nanga Parbat, la nona montagna più alta del mondo. È lunga dai 10 ai 13 km, dipende da dove si misura l’inizio. Posso assicurarvi che è lunga, con almeno quattro importanti punte di 7000 metri lungo il percorso, inevitabili, e poi una distanza considerevole rimanente sopra il Mazeno Gap per raggiungere la cima di 8126 metri. Doug Chabot e Steve Swenson hanno effettuato la prima traversata della cresta dal 12 al 18 agosto 2004; si erano acclimatati per anni prima di tentare, ma lo sforzo li ha lasciati deboli e malati. Sono scesi dalla via Schell e hanno classificato la Mazeno VI M4 AI3. Un team tedesco di due uomini ha attraversato la cresta anche nel 2008, ma c’è poco scritto al riguardo.
Sapevo che non sarebbe stato facile. Molti alpinisti, me compreso, avevano sbattuto la testa contro questo proverbiale muro di mattoni, a partire dal 1979. Il mio amico Voytek Kurtyka e il defunto Erhard Loretan ci avevano provato, ma non avevano fatto grandi progressi. Per noi fare come tutti gli altri sembrava un po’ inutile. Ciò che restava era completare la cresta fino alla vetta.

Durante le mie frequenti spedizioni in Nepal, ho scalato con alcuni Sherpa eccezionali e per molto tempo ho detto loro che avevo un percorso fantastico per loro. Lhakpa Zarok è uno dei migliori Sherpa per l’arrampicata su ghiaccio che abbia mai visto e ho chiesto a lui e a un amico di unirsi a me e Rick in Pakistan. Come al solito i soldi scarseggiavano, quindi ho deciso di chiedere a Cathy O’Dowd di accompagnarmi. Ha raccolto molti fondi ed era responsabile del sito web, del networking e dei bollettini meteo, cose in cui Rick e io siamo negati e che evitiamo il più possibile.
Cathy non era sicura di riuscire a scalare l’intera cresta, quindi decidemmo di prendere un altro Sherpa per salire con lei, dato che si aspettava di tornare indietro presto ma voleva comunque metterci piede. Alla fine superò le sue stesse aspettative (e io sapevo che lo avrebbe fatto), anche se alla fine lei e i tre Sherpa scesero dopo aver preso parte a un tentativo di vetta abortito. Rick e io non saremmo stati in grado di raggiungere la cima se non fosse stato per i loro sforzi eccezionali.
E così eravamo in sei: Rick, Cathy, Lhakpa Zarok, Lhakpa Nuru, Lhakpa Rangdu e io come capo. È stata dura invitare i miei amici nepalesi anziché scalatori occidentali, poiché conoscevo guide alpine che avevano mostrato un minimo di interesse per il mio progetto. Ma alla fine di tutto, anche se i miei amici occidentali erano scalatori eccezionali, li avevo comunque conosciuti solo in ambiente alpino. Non avevamo vissuto insieme momenti difficili ad alta quota, quindi ho deciso che non valeva la pena rischiare.
Dopo aver trascorso una notte a 6400 metri nella nostra fase di acclimatamento, ci imbarchiamo nel grande “push” il 2 luglio. I bollettini meteo ci avevano informato che avremmo avuto tempesta dopo circa una settimana, ma sappiamo bene mai avremmo avuto una finestra meteo abbastanza lunga per questa scalata. I nostri sacchi sono pesanti: otto giorni di cibo che potrebbero estendersi a 10, forse. Quindi partiamo, lungo il ghiacciaio e su per i primi pendii facili.
Due giorni dopo, la mattina del 4 luglio, siamo finalmente in cima alla cresta e abbiamo una bella vista sull’altro versante, sul ghiacciaio Diamir, 2500 metri sotto di noi. Possiamo vedere le tende delle squadre che affrontano la Kinshofer Route. Auguro loro successo, sperando che salgano in alto sulla Kinshofer, la nostra via di discesa pianificata, ma come scopriremo raggiungeranno solo il Campo 2 e poi torneranno indietro.
Fa freddo sulla cresta: i Lhakpa e Rick indossano sempre le loro tute di piumino; io indosso sempre il mio parka di piumino. La neve profonda e non consolidata e la foschia pomeridiana rallentano i progressi e, quando si apre la vista, la distanza fino alla cima del Nanga Parbat sembra così enorme da essere ridicola. Ciò provoca e frustra il nostro team, alcuni dei quali probabilmente pensano che il loro capo sia un sognatore e potenzialmente pazzo!
Ci stiamo muovendo in stile alpino, aprendo la pista mentre portiamo grandi sacchi, legati in squadre da due, portando tutto con noi. Abbiamo più forza muscolare e più rifornimenti di entrambe le cordate che hanno attraversato l’intera cresta fino al Mazeno Gap, ma seppur con gli straordinari nepalesi ci stiamo muovendo lentamente, semi-intenzionalmente, cercando di preservare l’energia nella neve non consolidata, perché sappiamo che siamo qui per un viaggio ben lungo.

Il quarto giorno, stiamo andando bene quando Lhakpa Nuru, che ha attraversato sotto uno sperone roccioso e sta cercando di risalire un ripido canalone di neve per riguadagnare il filo di cresta serpeggiante, cade per circa 40 metri dopo che la neve inconsistente gli crolla sotto ai piedi. Zarok è quasi sulle orme di Nuru, con un sacco di corda allentata e raccolta. La scivolata in caduta continua finché Zarok non riesce ad aggrapparsi e anche Nuru si ferma. La loro risalita sembrava difficile, allora scendiamo da loro e cerchiamo di attraversare su neve dei contrafforti rocciosi, trovando un vecchio anello di corda incastrato in una fessura. Il tramonto ci coglie in un brutto posto.
Ci rannicchiamo sotto una sporgenza rocciosa, il pendio sottostante è abbastanza ripido da far sì che uno zaino caduto abbia buone probabilità di atterrare ai piedi del ghiacciaio Diamir. La mia determinazione a scavare tra la roccia fa sì che una tenda venga montata in modo precario. Rick scava una grotta naturale a forma di bara da condividere con Rangdu, e Nuru e Zarok si rannicchiano semiseduti su una sporgenza rocciosa irregolare. È una brutta notte che porta a una giornata corta.
Dopo essere risaliti ripidamente fino alla cresta e su un colle, bivacchiamo di nuovo per dare a tutti il tempo di riprendersi. Il giorno dopo è prevista bufera, ma non riusciamo a ricevere un segnale satellitare, quindi non abbiamo idea delle previsioni aggiornate. Ciò che vediamo suggerisce forti venti. Davanti a noi si trovano due punte gemelle, caratterizzate da terreno misto ripido, strette creste esposte e pochi posti per bivacco. Scegliamo di rimanere dove siamo e aspettare una bufera che però non arriva per davvero. Ma è ventoso, sarebbe troppo azzardato muoversi!
Il settimo giorno, riprendiamo a muoverci. Lo sforzo resta incessante: vento, neve alta, passaggi misti difficili, una cima dopo l’altra e dopo l’altra ancora. L’esposizione è superba: una traversata nel cielo con terreno che scende ripidamente da entrambi i lati, che si estende in vista di cime lontane. La cresta si snoda come il dorso di un serpente, decorato con cornici curve in bilico su onde ghiacciate. Superiamo il nostro “punto di non ritorno” con un’impacciata calata in corda doppia diagonale per scendere lungo una parete rocciosa. Se qualcosa dovesse andare storto ora, tornare sui nostri passi sarebbe quasi impossibile; sarebbe meglio proseguire fino al Mazeno Gap.
L’ottavo giorno attraversiamo il Mazeno Peak 7120 m, il punto più alto della traversata, e la cresta si allarga. Ora ci troviamo all’inizio dei pinnacoli, l’ultima sfida tra noi e il massiccio principale. Dal resoconto di Chabot e Swenson, sappiamo che questo ostacolo è il punto cruciale: ci hanno messo 13 ore. Eppure sembra così semplice e riesco a percepire che Cathy e i Lhakpa stanno già saltando in avanti verso il giorno della vetta. Io ho così tanto rispetto per gli scalatori americani che mi aspetto tempi duri e spero semplicemente nel meglio.
Il giorno dopo, il 10 luglio, le ore si accumulano e i pinnacoli sembrano infiniti, una cresta merlata e tortuosa che scende sempre più verso il basso, diventando sempre più stretta e contorta man mano che alcuni del team si esasperano. Dopo 11 ore di arrampicata, raggiungiamo il Mazeno Gap, a circa 6850 m, all’ultimo bagliore del giorno. Solo altre due cordate sono arrivate fin qui. E nessuna è andata oltre.
Stanchi, ma con l’idea di aver già realizzato qualcosa, dormiamo fino a tardi prima di salire a un campo alto a 7200 metri. Questo ci basterà per un tentativo di raggiungere la vetta a 8126 metri: è un po’ lontano, ma potremmo farcela. Sappiamo che stiamo salendo in una previsione di vento forte, ma il cibo è esaurito: un grande sforzo per andare e forse, solo forse!
Partiamo all’una di notte dell’11° giorno, scalando con forte vento. Io sono il fanalino di coda, alle prese con i miei occhiali; Nuru è davanti. Con grande delusione di Rick e Cathy, voglio restare sulla cresta, cercando una nuova linea tecnicamente interessante per la cima, invece di attraversare più in basso sul fianco del Diamir. Mentre schiarisce, arriviamo spettacolarmente in vetta a una cima secondaria con vista sull’orizzonte più a ovest. Purtroppo questa gobba non è neanche lontanamente vicina alla vera cima. Stiamo attraversando lungo la fantastica cresta rocciosa che corre tra le pareti Rupal e Diamir, con un’esposizione impressionante. Dalla nostra gobba siamo costretti a scendere in diagonale su terreno misto insidioso, neve inconsistente e roccia friabile. Nuru è demoralizzato e Cathy è infreddolita ed esausta.
Alle 7 del mattino, Cathy e Nuru ne hanno abbastanza e tornano indietro. Rangdu è legato con Zarok, io con Rick, e ci muoviamo insieme su terreno misto di grado scozzese III/IV. Avrei voluto avere due attrezzi, ma nella fretta di arrivare in Pakistan avevo lasciato i miei migliori in un deposito a Chamonix, quindi dipendevo dalla nostra scorta pakistana. Saliamo ripidamente su roccia marcia e poi attraversiamo neve profonda fino a un’altra parete rocciosa, dove troviamo Rangdu e Zarok che tornano verso di noi, desiderosi di scendere. È già troppo tardi, e mi pento tanto di non avere più di tante informazioni su questa sezione di montagna.
Durante la lunga traversata di ritorno al nostro campo alto si accenna a un altro tentativo alla vetta. Poi Lhakpa Zarok perde l’equilibrio e inizia a scivolare lungo il pendio; Rangdu cerca di trattenerlo ma viene catapultato via dai suoi piedi e insieme precipitano lungo la parete. Da dove ci troviamo Rick ed io sembra che la pendenza si addolcisca prima di una nuova sezione ripida, ma inizio a pensare che potrebbero non fermarsi più. Infine, dopo circa 300 metri, si fermano a pochi metri sopra i seracchi che incombono ripidamente sulla parete Diamir. Si alzano e risalgono lentamente la parete per ricongiungersi alla nostra linea di traversata.
Dopo 18 ore di arrampicata, con la luce che cala, arriviamo di nuovo al nostro campo alto, dove ci riuniamo a Cathy e Nuru. Non ci sono quasi più provviste. La decisione di scendere il giorno dopo sembra ovvia. Lhakpa e Cathy sono sicuri di voler scendere.
Mi sveglio sentendomi così bene! Voglio tenere aperte le mie scelte. Zarok e Nuru sono quasi pronti a smontare le loro tende da bivacco in preparazione della discesa. Chiamo Rick attraverso il tessuto ghiacciato della tenda, e lui condivide il mio ottimismo.

Sono pieno di fiducia e di accettazione mentre guardo Cathy e i tre fantastici Lhakpa dirigersi lungo la via Schell in quel giorno avvolto nella nebbia. L’avevo previsto nella fase di pianificazione? Il loro contributo è stato immenso. Come capo spedizione e guida alpina, il mio senso del dovere e della responsabilità è tangibile.
Più tardi sapremo che, durante la discesa, hanno sbagliato via, trovandosi nella nebbia a fare corde doppie a ovest di una cresta invece che a est. Rangdu si è gravemente ferito alla caviglia cadendo al buio, costringendolo a passare la notte con Cathy sotto una parete rocciosa ai piedi della conca, esposto a seracchi sospesi. La mattina presto, una valanga ha travolto la tenda, ma la parete rocciosa li ha protetti e poi, dopo aver raggiunto la sicurezza della morena, una seconda valanga ha riempito la conca. Due giorni dopo aver lasciato l’accampamento alto, hanno raggiunto la strada e hanno preso le Jeep per Chilas, dove ci hanno aspettato in un hotel.
Dopo la partenza di Cathy e degli Sherpa il 13 luglio, Rick e io riposiamo per il resto della giornata. Ci ritroviamo con il telefono satellitare con tre quarti di batteria carica. Le previsioni meteo sono ragionevoli per quattro giorni. Il cibo rimanente lasciatoci con generosità dagli altri consiste in un pacchetto quasi pieno di biscotti “digestive”, una porzione di porridge, alcune caramelle e diverse bombole di gas. Quando gli altri sono andati via da un pezzo, mi rendo conto di non avere il mio accendino, mentre loro ne avevano molti… Perché non mi sono ricordato di prenderne uno?
I fatti sono: siamo stanchi, abbiamo poco cibo e non abbiamo la forza di ripetere la nostra linea più diretta del giorno prima e spingerla fino alla cima. Sono un po’ deluso, ma accetto l’alternativa realistica. Il nostro piano è di salire un po’ e poi provare una traversata ascendente verso la piramide della cima, girandola a sinistra per unirsi alla Kinshofer Route da qualche parte sopra i 7500 metri. La tenda sarebbe un peso, quindi la lasciamo lì e prendiamo solo i sacchipiuma. Lasciamo impulsivamente anche i materassini, perché pensiamo di poter scendere lungo la via Kinshofer, che normalmente richiede un giorno.
Una leggera nevicata, il vento e piccole slavine hanno cancellato le tracce del tentativo precedente. Ci occupiamo lentamente della traversata. Le costole rocciose scendono lungo la parete, richiedendo un lavoro di piedi preciso; utilizziamo qualsiasi protezione naturale riusciamo a trovare. Ci spingiamo avanti, aprendo la pista nella neve più profonda. Ci dividiamo il comando su un canalone più ripido e mi isso su una cornice sospesa, sperando che ciò che cade da sotto i miei piedi non colpisca Rick. Iniziamo a ritrovarci su questo versante Diamir grazie alla nostra salita del 2009. Sono le 17 e la vetta è ancora lontana. Infine, a circa 7700 metri, scaviamo in un banco di neve con le nostre piccozze, ci infiliamo nella grotta al buio e mangiamo i nostri ultimi biscotti.
Il 15 luglio, due settimane dopo aver iniziato la scalata, lasciamo presto la nostra grotta di neve, portando con noi tutti i nostri averi. Siamo in zona vetta alle 14 ma alla fine troviamo la cima solo alle 18. Diciassette anni dopo il nostro primo tentativo sulla Mazeno Ridge, ce l’abbiamo fatta fino in cima.

Scendendo dalla vetta, le nostre orme sono quasi del tutto cancellate dalla neve che si sposta. L’oscurità ci circonda, ma l’esperienza mi porta direttamente alla grotta che avevamo lasciato quella mattina. Rick non riesce a far accendere l’unico accendino rimasto, e la mezza bombola di gas sul fornello Sumo ora sembra quasi uno scherno. Fortunatamente, il sonno arriva facilmente.
Mentre iniziamo a scendere lungo la parete Diamir, Rick apre la pista per primo, ma è troppo lento, quindi prendo il comando per quasi tutto il giorno, muovendomi lungo un arco discendente apparentemente infinito. Arriva la nebbia e prendo una direzione leggermente al di sopra del tradizionale Campo 4 della via Kinshofer. Rick si comporta in modo insolito, ma il suo lavoro di ieri giustifica la stanchezza e richiede rispetto.
Nessuno ha scalato il Nanga Parbat da due stagioni. Siamo soli. La mia preoccupazione mi spinge a telefonare al nostro agente, Ali, per dirgli che stiamo scendendo dal versante del Diamir e di mandare alcuni indumenti da bassa quota al campo base del Diamir con portatori veloci. Chiedo anche informazioni sulla nostra cauzione per l’elicottero e sul potenziale soccorso in caso di necessità.
Rick sente le mie parole e capisce che è lui la causa della mia preoccupazione. Recuperando un po’ di concentrazione, sembra rimettersi in sesto. Scaviamo un’altra grotta di neve con un tempo sgradevole. L’energia di Rick viene sprecata quando il suo lato della grotta crolla. I miei scavi vanno un po’ meglio e ci infiliamo a metà. Proviamo di nuovo a riaccendere il fornello, ma è inutile.
Giorno 16: di nuovo, niente acqua, niente cibo. Ci scrolliamo di dosso la neve, ci leghiamo e scendiamo lungo un pendio ripido, incrostato in alcuni punti. È carico e instabile; Rick innesca una valanga e rotola mentre io tengo la corda dalla mia posizione in sicura. Il pendio è forse un po’ più sicuro ora, ma sappiamo di non doverlo dare per scontato! Le nostre alternative sono nulle: restare e peggiorare, oppure continuare a scendere.
Camminiamo lungo la traccia della valanga finché non dobbiamo traversare da una parte. Sotto e alla nostra sinistra c’è il sito del Campo 3. Scopriamo occasionali ancoraggi per corde fisse e li controlliamo prima di calarci in corda doppia su sezioni di ghiaccio duro. Le vecchie corde sono irrimediabilmente ghiacciate; perdiamo tempo con doppie da 25 metri sulla nostra corda doppia. Al tramonto, nella nebbia che ci avvolge, arriviamo su una cresta sopra il sito del Campo 2. Rick vuole andare da una parte, io dall’altra, e sono sicuro che la mia memoria non sbaglia! Qui non c’è un cumulo di neve, quindi scaviamo una cengia, ci leghiamo e iniziamo una lunga veglia, seduti nei nostri sacchi su alcuni anelli di corda. Noto che Rick per due o tre notti ha trascurato il cambio di calzini e la normale routine di cura dei piedi, di vitale importanza. Siamo entrambi deboli e mi chiedo quanto lui sia esausto e infreddolito.
Il meteo continua a essere bello mentre sorge l’alba e ci spostiamo verso il sito del Campo 2 sulla Kinshofer. Abbiamo urgente bisogno di idratarci! Rick si addormenta al sole; io mi tolgo l’ultimo strato di piumino e mi cambio la biancheria intima. Sveglio Rick che sta dormendo e lo incoraggio a togliersi la tuta di piumino. Lo fa, poi ci imbraghiamo e ci leghiamo di nuovo. Chiedo a Rick di andare davanti, perché sono certo di avere la prontezza per trattenere una caduta se necessario.
Appena sopra la Kinshofer Wall, vediamo qualcuno che organizza una sosta. Scendiamo per salutare Marek Holecek, che presto viene raggiunto da Djenek Hruby; si stanno acclimatando prima di provare una nuova linea sul versante Rupal. Rick è sonnacchioso e parla a malapena; io sorrido mentre preparo il fornello Sumo facendo segni per chiedere un po’ di fuoco. Marek si toglie lo zaino, lo aggancia con cura e mi porge un accendino e delle caramelle di zucchero, che apro con i denti, dandone una manciata a Rick. Si dividono la fiaschetta di tè. Il fornello funziona e presto abbiamo un bel po’ di acqua. Rick tossisce e sputa, vomitando la bevanda bevuta in fretta, ma poi si calma. Marek ci dice di usare il loro cibo e le tende al Campo 1, e poi proseguono la loro salita.
Rianimati un poco, ci lanciamo sullo schifoso groviglio di corde fisse della Kinshofer, usando la nostra corda da 50 metri per calarci in corda doppia. Poi, legati assieme, scendiamo ancora in doppia lungo un enorme canalone di neve e ghiaccio nella notte, faccia a monte, calciando le punte anteriori nel ghiaccio con le dita dei piedi semicongelate. Rick continua a fermarsi e ad addormentarsi. Rispettoso della nostra fragilità, sono contento di fermarmi anch’io e alleviare il dolore al piede. Conto mentalmente i secondi per qualche minuto in modo da riposare a sufficienza, e poi incoraggio Rick a muoversi di nuovo, anche se ho paura che scivoleremo via. Conosco e mi fido di Rick, è eccezionale, ma siamo entrambi davvero ubriachi!
Alle 23 inciampiamo su detriti di valanga e piccoli crepacci finché una tenda illuminata non appare ai piedi del contrafforte. Tre portatori d’alta quota emergono e ci abbracciano. Incredibilmente, Ali li ha mobilitati dai loro letti a Skardu al Campo 1 sul Nanga Parbat in 48 ore. Si erano spostati continuamente durante la notte in modo da poter essere al campo ad aspettarci. Il giorno dopo, 18 giorni dopo aver iniziato la salita della Mazeno Ridge, i portatori ci aiutano a scendere al campo base del Diamir, dove beviamo il tè su sedie di plastica, seduti su un tappeto naturale di fiori selvatici.
Sommario
Prima salita completa della Mazeno Ridge (cresta occidentale) del Nanga Parbat 8126 m, da parte di Sandy Allan e Rick Allen, dal 2 al 19 luglio 2012. I due scalarono con Cathy O’Dowd, Lhakpa Nuru, Lhakpa Rangdu e Lhakpa Zarok fino a un punto alto oltre il Mazeno Gap. I quattro scesero lungo la via Schell il 13 luglio, mentre Allan e Allen continuarono fino alla cima, raggiungendo la vetta il 15 luglio. Scesero lungo la via Kinshofer sul versante Diamir, raggiungendo il campo base il 19 luglio.
Per saperne di più sulla spedizione, visitare www.mazenoridge.com .
Informazioni sull’autore
Sandy Allan è una guida alpina IFMGA/British Mountain Guide (www.teamascent.co.uk), nato e cresciuto nelle Highlands scozzesi. Al momento della loro scalata del Nanga Parbat, Allan aveva 56 anni e il suo compagno Rick Allen ne aveva 58. Con sede a Newtonmore, Allan è un’appassionato ghiacciatore, specialista nell’arrampicata invernale scozzese. Il suo compagno, Rick Allen, morirà invece nel 2021 al K2.
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Articolo molto bello ma il libro di Sandy Allan “La cresta infinita” lo è ancora di più. Vivamente consigliato.
Con Sandy Allan abbiamo lavato i piatti di tutti all’ Hollandia hütte (aspetto la matita blu di Saratoga), un po’ di anni fa.
Strabiliante avventura questa descritta. Una delle più grandi in Himalaya.
La forza e la resistenza sono due doti importanti ma senza la determinazione non bastano. In questa infinita salita credo che la determinazione dimostrata da Sandy e Rick abbia fatto la differenza per la riuscita e, una volta in vetta, anche per riportare la pelle a casa, cosa non proprio così scontata. Non bisogna però dimenticare gli eroici compagni, e l’aiuto fondamentale che hanno dato, per aprire la strada verso l’alto di questo epico viaggio che è la Mazeno Ridge.
Bello il resoconto di k2-70, ah no scusate !