Dieci anni senza Bruno
di Emilio Previtali
(da facebook, 17 dicembre 2017)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***
Eravamo tutti dentro al teatro dell’oratorio, tutti gli amici riuniti e la sala era strapiena sia sotto che sopra in galleria e c’era anche molta gente in piedi. A pensarci bene non eravamo che a qualche decina di metri da dove lo avevamo salutato dieci anni fa per l’ultima volta, il Camós. La chiesa in linea d’aria dista qualche metro soltanto dal teatro dove eravamo, a San Pellegrino. Nessuno di noi sapeva bene cosa aspettarsi dalla serata, era la presentazione di un libro ma soprattutto, per tutti, era la voglia di stare lì insieme a ricordarci di lui. Dieci anni senza Bruno, sono tanti. Si sono spente le luci ed è rimasto solo il grande schermo illuminato in fondo alla sala. C’era una luce biancastra e forte, le chiacchiere sono diventate silenzio. Ciascuno di noi è svanito nell’aria, siamo diventati niente. Occhi, aria. Nulla. E’ comparso il profilo di una parete di calcare, si capiva che era Cornalba e da dove guardavamo noi, dall’alto attraverso lo sguardo della telecamera si vedevano sullo sfondo i prati verdi e i tetti delle case più in basso. Il Camós si vedeva di profilo, stava venendo su arrampicando da primo di cordata con una bandana in testa. Cercava gli appigli per le mani e per i piedi, senza fretta e con precisione, con quella delicatezza sorprendente che usava sempre lui. Non c’era nessun audio nel video o forse c’era, non lo so, ma l’unica cosa che arrivava alle mie orecchie e al mio cervello ieri sera in quel momento era quel silenzio magico che ho provato tante volte in vita mia, in sosta, da solo, facendo sicura a un compagno di cordata che sta salendo da sotto. In sala c’era esattamente quel tipo di silenzio, c’era quel fruscio delle corde che scorrono, il tintinnio dei moschettoni che si muovono e il respiro del compagno che si avvicina man mano che sale. C’era la parete di calcare che devia verso l’alto tutti i rumori e se ne succhia qualcuno. E io giurerei che c’era anche quell’aria calda che risale le pareti quando sono inondate dal sole e che fa muovere i fili d’erba o i capelli in testa e li fa sbandare nell’aria, chiunque ha scalato una volta in vita sua o si è affacciato oltre il bordo di una grande parete verticale sa di cosa sto parlando, è quel vento leggero e morbido, delicato, che forse è il respiro della parete. Ieri a me sembrava di sentirlo sul volto.
E’ stato esattamente in quel momento che le parti si sono invertite, il Camós era vivo e noi eravamo morti. Lui era luce e noi eravamo buio. Lui c’era e noi non c’eravamo. Noi eravamo pietra, aria, sguardo e lui era lui, così come era. Stava scalando. E’ durato qualche secondo in tutto ed è stato magico. Io mi sono fatto sorprendere e mi sono emozionato e ho sentito i peli della barba rizzarsi sulla faccia e mi stava quasi venendo da piangere. E’ in quel momento esatto che tutti insieme, quanti eravamo, abbiamo trasformato la tristezza e la malinconia che ci portiamo dietro da dieci anni a questa parte in qualcosa di diverso che si sente dentro ma che non fa più lo stesso male. Adesso è qualcosa che fa star bene. Ci siamo messi inspiegabilmente ad applaudire e il silenzio è diventato vita. Bruno per coincidenza ha guardato verso la telecamera cioè verso di noi e noi siamo tornati al mondo, insieme a lui. Non so se l’audio dicesse qualcosa in quel momento, non credo, io ho avuto la sensazione che il Camós stesse per dire qualcosa di spiazzante e ironico tipo “Àdéi lé“, che è una frase del suo repertorio e che in bergamasco vorrebbe dire: “Guardali lì, dove sono”. Poi ha preso un po’ di magnesite dal suo sacchettino ed è andato avanti ad arrampicare. Per me quello lì, ieri, è stato un momento bellissimo. Magico. Non credo di essere l’unico ad averlo sentito.
Bruno Camós Tassi
(a cura della redazione)
Nato a San Pellegrino Terme (BG) il 4 maggio 1956, guida alpina dal 2003 (quindi a 47 anni!), è morto in un incidente stradale il 24 dicembre 2007, esattamente dieci anni fa.
«Le Orobie sono la mia terra. Quelle sotto casa, nella zona di San Pellegrino, sono le Orobie piccole, le Prealpi, e sono le prime che ho salito da bambino, con mio padre. Non ci si andava solo a passeggio, ma per lavoro, a far legna. E poiché mio padre era appassionato di montagna, mi portava in giro, nella zona dei Tre Signori, dei Laghi Gemelli, in Presolana, perlopiù sul versante bergamasco, con qualche puntata al di là. Poi attorno agli 11-12 anni, proprio in Presolana, ho visto gente sulle pareti e ho capito che una delle cose che avrei fatto nella vita sarebbe stato scalare. Ho continuato questa attività di passeggiate e di salite fin verso i 17‑18 anni, quando ho cominciato ad arrampicare. All’epoca l’unica palestra qui era la Cornagera, dove ho appreso i primi rudimenti della scalata. Da noi, a parte qualche classica in Presolana, c’erano vie di difficoltà media nella zona dei Campelli o del Pizzo del Becco, del Diavolo di Tenda, del Coca».
Tra il 1978 e il 1979 salì un numero grande di classiche, non solo nelle Alpi Centrali bensì soprattutto in Dolomiti: ma anche nel Bianco (Capucin, Courtes e, nel 1981, il Pilone centrale).
«Un’altra nostra meta, oltre ovviamente al Badile e alle montagne della Val Masino, era la Val di Mello; lì si iniziava a portare l’alpinismo in bassa quota! Che poi non si sa se sia stata un’evoluzione o un’involuzione… ma sì, è stata comunque un’evoluzione! Anche se non vorrei che, nel tempo, si continuasse a scendere sempre più: dalla montagna alla falesia al boulder alla palestra alla cantina!».
Il punto di svolta è stato all’incirca nel 1981. Quando il Camós si recò in Francia per la prima volta, nel Verdon, era contrario all’uso dello spit. Il massimo rimaneva la Val di Mello con le sue placche improteggibili. Pian piano però nelle palestre francesi, dove si stava sviluppando l’arrampicata sportiva, al Camós apparve chiaro che, se volevano alzare il livello e fare quel che facevano i francesi, la Val di Mello non bastava: «Nessuno all’epoca pensava che l’arrampicata sarebbe diventato uno sport vero e proprio. Credo che pochi avessero bene in mente l’obiettivo finale, anche uno come Manolo, o come Marco Bernardi, tutti si andava comunque anche in montagna».
Alla ricerca di un luogo dove elevare il livello, Camós si concentrò su Cornalba, una falesia in alto nella sua valle, alta fino a 100 m e larga ben di più. All’inizio il suo lavoro era legato al fattore alpinistico; solo dove non riusciva a passare dal basso, chiodava dall’alto, come in Verdon. Con lui erano pochi amici a condividere quelle idee, Gianandrea Tiraboschi di Zogno, Vito Amigoni e pochi altri.
«Nel 1981 sono nate le prime vie, quelle logiche, dove ci si poteva proteggere – in fessura, camino, diedro – come in montagna; poi, salendo, abbiamo visto che era possibile provare a scalare sulle placche. E così abbiamo iniziato a chiodare, all’inizio rigorosamente dal basso. Il primo salto di qualità è avvenuto quando sono riuscito a salire il primo 7a, nell’82-’83. La domanda che ci ponevamo era questa: dove si può passare? Certi tiri di corda li ho chiodati anche tre anni prima di cominciare a provarli e poi a liberarli. Il primo 8a di Cornalba, nel 1989, è stato anche uno dei primi 8a della storia dell’arrampicata sportiva moderna, insieme a quello di Manolo, e l’avevo chiodato nel 1983!…
Qui da noi Cornalba è il clou, dove c’è il movimento più grosso di arrampicata. È una parete magica, che la natura ci ha regalato… Credo che il “Personaggio” che ha deciso di creare Cornalba ci abbia messo della buona volontà, come quello che ha creato il Verdon! I due personaggi sono parenti! “Già che hai fatto felici i francesi, fai felici anche quei poveri cristi dei bergamaschi, dagli un pezzo di roccia anche a loro, che ai piemontesi hai dato la Valle dell’Orco, ai veneti Arco, ai liguri Finale… “. È un posto magico, lo è stato specialmente nel periodo d’oro, dall’86 al ’90, quando si sono liberati i tiri delle vie chiodate in precedenza. E sempre quel Personaggio lì ha detto: “diamogli una mano a questo Camós, che sia in grado di metter dentro delle belle linee”. Io la roccia cerco di tenerla intatta. Magari chiodo le vie, e poi altri, più bravi, le liberano. L’ultima via che ho chiodato era sicuramente 9a. Al più forte che abbiamo qui a Bergamo (Yuri Parimbelli, ndr) gli ho detto: “quello è il tuo tiro, vai a provarlo”. Ma un altro, che non è neanche di Bergamo, ha visto lì la mia corda fissa – perché avevamo detto: proviamolo, poi vediamo se migliorare due o tre cosine – è andato su e cos’ha fatto? Ha scavato gli appigli… Morale ha scalato ‘sto tiro, che è 8c+… Il tiro era 9a, e sarebbe stato il primo 9a di Cornalba! Eh, ci siamo seccati. Ma qualcuno lo punirà quel pirla lì…».
La vitalità di Bruno Camòs Tassi non finirà mai di sorprenderci: il 4 maggio 2004 con Simone Moro e l’amico kazako Denis Urubko aprì Ciao Patrick, una via nuova sull’inviolata parete nord-ovest del Baruntse Nord 7066 m, in Nepal, dopo quattro giorni e quattro notti di lotta in parete «contro difficoltà elevate in condizioni meteorologiche estreme, quasi impossibili», precisa Simone Moro.
Una linea psichedelica di 2500 m di sviluppo, dei quali gli ultimi 1350 saliti in stile alpino (senza attrezzare la parete con corde fisse e campi intermedi, rinunciando completamente all’uso di portatori in quota e all’ossigeno). La via è stata dedicata al famoso alpinista francese Patrick Berhault.
Dopo il tragico incidente della vigilia di Natale 2007, così Simone Moro ha ricordato il suo “maestro” Camós: «È morto un mito, se ne è andato un grandissimo uomo, un trascinatore, una persona che ha vissuto tutto con l’intensità che è propria solo di chi è destinato a lasciare un segno indelebile di sé… È stato dunque anche e soprattutto un maestro, un caposcuola, una instancabile locomotiva umana e decine sono stati i suoi allievi».
5Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Un uomo un Alpinista, che “Simone Moro ” ricorda sempre nelle sue conferenze come il suo grande maestro….!
Gtazie Emilio. Bellissimo ed emozionante ricordo.
Era troppo simpatico…
straordinaria la prima parte.
Non sapevo fosse diventato Guida a 47 anni, solo – ma non solo – per questo chapeau al Camos
Quanti ricordi, quante emozioni. Ciao Camòs.