Metadiario – 154 – Do not disturb (AG 1990-001)
Alla fine del 1989 fummo incaricati dalla Salewa di coordinare una grande iniziativa ambientale. Scambi d’idee, brain storming e briefing vari con il proprietario Heini Oberrauch portarono alla stesura di questa presentazione, pietra angolare delle successive azioni ed eventi nell’ambito di Do not disturb (trovai questo nome per il progetto e fu accettato con entusiasmo). Memorabile una meravigliosa cena in un maso di sua proprietà proprio sopra Bolzano.
«Ecologia, tutela dell’ambiente e della natura. Le parole sono sulla bocca di tutti. Per alcuni ecologia è la parola chiave per il prossimo decennio, per altri è un ostacolo al progresso scientifico ed economico.
Noi di Salewa Italy siamo convinti che la responsabilità verso l’ambiente faccia parte dell’imprenditorialità come la responsabilità per i posti di lavoro, per il reddito, per la competitività, per il funzionamento, la sicurezza dei prodotti.
All’inizio di un nuovo decennio e a un passo da un nuovo millennio, l’umanità si vede confrontata con nuovi problemi, finora sconosciuti, creati da uno sviluppo tecnologico, industriale ed economico senza pari nella storia.
Ogni giorno la complessità del sistema ecologico “terra” si fa più evidente e con essa i rischi di un mondo iperindustrializzato. Ma ogni giorno si vedono anche i successi di una nuova responsabilità che va oltre i limiti prescritti dalla legge.
Sempre più siamo coscienti dei pericoli che minacciano non solo le bellezze della montagna ma anche la ricchezza della natura.
Tutti dobbiamo cooperare con inventiva, entusiasmo e con mezzi concreti per tutelare l’ambiente, per salvare la natura minacciata, e in fin dei conti per aiutare noi stessi a migliorare la qualità di vita.
Salewa Italy si è posta questa nuova meta. Abbiamo sempre cercato di offrire al pubblico articoli sportivi di altissima qualità al minor prezzo possibile. Assoluta funzionalità e ottimale relazione prezzo-prestazione erano e restano gli obiettivi primari. A questi si aggiunge ora il rispetto per l’ambiente.
Tutte le misure in questo senso sono nate da una nuova e sentita responsabilità e sono riunite nel progetto Do not disturb.
Come azienda leader che lavora nella produzione e distribuzione di attrezzatura e abbigliamento per alpinismo e outdoor, conosciamo a fondo l’enorme sviluppo di questo settore: il turismo di massa, il sovraffollamento di certe regioni, la contaminazione di ecosistemi limitati come laghi, montagne o fiumi.
Problemi che minacciano di mettere in pericolo lo sport e l’avventura stessa.
Perciò ci impegniamo a non incentivare ulteriormente lo sport di massa, ma di promuovere un nuovo modo di vivere l’avventura, lo sport e il tempo libero con più semplicità e naturalezza».
A questa chiarezza d’intenti seguì un minuzioso programma di azioni all’interno dell’azienda e di eventi all’esterno, presso negozianti e consumatori finali. Dopo un anno di messa a punto delle iniziative e soprattutto delle priorità da rispettare nella graduale loro realizzazione, poco si fece in realtà oltre a una conferenza stampa e alla stesura del Decalogo cui mi dedicai con grande passione.
Da Mosè in poi i decaloghi hanno tentato di mettere un po’ d’ordine nel comportamento umano, con alterne vicende di successo: quel che è certo è che talvolta servono soltanto a far più gustosa la disubbidienza.
Eppure continuano a essere formulati decaloghi: alla base di essi c’è uno sforzo, la voglia di migliorare continuamente. Le dieci regolette erano da interpretare come una filosofia propositiva per un ambiente dignitoso.
Dopo un anno non ci venne rinnovato il contratto, per motivi suoi l’azienda rinunciò a continuare, anche con altri: perfino il logo Do not disturb, da me ideato, passò a designare una nuova linea d’abbigliamento della Salewa!
Ciò che mi resta di quell’esperienza è il Decalogo e la lista dei proponimenti, pomposamente chiamata “programma”: tutto in commercio si può banalizzare, ma non l’idea che per poco tempo l’ha animato…
Indubbiamente questo progetto con Salewa fu molto importante per il nostro sodalizio lavorativo, ancora per il momento formalizzato nella Melograno Edizioni, ma in realtà aperto a una serie di iniziative che ormai si svolgevano con l’intervento di Marco Milani e di Giuseppe Miotti. Essendo in tre, cominciammo a chiamarci “quelli della K3”, con evidente riferimento alla montagna K2. Completavano la squadra operativa Monica Mazzucchi, la fidanzata storica di Ivan Guerini che aveva partecipato ai due viaggi in Sardegna per Mezzogiorno di Pietra e che da tempo lavorava come nostra segretaria, e Paolo Romanini, giovane tuttofare assai sveglio che si era introdotto come volontario di Mountain Wilderness. Ma in realtà, anche per la vicinanza di Luigi Costa con le sue innumerevoli conoscenze nel campo degli articoli sportivi, le cose cominciavano a funzionare, quindi eravamo alla ricerca di nuovi collaboratori. Ne incontrammo parecchi e tutti li scartammo: tra loro, ricordo molto bene una ex fidanzata di Gianna Nannini.
Ma nello stanzone dove lavoravamo Milani ed io in via Montebello 14 presto si aggiunse un’altra attività, di cui parlerò in seguito: Aquila Verde.
Finalmente i lavori in corso Vercelli 8, una casa di proprietà del padre di Bibi, terminarono e in primavera ci trasferimmo lì. Io proveniente da corso Sempione 88, lei da via Scarpa 12, assai vicina. Disponevamo di tre locali più la cucina, perciò riuscii ad ammassare i miei libri in uno di questi: ma il problema era la giacenza della Melograno. Non ricordo più dove caspita avevamo i vari libri da vendere: di certo via Montebello non bastava.
Nel frattempo continuavamo con le nostre edizioni. Nell’aprile 1990 uscì la seconda edizione di Finale, questa volta ancora a cura di Andrea Gallo ma non più di Giovannino Massari: un volume grande il doppio del precedente. Nel marzo 1990 era uscito invece L’arrampicata sportiva – attrezzatura, tecniche, allenamento, a cura di Andrea Calderini. Avere a che fare con lui era ogni volta un piccolo incubo: il ragazzo era molto pignolo su particolari ininfluenti e molto meno sulle cose che contavano. In più era molto suscettibile e francamente più volte ci siamo trovati al punto di rottura. Non sapevamo purtroppo che l’opera si sarebbe rivelata un mezzo flop: ma sul punto economico devo dire che Andrea non ci assillò mai.
Con sgomento tredici anni dopo venimmo a sapere della gravissima tragedia di cui Andrea fu protagonista, un assurdo episodio di violenza metropolitana.
31enne e sposatosi da appena tre mesi, dopo aver ucciso in bagno la 22enne moglie Helietta Scalori, il 5 maggio 2003 Andrea assassinò anche la vicina di casa Maria Stefania Vinassa De Regny e, prima di suicidarsi in camera da letto, dalla finestra del suo appartamento in via Filippo Carcano cominciò a sparare alla cieca sui passanti, ferendone tre e in particolare un avvocato e una donna colpita e paralizzata da due colpi alla spina dorsale. Tutto usando una pistola per la quale Calderini, a dispetto delle proprie turbe mentali e denunce giudiziarie, era riuscito a farsi rilasciare un regolare porto d’armi.
Il Tribunale civile di Milano condannò il ministero dell’Interno, quale responsabile civile in solido con il poliziotto che materialmente sbrigò la pratica, a risarcire con oltre 2 milioni di euro i feriti. Il poliziotto, lo psichiatra e il medico militare, autori di due certificati, furono condannati a 1 anno e 10 mesi per concorso colposo negli omicidi. Maxi risarcimento alla donna rimasta paralizzata: un danno non patrimoniale di 1,3 milioni e patrimoniale di 376.000 euro. Nell’avvocato invece, che fisicamente si riprese dopo due anni, i consulenti accertarono un grado di sofferenza prossimo ai livelli massimi per un danno non patrimoniale di 156.000 euro e patrimoniale di 120.000 euro.
Il 16 marzo 1990, lasciata l’auto a Chanlève 1841 m in Valtournenche, con Bibi salimmo in breve con gli sci ai piedi alla frazione di Cheneil 2105. Avevamo prenotato in una bellissima locanda, stile antico come possono ancora esserlo certi posti non raggiungibili con mezzi meccanici. Fu una serata romantica come poche volte può capitare nella vita, con bellezza e gentilezza in primo piano, anche nel ricordo. La mattina dopo ci attendeva una lunga escursione. Salimmo per bosco rado e buona neve fino all’Alpe Champsec 2331 m, poi proseguimmo in una lunga conca fino a sbucare al Colle di Croux 2697 m, caratterizzato da una spettacolare crestina dentellata a lato. Leggera salita poi, con qualche attenzione, verso il Colle di Nana 2775 m, situato tra il Bec di Nana 3010 m e la Becca Trecare 3033 m. Da lì, per nulla stanchi, salimmo i pendii meridionali della Becca Trecare, fino a lasciare gli sci su una piccola spalla e poi proseguire a piedi fino alla cima in circa quindici minuti.
Trasportato dall’eterno e grande amore che ho per le Alpi Apuane, per Pasqua decisi di portare Bibi alla Piccola Roccandagia, la spalla a est-sud-est della Penna di Campocatino e della Roccandagia 1700 m. Era il 14 aprile 1990, il sabato santo. Tra le cose che desideravo fare c’era proprio lo spigolo est-sud-est della Piccola, che la guida di Angelo Nerli definiva “la più bella e panoramica via alla Penna di Campocatino e una delle più interessanti delle Apuane”. La via era stata aperta da Angelo Nerli, Ilda Bertolini e Gian Battista Scatena il 18 settembre 1949, anche se in realtà la guida Nello Conti e Sergio Petronio nel 1947 erano già saliti in cresta senza però andare oltre alla Piccola Roccandagia.
Non riuscimmo a raggiungere la frazione di Campocatino con l’auto, per la presenza di un po’ di neve. Ma in compenso salimmo veloci su neve ottima fino all’attacco. Il dislivello da superare era di circa 400 m ma, dopo il primo tratto facile e una lunga serie di camini, l’arrampicata sulla cresta aumentava di parecchio lo sviluppo totale. Le difficoltà abbastanza continue sul IV terminarono e dopo aver superato la Piccola Roccandagia ci fu un ultimo muretto verticale di A1 che superai in arrampicata libera. Sempre pestando neve raggiungemmo la vetta della Penna di Campocatino e poi la cima più alta della Roccandagia. Non era tanto presto, le ore di luce erano ancora un po’ scarse. Dalla vetta accelerammo in discesa verso la Sella Roccandagia e poi lungo il versante sud-est, fino a trovarci su un percorso non proprio evidente per raggiungere la Cappella di san Viano 1090 m e poi ancora Campocatino. Ovviamente sulla neve ormai marcia del pomeriggio.
Per il ponte tra il 25 aprile e il 1° maggio avevamo deciso di andare in Corsica, dove peraltro io non ero mai stato. Il 26 aprile arrampicammo alla Falesia di Ponte Vecchio, anche perché dato l’orario di arrivo del traghetto e il successivo trasferimento non è che si potesse fare tanto altro. Lì c’erano anche gli amici torinesi, cioè Franco e Marvi Ribetti, ma anche Ugo Manera e Marisol Montaldo. L’incontro con i fratelli Eugenio e Gianluigi Vaccari ci aveva procurato una bella dritta sulla destinazione per il giorno dopo, a dire loro bellissima: la cima di Capu d’Orto 1294 m per la via Fil de l’Épée sulla parete sud-est.
Dal posteggio 480 m c. nei pressi del campo di calcio del villaggio di Piana c’incamminammo al mattino non prestissimo del 27 aprile 1990 verso la Foce d’Ortu 1000 m c. per un sentiero spesso invaso dalla vegetazione ma segnalato. Con me e Bibi erano anche Giovanni Sicola, Luca Crepaldi e Glauco Dal Bo. Dal colle bisognò scendere per qualche tornante e poi abbandonare ogni sentiero per raggiungere la base della parete, a circa 850 m di altezza. Questo approccio è uno dei più tipici della Corsica, anche se certamente non tra i peggiori, con macchia mediterranea e vegetazione che impediscono cammino e visuale. La via era stata aperta nell’aprile del 1983 dalla coppia Henri Agresti e Isabelle Agresti, con l’altra coppia Claire Gleizes e Patrick Gleizes.
In seguito non sembrava avesse avuto tante ripetizioni. La guida Grandes voies en Corse ne aveva permesso miglior conoscenza, ma rimaneva un itinerario del tutto wild. Eravamo stati avvertiti sia dalla guida che dai Vaccari che la roccia era un granito buono ma difficilmente proteggibile, che praticamente non c’era materiale in posto (solo qualche chiodo e nessuno spit) e che perfino le soste erano da costruire. In più, l’itinerario non era così semplice da seguire, occorreva cercarselo e proteggerselo. Il dislivello è di 450 metri, e una ritirata dopo le prime lunghezze poteva essere davvero complicata.
Arrivammo all’attacco dopo circa un’ora e tre quarti. Essendo su un versante orientale nulla potevamo vedere del mare della costa occidentale da cui eravamo partiti. C’era un pilastro abbastanza evidente, sbarrato fin da subito da un tetto a becco tafonato. La prima lunghezza era la più difficile, 6a+, e si rivelò più impressionante che duro, ma comunque un’arrampicata fisica su un granito superbo, laboriosa per via delle minime protezioni in loco che occorreva quindi integrare. Un posto dove non bisognava cadere… La graduazione in scala francese non era appropriata, su quel genere di scalata sprotetta noi eravamo abituati alla graduazione UIAA.
La seconda era un’altra bella lunghezza in una fessura-camino che faceva raggiungere il filo dello sperone (6a). Dopo altri due tiri meno impegnativi ci ritrovammo a salire una bella placconata di 5c che portava a una grande cengia erbosa ascendente verso destra. Raggiunta l’estremità destra di questa, c’innalzammo per placche, camini e diedri (5c) fino a raggiungere la Sosta 6.
Lì realizzammo che la cordata che ci seguiva era fuori vista. Chiamammo a gran voce, ma quel po’ di vento che tirava (e che rendeva sopportabile la temperatura) c’impedì un contatto. Pensammo che i tre fossero tornati indietro e perciò decidemmo di proseguire il più veloci possibile verso la vetta, anche perché uno sguardo all’orologio mi aveva un po’ preoccupato.
Attaccai perciò il tratto centrale della via, assai caratteristico: un magnifico diedro di 45 m, fessurato, con sosta finale scomoda in placca grazie ai friend.
Ormai eravamo sicuri che la via era nostra, soltanto il nono tiro offrì ancora difficoltà di 5c con un piccolo tetto. Con altre due lunghezze (decima, 4c, e undicesima, 4b) raggiungemmo terreno più abbattuto. Sicuri che nessuno ci seguisse, proseguimmo per altri 100 m praticamente di conserva, e superando qualche breve muretto arrivammo alla sommità del contrafforte. Da lì dopo una breve discesa in arrampicata facemmo una doppia di 40 m (la sosta era attrezzata con un vecchio cordone attorno a un blocco incastrato) per raggiungere un intaglio dal quale partiva un canale a gradini che faceva raggiungere finalmente la vetta di Capu d’Orto.
Era decisamente tardi, e non avevamo davanti a noi una discesa così evidente. Seguimmo qualche ometto verso ovest-sud-ovest fino a un bel ripiano. Per canalini erbosi ce la facemmo ad arrivare a Foce d’Ortu, per la quale eravamo passati la mattina. Ora eravamo su terreno conosciuto: riuscimmo ad arrivare al pullmino proprio nel momento in cui sarebbe stato necessario accendere le pile frontali che non avevamo.
Invece, tra qualche apprensione, dovemmo aspettare il ritorno di Luca, Glauco e Giovanni fino a mezzanotte… Non sapevamo bene se avvertire il soccorso. Non lo facemmo solo perché pensavamo che comunque nessuno si sarebbe mosso prima del mattino, quindi tanto valeva aspettare almeno le 6. Quando li vedemmo arrivare tirammo un grosso sospiro di sollievo. I tre non avevano mai pensato di ritirarsi, semplicemente con noi, pur urlando, non riuscivano a comunicare e avevano sbagliato via due volte. Un ritardo tira l’altro e si erano trovati in vetta al buio, con la conseguenza di perdersi alla grande nell’oscurità di quella discesa selvaggia…
Il giorno dopo fu dedicato al riposo e ai bagni in mare. Tra l’altro incontrammo Marco Preti e moglie, con grandi feste reciproche. Quindi ci trasferimmo a Bavella. Il 29 aprile salimmo tutti e cinque la bellissima via JPQ (Jean-Paul Quilici, il più grande apritore di vie in Corsica) alla parete sud-est della Punta di l’Accellu 1588 m delle Aiguilles de Bavella, decisamente una classica imperdibile. Anche questa è una via aperta da Quilici e compagni diversi nell’agosto 1987: sono sei lunghezze entusiasmanti tra fessure, diedri e tafoni dal 5c al 6a+, dove però l’ultimo tiro riserva il superamento di un tetto che, se fatto in libera, giunge al 6c+. Ci fu grande soddisfazione nel riuscirci.
La sera stessa ci trasferimmo a Chisa, un paesino più a nord, dove sapevamo che avremmo reincontrato i torinesi. Quella serata fu particolarmente memorabile. Dopo cena eravamo in nove nel mio furgone a chiacchierare e sorseggiare un po’ di vino corso. In quell’occasione Bibi tirò fuori un pezzetto di fumo che le aveva regalato il fratello Simone (detto Bibo) prima della partenza. Al primo giro aderirono tutti i milanesi e Marisol; al secondo ci furono anche le “matricole” Marvi e Franco, novizi incuriositi di vedere l’effetto che faceva. Ci fu l’eccezione di Ugo, ma la cosa non turbò minimamente nessuno. L’atmosfera, già spensierata e giuliva in precedenza, non tardò ad elettrizzarsi: battute e stronzate non si contavano più. Il culmine lo raggiungemmo quando, dopo una quindicina di minuti dal secondo giro, Franco se ne uscì con una frase che rimase famosa:
– Ma… pagando la propria quota, non se ne potrebbe avere un altro?
Nell’ilarità generale, e mentre Bibi fabbricava il terzo lungo cannone, facevamo a gara a ripetere a pappagallo, mettendo in risalto accento e cadenza torinesi, la frase di Franco (che ogni tanto ripetiamo anche oggi… anche se non indulgiamo più in quelle pratiche).
Dopo di che, per indisponibilità di ulteriore merce, la serata si concluse svuotando le poche bottiglie di vino che c’erano ancora.
il giorno dopo, con calma, ci approcciammo ai risalti rocciosi di Chisa e passammo la giornata tra quei bellissimi monotiri.
Fu davvero un peccato lasciare la Corsica, ma il 1° maggio, non ricordo perché, eravamo di ritorno a Milano.
In quel periodo ero abbastanza allenato: qui sotto riporto le ormai consuete tabelle. Mi limito a notare le vie che mi diedero più soddisfazione, perché un po’ particolari e comunque fatte on sight: via delle Gare (Scarenna, 6c+), Manimal (Galbiate, 7a), Giro dell’Oca (Madonna della Rota, 6c+), Arianne (Cornalba, 6c) e Nuovi Eroi (Passo di san Giovanni, 6c+).
Sempre rasserenanti, i racconti di Alessandro!
Se qualcuno conosce nel mondo qualcosa su granito più bella della Via Jeff alla Punta U Corbu, lo dica!
https://www.planetmountain.com/it/itinerari/jeef-punta-di-u-corbu.html
Spero, una volta tanto, di non essere uscito fuori tema.
Anzi, questi racconti che mixano arrampicata, alpinismo, amori, lavoro, cronaca (nera) e antropologia, si prestano a una così vasta rosa di commenti che andare fuori tema è praticamente impossibile.
Non so se oggi in Corsica sia cambiato qualcosa, a livello di approccio alle pareti, di possibilità di effettuare vie nuove e di frequentazione, ma nel 90 (c’ero anch’io nello stesso anno) ricordo di aver vissuto bellissime giornate sul granito nei pressi di Evisa, sui tafoni di Bavella e su altre pareti dimenticate, ma anche nei limpidi torrenti dove ci si rinfrescava una volta scesi dalle doppie che finivano spesso in mezzo ai rovi, e con i cinghialetti che sbucavano da ogni dove. La macchia mediterranea con i suoi profumi ma anche la lotta per superarla regala ricordi indelebili.
quoto cominetti
Un régal de grimper en Corse ; rocher magnifiquement sculpté, nature sauvage,
et longues marches d’approche, “seuls au monde” !
“Do not distrub”. Al tempo me l’ero perso. Ottimo slogan, validissimo ancor oggi (anzi più che mai) nel sintetizzare l’approccio umano verso l’ambiente.
Sempre belli questi mischioni al limite dello psicopatico per quanto le cose tra loro non c’azzecchino una mazza, ma belli proprio per questo. Augh.