Elogio della inconsapevolezza
di Alessandro Jolly Lamberti
(pubblicato su UP climbing, set-ott. 2019)
Anche se è uno scenario terribile, c’è la possibilità che la nostra mente sia solo un mazzo di neuroni, che l’anima non esista e che le emozioni non siano altro che algoritmi. La differenza tra la mente umana e le macchine non è certo l’intelligenza: tra pochi decenni anche quelle poche abilità nelle quali siamo ancora superiori saranno surclassaste dai software. La vera differenza è la consapevolezza, che (probabilmente) i robot non raggiungeranno mai.
Ma è cosi importante? O la coscienza è solo una piccola imperfezione, un rumore rimasto dopo milioni di anni di evoluzione?
In fondo la maggior parte delle cose che facciamo (alcuni autori dicono il 99%) avvengono in maniera inconsapevole: respiriamo, palpitiamo, camminiamo, sudiamo, secerniamo, inchiodiamo se un gatto attraversa la strada, trasecoliamo, eccetera, in maniera automatica.
La consapevolezza ci limita, ci frena, ci rende meno efficienti. Provate a parlare cercando di essere consapevoli di ogni singola lettera e di ogni parola che compone il flusso verbale: sembrerete dei deficienti. O scrivere. Immaginate un pianista che cercasse di essere attento al movimento di ogni singolo dito, che disastro sarebbe; di quanti gatti o pedoni avreste ucciso se non aveste inchiodato in automatico e di quante palle non avreste preso al volo giocando. Avete mai provato la famosa “camminata consapevole” di Tich Nhât Hanh? Fatelo, e sembrerete burattini.

I grandi atleti, musicisti, poeti, scrittori, oratori, procedono in automatico, senza la mediazione lenta e costosa della parte analitica e consapevole del cervello.
La consapevolezza comporta un ritardo che rende impossibile o quantomeno goffa e maldestra l’esecuzione della maggior parte delle attività umane, figuriamoci la scalata. Di certo la grazia è priva di autocoscienza.
Quando siamo consapevoli, siamo dei “ritardati”. Nel senso letterale del termine, infatti è dimostrato come i feedback automatici necessitino al massimo 100 millisecondi mentre la consapevolezza necessita quasi un secondo (Libet e altri).
Perché, allora, tutti questi modaioli blablabla sulla mindfulness? Ha senso la (anche questa di moda) mindfulness applicata allo sport?
Sono consapevole, dunque mi acciaio
Per tornare nel nostro ambito, uno dei motivi per cui ci acciaiamo (più nordico “ghisiamo”, pumping in inglese) è dovuto proprio a un eccesso di consapevolezza. I feedback di controllo della tensione muscolare dovrebbero essere automatici. Cioè dovrebbe arrivare, in maniera inconsapevole, il segnale che stiamo stringendo troppo le prese e che possiamo mollare un po’. In questo modo la tensione isometrica massimale si modula e si evita il “pumping”, si contraggono solo i muscoli che servono, si alterna in maniera sinergica contrazione e decontrazione tra agonisti e antagonisti. Chi si acciaia di più, in genere, tenta una regolazione volontaria e consapevole, dunque lenta e inefficiente.
Come diceva Bruce Lee, “La coscienza dell’io è il maggior ostacolo alla esecuzione di qualunque azione fisica“, e ancora: “l’arte raggiunge la massima altezza quando è priva di autocoscienza“. Se date veramente retta al vostro istruttore di Pilates (sì, anche questo basato sulla consapevolezza, quindi molto di moda) e tentate di avere un controllo volontario e attento su ogni muscolo in azione, diventerete dei “ritardati”.
Al di là dei blablabla New Age, se date veramente retta a Tich Nhât Hanh, e tentate di scalare in maniera totalmente consapevole, ebbene, sembrerete Pinocchio. Nello sport, nella musica, nella creatività e in moltissimi aspetti della vita che richiedono efficienza, l’attenzione consapevole è propria del principiante “ritardato” (in senso di ritardo tra feedback e risposta). Sono stato ridondante, lo so, ma era per accompagnarvi per mano e strattonarvi fuori da quel pensiero fricchettone dominante che vede tutto attraverso il filtro mindfulness e consapevolezza e attenzione non giudicante.
Devo essere consapevole per poter aspirare alla inconsapevolezza
Dove sta allora la vera funzione della mindfulness? Innanzitutto sta nel fatto che la felicità è racchiusa unicamente dentro quelle piccole, insignificanti, gocce di consapevolezza (e ti pare poco). Secondo, se è vero che l’obiettivo è la grazia automatica, la pratica per raggiungerla (con la ripetizione di esercizi) dovrà essere consapevole. Ma lo scalatore, che è il paradigma del figlio dei tempi moderni, odia la pedante (e consapevole) ripetizione perché la cosa che più teme e più fugge è la noia. Lo scalatore moderno vorrebbe vie diverse ogni giorno, esercizi sempre nuovi e divertenti, e non è quasi mai in grado di fermarsi a ripetere, come il pianista o il monaco shaolin, mille e mille volte lo stesso esercizio. Pedante ripetizione che non è superlavorato, non sono i tentativi e tentativi per riuscire a raggiungere un traguardo numerico, che implica una spinta autocompetitiva (e talvolta nevrotica) per superare qualcosa che non si riesce a fare. Io parlo di un allenamento che includa la pedante ripetizione anche di cose che riescono, ma che devono riuscire meglio, che non apportano alcun upgrade numerico, ma che favoriscono questo passaggio da conscio (leggi: legnoso, costoso, inefficiente) a inconscio (leggi: veloce, fluido, efficiente) ripetizioni che, al contrario, tipicamente vengono consumate, bruciate, movimenti che vengono eseguiti con il pensiero già rivolto verso la prossima via, il prossimo tentativo, il prossimo esercizio.
A questo serve la consapevolezza nello sport: a costruire il cammino verso la inconsapevolezza. Al “no-mente” del samurai ci si arriva solo dopo un lungo percorso di presenza mentale. Devo essere consapevole per poter aspirare alla inconsapevolezza. Come spesso accade quando si usano parole per descrivere concetti non facilmente verbalizzabili, il paradosso può essere di aiuto, come in un Koan buddista.
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Trovo vero che per arrivare all’inconsapevolezza – il tempo in cui diveniamo terraroccianevecielo – si debba passare dalla consapevolezza.
Le gare di trail in cui ho corso meditando sulla mia presenza sono quelle in cui ho avuto i migliori risultati, le volte in cui ho arrampicato fondendomi con la roccia ho fatto progressi, e quando cammino perdendomi nel paesaggio riesco a tornare più velocemente verso me stessa.
Ha detto tutto e il suo contrario. Voleva forse demolire il concetto di consapevolezza ma affermando che per essere inconsapevoli (ciò che serve alla sua pratica sportiva) bisogna prima essere consapevoli, ha fatto alla pratica di consapevolezza il miglior complimento possibile. Insomma, poche idee ma ben confuse…
Cazzo. E io che speravo ne venisse fuori dei bei pettegolezzi sugli arrampicatori capitolini e invece m’andate a incistarvi sul 9a come fosse scontato e su mille seghe mentali da caiota incapaci noiosissime. Mi sa che mi registro su planetmountain e mi leggo del ginocchio della lavandaia lì.
Bravo Bozzo.
Renato l’aveva capito e tranquillamente lo diceva spesso, tanti non l’hanno capito ancora oggi e i britannici tutt’ora “sono superiori”.
Commento n°18: magari qualcuno non sa’ o non ricorda cosa disse Casarotto a conclusione di quello stage.Rivolto a G.L.Vaccari gli sussurrò: i xe superior.!!! Grande virtù l’umiltà…
Aimè non ho avuto in dono un istinto naturale per l’arrampicata. Invidio tantissimo amici che, dopo mesi o anni di stop, infilano scarpette ed imbrago e chiudono gradi o vie per me impensabili.
L’invidia comunque non da spazio al piacere che provo nel vedere piccoli progressi acquisiti con tanta passione e dedizione allenandomi e cercando di fare il possibile per stare in forma. Alla fine tutto questo è anche piacevole e mi da benessere.Mi piace.
Siccome è inutile impegnarsi in esercizi o metodi non efficienti, conviene a mio avviso seguire dei consigli di chi ha già sperimentato e ha esperienza in questo campo.
Credo sia capitato a tutti, spremere alla morte una presa e poi, dopo moschettonato, stare comodi rilassarsi e accorgersi che tutta quella fatica non occorreva.
Dino Marini
Caro Enry….la nostalgia, un sentimento bellissimo e dolcissimo, che scalda il cuore e ci tiene vivi, anche se percepisco che anche su questo blog ogni tanto diventa rimpianto e con la sua ombra rende più difficile vedere il buono e il bello che pure esiste anche nel presente e questo mi fa dispiacere, perché mi sembra che si perdano delle opportunità.
Ho la traduzione in Italiano, una vera Bibbia, fra le decine e decine di libri che ho in casa, la tengo vicino a “Le mie Montagne” e “il Gran Cervino” (tre libri che si fanno risfogliare spesso anche a distanza di anni e anni….).
Un libro avveniristico per i suoi tempi e forse ancora oggi….
Come dimenticare il grande Patrik. Non l’ho citato perché il libro è difficile da trovare e costa parecchio. Se hai l’edizione originale in francese tienila stretta:costa più di 200 €, un po’ meno la traduzione Zanichelli, che è comunque fuori commercio.
il mondo è bello perchè è vario e le diversità di pensiero e di azione sono una ricchezza. Io non sono mai riuscito a fare più di una settimana di trazioni, mentre se potessi, mi piacerebbe poter scalare più volte durante la settimana. Chiaramente su roccia non su plastica.
L’articolo di Jolly è molto interessante e mi trova sostanzialmene d’accordo. La parte mentale dell’allenamento è fondamentale e la prima cosa da fare in questo senso è chiedersi se si è in grado di capire come si può allenare la mente. In questo senso il percorso che porta alla “inconsapevolezza” mi trova d’accordo e penso che possa essere un percorso di effettivo miglioramento. Non vorrei però dimenticare anche la dimensione più ludica della scalata (e del relativo allenamento) come sport: oltre alle Bibbie già citate, non posso non tirarne in ballo un’altra, a mio avviso LA Bibbia, insuperata, che si chiama Grimper, il cui autore non ho nemmeno necessità di essere nominato, tanto è (stato) famoso. In quel libro, oltre a svariati capitoli sull’aspetto mentale (davvero ben fatti), facevano bella mostra alcune foto del protagonista ben zavorrato, per usare un eufemismo, oltre a tabelle riportanti indici di test per capire a che punti si è e dove si sta andando. Questo per dire che oltre alla testa, beh si progredisce anche con tanti tanti tanti giorni passati con un imbrago in vita e vari dischi che penzolano sotto. La testa, si sa, è fondamentale, un bel paio di avambracci e due dorsali come si deve però non guastano….nè in falesia nè in alta montagna. Sempre in tema di aspetti ludici, ricordo sempre la descrizione che fece Jerry Moffat sui suoi percorsi mentali. Per arrivare a vincere le gare di coppa del mondo, diventate la sua bestia nera, scriveva che usava ripetersi dei mantra al fine di convincere se stesso di essere il migliore e che in gara non poteva che vincere. La prima gara che fece dopo mesi di questo training autogeno finì subito con una caduta dopo poche prese….
Oltre alla capacità di modellare il nostro pensiero per una scalata migliore, di portarlo alla consapevole inconsapevolezza, a mio avviso l’aspetto motivazionale è ancor più importante. Per migliorarsi, non basta ripetere gesti all’infinito al fine di renderli perfetti, cosa comunque necessaria, ma è anche necessario sviluppare tutti gli aspetti più strettamente motivazionali. In questo senso ci sono persone, non necessariamente scalatori, gente del mondo dello sport oppure anche disabili che hanno scritto e proposto esperienze estremamente interessanti. Se non si affronta l’aspetto motivazionale non si capisce come mai, per fare un esempio banale sempre in ambito sportivo, nel 1999 il Manchester vinse sul Bayern in finale di Coppa Campioni trovandosi sotto di un gol al 90′ e facendone due nei tre minuti di recupero….
In ultimo, visto che ho letto quà e là, che a volte chi si allena può sembrare un condanato ad una pena carceraria e che allenarsi può sembrare solo una noia, beh io mi sono sempre divertito moltissimo, ho sempre avuto il problema opposto e cioè rispettare, almeno ogni tanto, qualche giorno di riposo. La soddisfazione di migliorare e la gioia di imuoversi, per molti come me, fanno anche dell’allenamento un momento di divertimento che non vive disgiunto o parallelo dall’esperienza emozionale complessiva della scalata ma ne è parte necessaria ed integrante.
Ad ognuno la sua scelta…
Cicli della vita. Mi pare che abbia lui stesso detto nel forum collegato al sito di Uphill Athlete che la sua situazione familiare è cambiata. Al di là del gossip alpinistico privato che non ci interessa, non c’è dubbio che l’amore di una donna/uomo e il sorriso di un bambino possono a volte far riconsiderare le priorità. In ogni caso è bello che ami trasferire quanto ha imparato e che legittimamente si paghi anche le bollette con un onesto lavoro di coach. Non è facile per chi ha vissuto una vita eroica tornare alla quasi normalità. Ci vuole un grande equilibrio. Molti non ce l’hanno fatta.
Mi sembra che House abbia lasciato l’alpinismo estremo. Si sente vecchio o non si sente più di faticare e rischiare?
House è stato un alpinista straordinario. Adesso si è reinventato come allenatore professionale creando una società che offre piani di allenamento anche on-line con un taglio alpinistico più che da falesia. La sua enorme esperienza aggiunge credibilità alla società. Se uno è interessato, molto materiale e video è gratis in internet.
Paolo hai ragione: l’esperienza ha due aspetti, uno ambientale e uno psicomotorio. È a questo secondo che credo si riferisca Jolly quando parla di ripetizione : costruzione di un solido repertorio psicomotorio specifico che il tuo cervello applica quando deve risolvere un passaggio: è la famosa legge delle 10.000 ore che vale per diverse abilità e a cui fa riferimento anche Benassi quando parla dei 40 anni di esercizio continuo. Chiaramente se uno vuole fare un salto significativo tecnico o di resistenza, ovviamente se gli interessa, deve introdurre schemi nuovi e il ciclo dell’apprendimento ricomincia, anche se l’accumulo precedente non viene cancellato.
Mi diverte che House e Lamberti siano messi insieme con il titolo di scrittori di bibbie per climber.
Per citare solo qualcosa: House ha salito una nuova via di 4.500 metri sul versante Rupal del Nanga in due in stile alpino in una settimana fra su e giù e Lamberti in Francia si è costretto a un mese di dieta per ripetere lavorandolo un tiro di 9a.
Un tempo sui 100 c’era Borzov, quasi solo costruito, poi è venuto Bolt, quasi solo naturale (quasi è però poco quasi).
E’ il bello dell’Uomo che si dedica a qualcosa che lo affascina.
“Alberto, tieni alta la bandiera!”
P.S. Lo dissero pure a Casarotto in un memorabile incontro Inghilterra-Italia sulle falesie inglesi. La frase è passata alla storia; fra un po’ sarà citata nei testi di storia dell’alpinismo. Insomma, piú o meno come “qui si fa l’Italia o si muore!”. 😂😂😂
Aggiungersi anche qualcosa di cui non si è parlato con chiarezza: esperienza.
L’allenamento ha una sua importanza, se collimato ad una propria dimensione d’esperienza, di sé stessi e rispetto al tipo di obiettivo.
Mi alleno in modi diversi a seconda di quel che ho intenzione di fare e di dove voglio andare. Tengo conto del tenore di vita fatto fino alla progettazione della mia destinazione e adotto o meno misure fisiche prudenziali. Se ho anche quelle mentali adeguate lo scopro quando sono lì.
Ma in base all’esperienza oggi so cosa mi aspetta se vado sul Miage o sulla Brenva, se su un misto con passaggi di V, o su una parete attrezzata.
Prepararmi o meno è legato al mio buon senso, a come mi sento, al mio vissuto.
Insomma non è solo un elemento tecnico.
Fabio non ho detto questo. Dico che non mi interessano gli aspetti scentifici e metodici.
Il Monaco mi direbbe ” ma come fai a dire che non ti alleni dal momento che vai in montagna da 40 anni tutti i fine settimana?”
Ma è la verità, allenarsi per me è palloso. Sicuramente allenadosi si farebbe di più e meglio , ma l’aspetto palloso dell’allenamento prevale sulla ricerca dei risultati.
Mi allineo con quanto espresso da Benassi. Per me andare in montagna è qualcosa di più che praticare uno sport, per me è un viaggio della mente e dell’anima, più che mettere una mano davanti all’altra sulla roccia: quest’ultimo aspetto è solo un meccanismo attraverso il quale riesco a compiere il viaggio “immateriale”.
Tuttavia è ovvio che se si vogliono raggiungere alte prestazioni è inevitabile allenarsi. E’ quindi comprensibile che uno spazio di informazione e dibattito sulla montagna preveda anche l’esposizione di tali tesi.
Insomma, qualcuno di voi scrive che, in sostanza, si è sdraiato sul prato a contemplare le nuvole. Lo diceva pure il povero Gianni Comino.
Per me non la raccontate giusta. 😅😅😅
Ognuno giustamente fa quello che si sente di fare. Lamberti e House sono climber e allenatori professionisti. I loro libri sono delle vere e proprie enciclopedie con pagine e pagine di bibliografia scientifica e si rivolgono ad un pubblico che vuole progredire, anche se non professionista. Io lotto contro la decadenza e voglio divertirmi possibilmente senza farmi male, me ne guardo bene dall’applicare programmi che sono totalmente fuori dalla mia portata e dalle mie motivazioni, ma in quello che scrivono ci trovo qualche pillola che può essere utile per non fare errori che più si va avanti più si pagano cari con frustranti periodi di recupero.
io non mi sono mai allenato, almeno con metodo. Mi è sempre saputo fatica. E mi son sempre detto sei nato allenato.
Il mio allenamento se così si può chimare, è sempre stato , andando ad arrampicare, quando ne avevo voglia e se avevo tempo. Quindi la mia attività è stata ricreativa invece che sportiva. Ma va bene così perchè l’ho sempre vista come un divertimento e non come un’imposizione, che se anche personale sempre imposizione era.
Sono d’accordo con quanto scrive Paolo Cucchi.
Magari è un paragone esagerato, ma a volte mi sembra che si faccia come in economia: crescita, crescita, e solo crescita.
Tutti vogliono esagerare, sopraffare, superare se stessi con la forza è una quotidianità artefatta, preferisco aprire un alternativa dove riflettere l’interiorità per recuperare l’animale che si nasconde dentro di me.
Il mio commento si riferiva a Benassi non a quanto detto da Merlo, che aprirebbe un’altra discussione, non relativa alla prestazione dell’arrampicata.
Appunto. Lo sport e la prestazione sportiva sono una cosa, l’attività ricreativa a vari livelli un’altra. Motivazioni e approcci diversi. E’ vero però che se vuoi alzare il livello anche della ricreazione devi allenarti e allora se non vuoi farti male o buttare il tempo devi ispirarti alle tecniche messe a punto dai vari Jolli. Quanto contino il talento e le caratteristiche psico-fisiche nella prestazione è un tema controverso, su cui c’è una discussione aperta anche tra i professionisti dell’allenamento, a quanto ne so io. Non se c’entrino o no, cosa indubitabile, ma sul peso relativo e sulla possibilità di compensarle con la disciplina e la tenacia.
Introspezione e riflessione non c’entrano citati in quel modo.
Quello che gli uomini hanno fatto senza alcuna conoscenza cosiddetta scientifica – meglio dire tecnica – è ben superiore all’8c.
e se dell’ 8c non ci frega una mazza e, si va a scalare quando e come si può, sei libero ci vai di più, non sei libero ci vai di meno.
A questo punto è l’introspezione e la riflessione e magari il talento che fanno la differenza ?
Molto condivisibile. Ma nessuna novita’, Jolly lo va dicendo da anni, e nel modo lucido e ‘perfettamente sul punto’, che lo contraddistingue. L’aspetto piu’ credibile e’ proprio l’avere identificato ( e in un certo senso arginato ) l’ambito dove l’approccio ‘inconsapevole’ non e’ solo un’opzione, ma e’ necessario per il miglioramento. Al contrario di quanto pensa Merlo, gli studi scientifici consentono a Jolly di capire di cosa sta parlando, evitando di sbracare in vacui discorsi da sciamano.
Il metodo Jollypower di Lamberti o la recente Bibbia americana “Training for the Uphill Athlete” di Steve House si fondano su una approfondita conoscenza del corpo umano e del suo funzionamento applicata all’arrampicata e agli sport della montagna, poi in ognuno c’è anche un capitolo sulla dimensione mentale della prestazione, ma c’è tanto chimica e fisiologia. Non si arrampica sull’ 8c solo con l’introspezione e la riflessione.
Non serve la scienza per riconoscere le doti umani che il qui ed ora permette di liberare.
E se la si vuole trovare è in fondo al treno che va cercata.
Il concetto espresso qui vale anche in altri campi. L’allenamento scientifico e sistematico porta a quella che viene chiamata “competenza inconsapevole” caratteristica di coloro che producono prestazioni eccezionali. E’ proprio la cosiddetta “pratica disciplinata” che distingue uno sport da un’attività ricreativa. Ormai anche nell’arrampicata le tecniche sistematiche di allenamento hanno raggiunto un livello di sofisticazione paragonabile a quello di altri sport, come dimostrano gli stessi libri di Lamberti, e hanno permesso il raggiungimento di livelli che qualcuno pensa quasi vicini al limite fisiologico, come nella maratona, ma non si può mai dire. Sotto c’è molta conoscenza scientifica delle componenti bio-meccaniche del gesto atletico e degli effetti delle ripetizioni e dei cicli di allenamento a cui si aggiunge spesso una spolverata di oriente prorio per la dimensione di rigore e di disciplina di alcune pratiche che lì sono state coltivate per secoli.
Deduco che consapevole = brocco e inconsapevole = bravo ?Quindi il brocco può diventare bravo e il bravo può diventare brocco ?
Solo disciplina.
Consiglio di leggere lo scritto di Beat Kammerlander su UP numero 6.
Come non essere d’accordo? Si sente l’influenza (positiva) sull’ambiente romano di Ingaku Taino (Luigi Mario), e le contrapposizioni tra i suoi protagonisti dell’arrampicata . So che i romani sanno…