Daniele Caneparo
di Maurizio Oviglia
(pubblicato su planetmountain.com il 9 dicembre 2019)
Tutte le fotografie sono di Maurizio Oviglia
Daniele Caneparo, 55 anni, medico e alpinista di Torino, si è avviato con gli sci sui monti di Champorcher (Valle d’Aosta) sabato 24 novembre sotto una forte nevicata. Era solo, come in buona parte delle sue uscite.
Di lui si sono perse le tracce e vani sono state gli sforzi del Soccorso Alpino, che ha ritrovato la sua auto alla località di partenza, ma che dopo alcuni giorni ha abbandonato le ricerche del disperso.
Daniele Caneparo era un forte alpinista con una fibra fuori dal comune. Già giovanissimo, meno di 15 anni, ha conosciuto l’alta montagna in condizioni estreme perdendo il compagno sulla Est del Monte Bianco e riuscendo a venirne fuori illeso. Daniele si era guadagnato così la fama di enfant terrible o maudit secondo alcuni. In realtà era un solitario per vocazione, con un rapporto molto particolare con la montagna, oserei dire quasi simbiotico. Aveva bisogno di spingere il suo fisico al limite, qualsiasi cosa facesse, dall’alpinismo all’arrampicata sportiva, dalla bicicletta allo sci alpinismo. Diverse volte se la cavò sul filo di lana, riuscì persino a rimettersi sugli sci durante una caduta sulla Nord del Monviso a causa di una placca di ghiaccio. Le sue salite sono innumerevoli, sia su ghiaccio, che su roccia, come anche di sci ripido (diverse nord con gli sci al suo attivo), così come le sue esplorazioni nei luoghi più remoti delle Alpi Occidentali.
Altresì è stato un personaggio chiave nella storia della Valle dell’Orco e del Vallone di Sea, quella della generazione successiva al Nuovo Mattino. Ha scoperto e salito moltissime vie in fessura (era eccellente fessurista, suo uno degli articoli per il mensile Alp, uno dei primi a questo riguardo) e forse l’apice l’ha toccato con l’apertura in Vallone di Sea di Così Parlò Zarathustra (1983), liberata di recente da Jacopo Larcher e Paolo Marazzi. Per sua stessa convinzione questa via segnò un passo avanti nell’alpinismo piemontese: niente di così difficile in termini di apertura era stato fatto sino a quel momento. Fu anche primo ripetitore delle più difficili vie di Michel Piola sulle Aiguilles de Chamonix, con aderenza sino al 7b e obbligatorio di 7a (1983).
Daniele è stato il mio primo vero compagno di cordata. Dal 1983 al 1986 insieme abbiamo fatto di tutto: prime invernali, prime ripetizioni, nuove vie dal Gran Paradiso al Monte Bianco. In Valle dell’Orco e in Vallone di Sea abbiamo ripetuto tutte le più difficili vie di allora e ne abbiamo aperte di nuove. Arrampicavamo insieme ovunque ci fosse qualcosa di difficile da salire. Daniele era un naturale leader senza la volontà di esserlo, preferiva essere un trascinatore e un appassionato esploratore di nuovi terreni. Tuttavia la sua modestia e il suo carattere schivo non gli permettevano di pubblicare se non le prime salite. In realtà aveva al suo attivo innumerevoli solitarie, come il Pilone del Frêney ad esempio.
Nel 1986 la nostra avventura più estrema che ci portò ad allontanarci, l’apertura di una cascata (che si rivelò già essere stata salita da Gian Carlo Grassi una settimana prima) molto difficile in Valle dell’Orco. Avevamo poco più di 20 anni, eravamo senza soldi e con attrezzatura (alquanto) approssimativa. Con tutti gli indumenti bagnati e dopo ore di ghiaccio verticale ne uscimmo a notte facendo le doppie su rami di cespugli con la frontale, alla cieca, su salti di roccia che non conoscevamo. Ci salvammo, ma quel giorno decisi che Daniele era davvero troppo per me, a mio parere stavamo raggiungendo un limite di rischio che non ero più disposto ad accettare. Non solo non mi legai più alla sua corda ma abbandonai anche l’arrampicata estrema su ghiaccio.
Contrariamente a quello che mi aspettavo, Daniele continuò a scrivermi e a starmi vicino, con l’affetto di un compagno con cui si era stabilito un solido rapporto interiore, al di là degli screzi. Conservo numerose sue lettere, a volte geniali e a tratti deliranti di passione: ci eravamo visti anche non più di un mese fa. In una birreria del centro di Torino, mi aveva raccontato con eccitazione delle sue nuove avventure solitarie, per esempio partire da solo con zaini allucinanti con pure una canoa gonfiabile appresso. Traversava laghi alpini a ore dal fondovalle, era capace di vivere la montagna in perfetta solitudine, probabilmente solo in questa condizione si sentiva veramente libero. Nella sua professione di neurologo, i colleghi lo ricordano come una persona di straordinaria umanità.
Caro Daniele, dovunque tu sia, grazie per quei giorni lontani e del privilegio di poterli oggi raccontare…
“Io penso che l’alpinismo sia il luogo dell’irragionevole e che l’irragionevole abbia un valore sociale. L’acte gratuit degli esistenzialisti francesi è un atto irragionevole, ma è anche l’unico atto libero che l’uomo possa compiere (da una lettera inviatami da Daniele Caneparo)”.
Pichenibule con Daniele
di Maurizio Oviglia
(dal profilo fb di Maurizio Oviglia, 31 dicembre 2019)
In queste ore non posso fare a meno di ricordare i giorni di Natale dl 1983 con Daniele, un amico scomparso letteralmente nel nulla solo un mese fa.
Già di per sé andare a Natale in Verdon non era ai tempi cosa molto usuale. In campeggio, poi, avrebbe aggiunto un po’ di pepe a tutta l’avventura. Per l’occasione reclutammo un ragazzino quindicenne che avevamo conosciuto a Foresto. Andrea viveva a Bussoleno, a due passi da Foresto, e su quella parete ci era cresciuto. Era soprannominato Conan per la sua forza; era infatti capace di trazionare su un braccio (la cosa allora faceva molta sensazione), e credo per i lineamenti leggermente orientali del suo viso. In ogni caso l’obiettivo principale della nostra spedizione non era conoscerci e stare insieme in vacanza ma ripetere la mitica via Pichenibule, che già aveva respinto Daniele una volta. Una delle battute che ripeteva spesso, chiudendola con una sonora risata, era questa: “quando si bagna anche la carta da culo, sei proprio nella merda”. In realtà la battuta derivava appunto dalla sua precedente esperienza su Pichenibule quando era stato sorpreso dal buio sotto il famoso bombé. Nella notte, non sapendo cosa fare, si era messo a gridare verso l’alto “fixe a rope, because we are in the sheet!”. Miracolosamente qualcuno dal bordo lo aveva sentito e aveva buttato giù una corda, evitandogli di passare la notte appeso. Però la via non era fatta e Daniele non era riuscito a sopportare a lungo il peso della vergogna senza riprovarci.
Questa volta però aveva attentamente pianificato il nostro tentativo. I tiri mi pare fossero 10 (oggi dopo la richiodatura sono di meno) e le ore di luce assai poche, essendo Natale: come è noto, da Pichenibule non puoi scendere ma solo salire. Lì, oltre la difficoltà, stava l’impegno estremo della via che allora non era proprio una passeggiata di salute riservata a tutti. Conan avrebbe potuto provare a fare qualche tiro da primo, quelli più facili, lui avrebbe fatto tutti gli altri, a me toccava il più duro. Che non era il bombé, che a parte Berhault tutti facevano in artificiale, ma due tiri sotto, un terribile e lungo tiro con infiniti tratti sprotetti. Accettammo il piano di Daniele inconsciamente e incoscientemente, come al solito. Il primo giorno avevamo fatto Mangoustine Scathopage e avevamo potuto accertare che il nostro livello ci permetteva un 6a/6a+ risicato. Non so quanto fosse di obbligatorio allora Pichenibule (i local continuamente toglievano chiodi e si divertivano così con gli stranieri), ma di certo puntavamo tutto in una sola mano come alla roulette russa… Di notte il telo della mia tenda da supermercato dozzinale divenne una lastra di ghiaccio e ci svegliammo intorpiditi. Dopo una frugale colazione nella mia macchina con il motore acceso, ci calammo al giardino attacco della via. Pichenibule, una delle vie allora più famose del mondo, iniziava qui e proseguiva in traverso sopra paurosi strapiombi, sospesa a 150 metri dal fiume. Conan si comportò bene e fece qualche tiro da primo, anche un breve traverso con passo di 6b. Aveva la stoffa, come suo fratello Sergio del resto, con cui formava una coppia di ragazzini terribili. Si diceva che una volta avevano portato a scalare il padre a Foresto e che questo fosse precipitato per errore. Insomma l’avevano quasi fatto fuori ma era comunque miracolosamente sopravvissuto, giusto per cantargliele di santa ragione. Con un paio di anni in più, io e Daniele avremo dovuto forse fare da educatori a quei ragazzi. Ma ce ne infischiavamo del tutto: ognuno per sé, ognuno faceva quel che voleva e decideva della sua vita.
Insomma arrivò il mio tiro e sentii l’ansia salirmi nel petto. Ci scambiammo le corde in silenzio, partii. Sino ad allora avevo arrampicato bene, leggero, non mi ero risparmiato e mi ero persino divertito. Ma un po’ di stanchezza nelle braccia cominciavo a sentirla. Girai lo spigolo e persi di vista i compagni in sosta. Sotto di me percepivo il vuoto che cominciava a farsi tremendo. Da un chiodo mi alzai verso il successivo, che distava quasi dieci metri. Un mare di calcare a buchi svasi, che mi parevano tutti ugualmente intenibili, mi separava a esso. Progredivo a minuscoli passi, mentre la paura divenne ben presto panico alla consapevolezza che non sarei potuto tornare indietro. Sopra di me il chiodo della salvezza, da cui pendeva una consunta fettuccina gialla, sembrava ancora irraggiungibile. Ero paralizzato dal terrore di precipitare 15, 20 metri sul chiodo sotto ma sapevo che dovevo fare qualcosa e reagire alla paralisi. Era la prima grande prova di coraggio della mia vita, potevo tentare una disperata ritirata e fare un volo forse meno lungo o provarci. Ma dovevo decidere subito. Bloccai con la sinistra su un buco svasato, con i sensi percepivo la gomma piegata delle suole pronta a scivolare nelle svasature verticali. Mi allungai allo spasimo e raggiunsi la fettuccia, riuscii ad infilarci la punta dell’anulare dentro. In quell’istante, i piedi scivolarono.
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Daniele, ciao…
Il corpo di Daniele Caneparo è stato recuperato ieri, 24 giugno.
Pace alla sua anima.
E ora, che sono passati tanti anni, che cosa resta di quei giorni felici? I ricordi in chi rimane?
Ma poi svaniranno pure quelli. Come lacrime nella pioggia.
su questo Fabio concordo con te, non tanto per quantità e qualità delle realizzazioni ma sopratutto per la spensieratezza.
La maturità e l’esperienza sicuramente no. Sono attributi che ti fai strada facendo…anche rischiando.
La capacità (tecnica) forse si.
con questa frase non mi riferivo solo all’altima uscita da dove non è ritornato, ma alla sua intera vita alpinistica.
Alberto, non mi riferivo alla gita in cui il povero Caneparo ha trovato la morte – quel giorno potrebbe essersi trattato solo di sfortuna – ma ai tanti rischi elevatissimi che si è preso da giovane e che ci sono stati descritti nell’articolo e in qualche commento di chi lo conobbe a quei tempi.
A meno di quindici anni scalò il versante est del Monte Bianco, cioè la Brenva. Ne aveva la maturità? l’esperienza? la capacità? Ognuno è libero – e responsabile – delle proprie scelte, ma non a quell’età!
Detto questo, mi è dispiaciuto molto per la sua morte. Avevo letto spesso di lui durante i suoi anni migliori e lo consideravo mosso, come del resto tanti altri di quella generazione, dalla mia stessa passione di avventura e di libertà. Quando scompare uno cosí mi dispiace sempre, molto piú che con altri: lo sentivo come uno della “banda” di sognatori di quei favolosi anni Ottanta.
Ne vale veramente la pena lavorare come schiavi una vita, accumulare soldi, beni, magari trascurando passioni e rapporti umani, per poi comunque morire. Perchè è questa la conclusione.
Magari tra mille comodità, in un letto d’oro…ma sempre morire devi.
Non conoscevo Caneparo, ma non credo che volesse morire quando ha intrapreso quella gita da dove non è ritornato. Magari aveva solo bisogno di vivere intesamente piu di altri.
Purtroppo, in alpinismo, a volte si assume un tasso di rischio elevatissimo. Fermo restando che ciascuno è libero di decidere della propria vita, ne vale davvero la pena?
Bello scritto, intriso di amicizia, tristezza e anche speranza.
Dino Marini
Grandissimo…ha lavorato da me al rif. Gastaldi aveva 16 anni e come riconpensa aveva chiesto in giorno alla settimana libero per poter arrampicare…tutto detto!!!
Con lui ho salito la ovest allo Chalanson concatenandolo alla nord della piccola Ciamarella e voleva ancora fare la mord della Ciamarella…ma io gli dissi…per me oggi BASTA.
Infelice, folle, indistruttibile, creativo, poco tecnico, solitario, macchina da guerra, sfidante tutto, pericoloso, geniale?
Per me un uomo notevole e incontenibile.
Ho arrampicato spesso con Daniele nel periodo immediatamente precedente a quello indicato da Maurizio. Avevamo entrambi un carattere abbastanza introverso che nel tempo io sono poi riuscito a smussare ma non ad eliminare del tutto. Daniele aveva una passione bruciante e “un’ansia da salita” che lo portava ad assumersi anche rischi non indifferenti o cercare salite ben oltre il nostro livello tecnico dell’epoca. Nel 1980, credo, andammo a salire il Diedro del Mistero al Sergent. Il nostro livello del tempo era un 5c arruffato e Danile sul tiro del diedro non riusciva a passare. A un certo punto ci raggiunsero molto velocemente Marco Bernardi con Massimo Demichela e credo Franco Salino o Renzo Luzi, non rammento bene. Bernardi ci chiese con grande educazione e signorilità se potevano passare avanti. Vedere l’eleganza di Bernardi fu insieme stupefacente e demotivante. Ci calammo. Subito dopo, alla base della Fessura della Disperazione Bernardi ci chiese se volevamo fare la Fessura. Io declinai, demotivato e intimidito dal fatto che mi rendevo conto di non avere il livello adeguato. Daniele accettò con entusiasmo come nulla fosse successo.
Dopo un po’ le nostre strade si divisero. Lo reincontrai, assieme ad altri, nel vallone di Sea qualche anno dopo Lui aveva fatto un balzo enorme nelle capacità tecniche ed aveva appena aperto Zarathustra, io ero reduce da un anno di naja che mi aveva disintegrato nella mente e nel corpo.
Pochi anni e molto tempo fa, ma sono ancora legato al suo ricordo e a particolari momenti vissuti insieme.
Ci risentimmo al telefono pochi anni fa, lui andava da solo ad aprire vie in posti estremamente isolati e mi chiese di andare una volta con lui. Accettai ma poi non si fece nulla.
Questa primavera andrò a cercarlo. Per chiudere un cerchio.
Avevo letto la prima parte del racconto scritto da Maurizio quando il suo amico è scomparso, ma non la seconda. Grazie per averle riportate entrambe. Doveva veramente essere un personaggio eccezionale, una figura a cui molti di noi vorrebbero tendere, senza però ambire al finale tragico.