Finale e Carbuta – 1

Metadiario – 113 – Finale e Carbuta – 1 (AG 1983-001)

Con l’inizio del 1983 la mia attività arrampicatoria subisce un sensibile cambiamento. Sempre più spesso trascorro i sabati e le domeniche con gli amici a scalare in falesia, come fosse un appuntamento fisso. Basta incertezze, ravanate per trovare i posti, esplorazioni. Tranne rare eccezioni, diamo preferenza a posti precisi, documentati, descritti nelle guide e, ovviamente, attrezzati. Anche a Finale si è cominciato a dotare di spit le vie più frequentate, per non parlare di quelle nuove.

La Locanda del Rio a Feglino, oggi
Giuliana Scaglioni in vetta al, Palon di Resy, 1 gennaio 1983

Raccontare queste uscite da weekend non avrebbe senso, caro lettore. Sarebbe un elenco di prestazioni, più o meno valide, più o meno ricercate, che con l’alpinismo non avrebbe più nulla a che fare. E nemmeno con il free climbing. E, come se non bastasse, nel mio caso anche molto noioso, perché di certo non ero nella posizione di produrre “exploit” sportivi di un certo peso, ormai appannaggio di gente ben più giovane e preparata di me.

Il passaggio fu graduale, perché comunque ci dedicavamo alle vie alla nostra portata con ogni tanto qualche punta oltre, ma non per l’arrampicata fine a se stessa su queste vie, bensì per poter essere più in forma e preparati per certi itinerari che avevamo ancora in mente, soprattutto nel Verdon e in Dolomiti.

Insomma, eravamo a metà del guado e intendevamo rimanerci…

In salita verso le due cascate del Pinter
Salendo a Punta Garda, val d’Ayas, 23 gennaio 1983, Walter Gandini e Ornella Antonioli

D’altra parte, in un racconto così lungo come Metadiario, fino ad ora completo di tutte le mie uscite facili e difficili, penso sarebbe un peccato troncare di netto. Mi è venuta così l’idea di pubblicare via via una tabella con tutte le vie da me salite, bene o male, con gli appunti originali. Questo elenco-stratagemma permette a me di rispettare la mia sete di precisione (che comunque maschera quanto di più retrivamente egocentrico mi è rimasto) e a voi di saltare a piè pari la lettura, perciò mi sembra un compromesso onorevole.

Volendo comunque raccontare qualcosa in più almeno al riguardo delle cose che mi ricordo di quel primo trimestre del 1983 e che ritengo meno noiose, ecco una breve rassegna.

Per la festività della Befana ero tornato alle Fate Nere con Anne-Lise, ma questa volta c’erano anche gli amici bolognesi Mirko Giorgi e Marco Piva. Andammo tutti assieme a salire quella delle due cascate del Pinter, sopra Champoluc, che l’anno prima avevamo tralasciato con Marco Bernardi. Ci sembrava meno impegnativa e in effetti lo risultò, anche se comunque la lontananza dagli impianti ne faceva e ne fa una salita comunque abbastanza considerevole.

La Cascata della Grand’Hoche (1a ascensione Franco Salino e Renzo Luzi, 1980)
Cascata della Grand’Hoche, Anne-Lise Rochat, 25 gennaio 1983
Cascata della Grand’Hoche, Alessandro Gogna, 25 gennaio 1983

Altra bellissima cascata, la feci con Anne-Lise sulla parete nord della Grand’Hoche, che si vede molto bene in alto a sinistra non appena si imbocca da Oulx la strada per Bardonecchia. Molto elegante, incassata in un canalone roccioso, era abbastanza facilmente raggiungibile dal rifugio Guido Rey, allora servito dagli impianti che partivano de Beaulard. Salimmo solo la parte interessante della cascata, fino alla cengia. Anzi, per questa tornammo comodamente al rifugio Rey, senza neppure sprofondare troppo nella neve.

Per ciò che riguarda Finale, trovai impegnativa la salita della via Payer al Paretone di Pianarella, come pure il Pilier della Concentrazione di Gian Carlo Grassi a Perti. Entrambe non mi riuscirono in libera: ma se per la seconda comunque qualche speranza di ripeterla bene l’avevo, per la prima non c’era proprio trippa per i gatti.

Alessandro Gogna scende dal Colletto di Nana, 29 gennaio 1983
Paolo Rosti sulla via dei Calcagni, Bric Pianarella, 5 febbraio 1983. Sotto, la cordata di Luca Santini e Stefano

Fu un periodo goliardico, finalmente eravamo riusciti a portare allegria, leggerezza, clamore ed esagerazioni in un ambiente, quello “alpinistico” dove ogni eccesso era messo con rigore all’indice. Guarda caso cominciavano anche ad arrampicare parecchie ragazze, in tutta evidenza attirate dal nuovo movimento, cosa che la stragrande parte di loro ben si guardava di fare nei decenni precedenti. Non eravamo certo i soli a far casino, ma il mio gruppo era guardato come tra i più attivi in questo senso. Ricordo che una volta ebbi modo di ascoltare di nascosto quello che Andrea Parodi, più tradizionalista, disse a un amico venendo a sapere di una via nuova che avevamo fatto, sicuramente soffiandola a loro: “Belin, l’hanno fatta Gogna e il suo Circo!”. Immediatamente battezzammo la via, aperta a Monte Cucco, “il Circo”. Che si riferiva a ciò cui loro paragonavano le nostre “pagliacciate”, alla nostra assenza di serietà, e naturalmente sottolineando la “pochezza” di spirito dei miei “gregari”, paragonati a bestie addomesticate.

Metà anni Settanta, Andrea Parodi con gli scarponi rigidi in vetta a Rocca di Perti

I liguri locali, seguendo il carattere della loro proverbiale scontrosità, non interferirono quasi mai con l’invasione degli arrampicatori. Da un anno all’altro e improvvisamente, le viuzze del bellissimo centro storico di Finalborgo si erano trovate gremite, non solo il sabato e la domenica, di focloristiche e colorate frotte di arrampicatori, come anche vi erano stati molti episodi di posteggi selvaggi alla base delle pareti. La mattina tra le 8.30 e le 9.30 al Bar Centrale potevi fare anche venti minuti di coda prima che ti servissero! I forni sfornavano focaccia in quantità industriali, per le vie sentivi parlare un po’ tutte le lingue. In quella schifezza che era la discarica di Monte Cucco, nessuno di noi aveva problemi a “sporcare”, mentre di certo facevamo più attenzione negli altri siti, come Perti o Rocca di Corno, forse i più frequentati. Ci furono alcuni bar e trattorie che con noi fecero la loro fortuna, anche perché la nostra frequentazione andava a integrare perfettamente il turismo balneare estivo. E questo i liguri locali lo videro molto bene, anche se il loro cuore non si ammorbidiva certo di fronte al colore verde delle nostre tasche. Un pagliericcio senza lenzuola né coperte e senza neanche traccia di riscaldamento o di prima colazione poteva costare, anche in pieno inverno, 10.000 lire.

Eccezione a questo comportamento, a Feglino c’era la mitica Locanda del Rio, tenuta da una signora piuttosto corpulenta, che ci voleva davvero bene. Il trattamento era oserei dire amichevole (anche da parte del marito), specialmente considerati gli standard liguri. A Scignôa (la Signora), come da tutti era chiamata, ci accoglieva a fine pomeriggio con porzioni gratuite delle sue appetitosissime focaccine (in genere avanzate dai pantagruelici pranzi che quel luogo gestiva a mezzogiorno con altro genere di frequentatori). Il vino rosso “nostralino” scorreva a fiumi, alla fine della serata eravamo sempre su di giri e il conto non era mai punitivo. In genere a metà cena arrivava anche suo figlio Gianni, da noi chiamato Giannibelin per via del suo fitto intercalare di un “belin” ogni tre o quattro parole. Ce ne raccontava di tutti i colori. In genere io dormivo nel mio furgone Volkswagen verde, i miei compagni in tenda dove capitava (più che altro dove avevano la forza di piantarla a quel punto critico della serata). Qualche volta si usavano due o tre precise grotte con tanto di pavimento di sabbia, ma in genere queste erano terreno di caccia dei tedeschi, o di altri nordici, che le occupavano per settimane intere. Nelle giornate più fredde qualcuno di noi dormiva nella soffitta della Locanda del Rio, regno incontrastato di Giannibelin, tra pagliericci, pungiball e pile altissime di riviste porno. Lì infatti A Scignôa, forse per via delle troppe scale, non metteva mai piede. Del resto Giannibelin un anno aveva vinto il cosiddetto trofeo del Gallo d’Oro, il premio che veniva dato annualmente a quello dei giovani locali che più aveva fatto “conquiste” femminili durante l’estate, cioè che più si era distinto sulle spiagge finalesi e che più aveva tenuto alto il prestigio del maschio locale. Le straniere valevano doppio, nel punteggio.

Purtroppo alla fine di quel periodo ci fu una notizia che non ci fece per nulla piacere: la Locanda del Rio chiudeva. Era tutta sulle spalle della proprietaria, la famosa Scignôa. Il marito era sempre stato defilato, il figlio Gianni non aveva alcuna intenzione di farsi il culo che si faceva la madre, e alla fine vendettero il ristorante, tenendosi invece il resto della casa che oggi è adibito a B&B.

Giovanni Rosti su Yama (Placconata di Rian Cornei, Finale Ligure). 27 febbraio 1983.

Per noi, dispiaciutissimi, fu davvero una notizia pessima, per qualche tempo il nostro “Circo” rimase orfano di una sede che gli fosse adeguata. La cosa dispiacque certamente anche ad Andrea Gallo e soci che avevano appena aperto, nello stesso stabile e dalla parte opposta della Locanda del Rio, il primo negozio di articoli d’arrampicata del Finalese, il mitico Rock Store. Che in seguito si trasferì in pieno centro a Finalborgo.

Drammaticamente ci veniva a mancare una delle motivazioni più importanti, che non era solo quella del bere con gli amici a prezzo modico. C’era tutto il tema, e qui parlo a livello personale, del mio ritrovarmi ligure.

Da tanti anni ormai mancavo da Genova, per non parlare della mia beneamata campagna di Borgomaro in provincia di Imperia. Come ho già raccontato, la vendita della casa della nonna per acquistare una BMW nuova di zecca rosso fiammante era, è e rimarrà uno dei capitoli della mia vita dei quali ho da vergognarmi di più.

Paolo Rosti su Enrico IV a Monte Cucco, prima di togliersi la felpa. 11 marzo 1983.
Paolo Rosti su Enrico IV a Monte Cucco, a felpa tolta. 11 marzo 1983.
L’Osteria della Carbuta oggi. All’esterno, ha cambiato solo nome.

Sentivo che proprio il mio essere ligure si ribellava a quella scelta ed era responsabile della colpa che mi sentivo addosso. E d’altra parte, così tanti anni di distanza mi avevano fornito una visione ben chiara dei difetti che i liguri si portano dietro, beninteso assieme a qualche pregio. Questa visione crudele della condizione ligure (ristrettezza mentale, senso di superiorità, indolenza, parsimonia plateale) faceva a pugni con la mia nuova condizione di cittadino milanese. Ma allo stesso tempo mi raffrontavo con ciò che ero stato purtroppo capace di fare: quella svendita fu un buttare all’aria il forziere dei ricordi, fu sradicarmi nel peggiore dei modi. Ed era questa grande sensazione di disagio che mi spingeva a riallacciare, a trovare in qualcuno di loro liguri quella parte di buono che io per primo avevo tradito. Nella Scignôa avevo visto la forza e la vivacità di mia nonna. Bontà e generosità mascherate da quella dignità ligure che solo poche contadine potevano avere.

Avviammo una frenetica ricerca di un locale che rispondesse alle nostre esigenze: volevamo cordialità, amicizia, rispetto per questi matti di “scalatori”. Volevamo una famiglia ligure. Trovammo sfogo alle nostre esuberanze serali in un’osteria della frazione di Carbuta, che ribattezzammo “la Carbuta”. Anche lì grande simpatia della proprietaria, buona cucina e amicizia. La posizione appartata e fuori mano favoriva due cose: gli eccessi alcolici di gruppo e l’evidente pericolosità dei viaggi di ritorno, su una stradina stretta e piena di curve. Ma anche la Carbuta, quattro o cinque anni dopo, chiuse… Le eravamo sopravvissuti…

21
Finale e Carbuta – 1 ultima modifica: 2022-11-26T05:51:00+01:00 da GognaBlog

39 pensieri su “Finale e Carbuta – 1”

  1. @ 36
     
    Di fronte all’invasione terronica e alla protervia dei polentoni di Milano ????, io dirò:
    “Emiliani di tutta Italia, unitevi!”. 

  2. Mai avrei voluto sollevare questo inutile polverone su razze ed etnie. Ho conoscenze e frequentazioni con persone provenienti da moltissimi luoghi e mai mi sono sognato di farne differenze discriminatorie che non siano quelle personali che ricadono sotto le individuali caratteristiche.
    Se poi vogliamo sottilizzare sull’uso di certi termini, facciamolo pure ma che resti fine a se stesso,  please.
    In vita mia ho vissuto in molti posti diversi tra loro sparsi per l’Italia e il Nordafrica e tra le mie origini ho un tale miscuglio “etnico” da fare girare la testa, quindi figuriamoci se ho intenti razzisti.
    Restano vere le differenze tra i popoli ma solo generalizzando, poi ognuno scelga con chi andare d’accordo.  Totalmente in barba al politicamente corretto, di cui mi frega una beata fava, auguro a tutti una buona festa delle tartarughe d’acqua mista dolce-salata.

  3. Sign. Bertoncelli, punto 6 del post 33,  quindi a suo dire esiste la razza TERRONA e quella POLENTONA? 

  4. Fabio Bertoncelli 33, aspettavo questa precisazione.
    Però : la Costituzione oramai è carta straccia e prossimamente sarà vietato l’… Etnismo! 

  5. GENOVESI sono sapiens italiani che vivono a Genova. punto

    Vivono a Genova da genovesi e non da spezzini che vivono a La Spezia. 
    Effigurati dai Napoletani, Milanesi, Camaioresi, Viareggini, ect.
    Questo per dire: evviva le diversità

  6. Per amor di precisione, per rispetto del significato delle parole, in disprezzo del “politicamente corretto”, senza razzismo:
     
    1) Dal vocabolario Hoepli:
    Specie = 3 BIOL Gruppo sistematico fondamentale nella classificazione degli organismi, costituito da individui che hanno caratteristiche comuni che li distinguono da altri individui facenti parte dello stesso genere, e che sono in grado di incrociarsi tra loro dando prole feconda: la natura offre una grandissima varietà di s. animali.
    ‖ La specie umana, il genere umano.
     
    2) Dal vocabolario Hoepli:
    Razza = 2 ANTROP Gruppo umano contraddistinto da diversi caratteri fisici comuni, in larga misura ereditari: la r. caucasica, mongolicadiscriminazione di r.
     
    3) Dal vocabolario Hoepli:
    Etnia = ETNOL Raggruppamento umano che si contraddistingue per la presenza di caratteri razziali, culturali e linguistici comuni.
     
    4) L’Homo sapiens costituisce una specie e non una razza. A volte, in modo impreciso, si parla di “razza umana”.
     
    5) Di razza parla pure la Costituzione.
    Art3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
     
    6) Infine, se non esistessero le razze, non avrebbe senso parlare di razzismo.
     
    Tutto qui.
     
    P.S. Lo ribadisco: solo per rispetto della lingua. Se non rispettiamo il significato delle parole, alla fine non si capisce piú niente e nascono equivoci: uno dice una cosa e l’altro ne capisce un’altra.

  7. Mi pare abbiate perso il senso del limite etico e morale. Le razze umane non esistono più da quando i sapiens sono diventate l’unica RAZZA UMANA.
    Etnia va riferita ad una comunità di persone che condividono usi, costumi e cultura. 
    GENOVESI sono sapiens italiani che vivono a Genova. punto

  8. Siamo tutti di razza umana ma di diverse etnie. E’ corretto riferirsi alle etnie ed è meglio lasciare stare il concetto di razza. Il DNA dimostra un’unica razza.

  9. Le razze esistono eccome. Negarlo sarebbe inutile e ipocrita. Comunque le città portuali sono sempre state dei calderoni di razze. Da bambino ricordo persone di colore parlare il dialetto genovese come i cinesi che fabbricavano borse in pelle, quando al nord stranieri non ce n’erano. La stessa parola Gabibbo (cabibbu in dialetto) viene dall’arabo Habib che significa straniero. Ricordo anche che quando da ragazzino andai a Londra, lì vidi per la prima volta più miscugli razziali che a Genova. 
    Quando dico genovesi intendo genovesi, perché ci sono, nonostante a molti non piacciano.

  10. Se poi i  genovesi dentro si comportano da genovesi anche quando sono a Milano, in Dolomiti, o in Patagonia, vuol dire che aimè, purtroppo le razze esistono, è inutile nascondercelo. 

  11. Perché, a Genova ci sono ancora i genovesi???
    Ci sono: cinesi, indiani, pakistani, magrebini, neri africani, albanesi, rumeni, sudamericani, forse anche qualche inuit, ma genovesi pochini, forse è rimasto qualcosa in qualche ufficio pubblico, banca, assicurazioni e questi fanno poca differenza se i clienti sono milanesi, romani o palermitani. 
     

  12. 21, non è corretto. Ai genovesi non stanno sui coglioni i milanesi ma questi ultimi si pongono in un modo che si presta ad approfittarne. Un milanese morto di fame (ci sono anche lì) se cala in liguria, automaticamente diventa ricco per come si atteggia e quindi: taac, se lo inculano.
    https://youtu.be/2W7sjjiC6rI

  13. 21, non è corretto. Ai genovesi non stanno sui coglioni i milanesi ma questi ultimi si pongono in un modo che si presta ad approfittarne. Un milanese morto di fame (ci sono anche lì) se cala in liguria, automaticamente diventa ricco per come si atteggia e quindi: taac, se lo inculano. È colpa sua.
    https://youtu.be/2W7sjjiC6rI

  14. Ne vengo da un aperitivo nel centro storico di Genova dov’è pieno di Antica osteria ligure, Vecchia cantina genovese, e via discorrendo. Sono locali che hanno aperto pochi anni fa, eppure hanno questi nomi antichi. Eppure ai genovesi non è mai importato mostrare le loro tradizioni. Custodirle si, ma ostentarle mai. O sono di proprietà cinese oppure c’è stato un cambio epocale dovuto alla sempre più massiccia calata dei milanesi che quando entrano in un locale ligure si mettono da soli a 90 gradi. Logico che poi c’è chi ne approfitta. Se andate in un locale ligure specificate subito che non siete milanesi (anche se lo siete, intanto si vede lontano un kilometro) altrimenti il conto sarà decuplicato sicuramente. 

  15. Per rimanere a Finale ed agli anni ricordati da Cominetti come non citare Mamy avvista e Lang in putrefaction riferiti rispettivamente alle verdoniane Papy on sight e L’ange en decomposition…

  16. Io ricordo la Cascata Bonvin (da Jean-Marc Boivin) e la Cascata Ciucchinel (da Walter Cecchinel). E poi Picchiami sulle bolle a Sperlonga (da Pichenibule in Verdon).
     
    Ci fu anche un tentativo, subito abortito, di Via della Sentinella Beige sul Monte Giovo, nel marzo 1994. Il nome fu proposto durante la salita dal mio amico Pierluigi (scimmiottando la mitica Via della Sentinella Rossa sulla Brenva), ma il Beige, in quanto sacrilego, venne censurato all’istante dal sottoscritto.
     
    P.S. Il beige è il colore del macigno, tipica roccia sedimentaria dell’alto Appennino Settentrionale, dopo decenni di ossidazione all’aria. Invece nelle fratture recenti si presenta di un bel colore grigio, piú scuro del granito della parete ovest del Petit Dru.
    Sono pronto a scommettere che nessuno di voi, dolomitisti assatanati, ha mai arrampicato su quella roccia. Ebbene, sul Gendarme della Nuda, tra Appennino Reggiano e Lunigiana, esiste una via su macigno aperta da Nino Oppio.
    Sí, proprio quel Nino Oppio.

  17. C’è stata un epoca (seconda metà degli ’80) in cui era bello, perché dissacrante, sminuire nomi di vie famose, specie se francesi (aridaje col razzismo, ma vabbè) italianizzandole ironicamente. Ricordo: Pichenibulina, Pilier Pilon, 
    Miss k la pipì…
    Ma la più divertente era una falesia in un piccolo canyon nel monregalese: il Merdon!
    Chissà se esiste ancora?

  18. Fortunatamente i nomi sono poi stati accolti nella Guida dei Monti d’Italia (2003) e ora sono legato a tutti questi itinerari da un profondo affetto. Fanno parte della mia vita!

    Fabio sei un romantico. Di sicuro una qualità che manca alla classifica della coppa del mondo d’arrampicata. 

  19. Per esempio, che pensate della famigerata categoria dei commentatori del GognaBlog?  
     
    bravo Fabio, sei stato piu’ bravo di me, hai usato l’ironia… 
     

  20. cioè veramente?….
    Marcello inquini (perchè Marcello prende l’aereo una volta all’anno?),
    no Marcello non inquini volevo dire altro (il rigiratore di frittate, ben detto Marcello, ma intanto gli hai dato dell’inquinatore… ma perchè non sfoltiamo la popolazione del 99,9% così avremmo ancora meno inquinamento??? eh)
    Si ma parlare di milanesi, genovesi, liguri, campani è PERICOLOSAMENTE vicino al razzismo… cioè … te prego…
    Io non ho parole. Il perfetto stampino dell’uomo tanto caro alle elite tutti uguali e tutti schiavi e manipolati come burattini.
    Ps. Matteo ma perchè non mettere * alla fine di tutte le parole così non facciamo descriminazion* linguistic*, * dat* ch* c* siam* iniziam* a non usar* la Z (oddi* l’h* scritt*!!!!) poi  non usiamo la Y che è razzism* e anche la X. 
    Lo so non dovevo intervenire, il dialogo è tra Marcello e Matteo, ma il livello è andato talmente basso che non ho potuto trattenermi. 
    L’altro giorno vedo un video del Ceo dell’assicurazione Zurich che parla ad una platea di giovani… “eh perchè siete gli attori di questo DRAMMATICO MOMENTO!!” … (intendeva dire che la terra sta per morire… te prego..quando invece la sostanza è … io che comando via argomenti farlocchi vi faccio fare quello che voglio).
    Sta per morire la liberta’, uno stile di vita benestante diffuso per diventare solo prerogativa di pochi (liberta’ e stile di vita benestante) con la scusante farlocca del cambiamento climatico di origine antropica… la gente deve studiare di piu’ sociologia storia ed economia (non solo quella universitaria)… capirebbe meglio che tutte le componenti della societa’ sono in mutazione, sono cicliche e la natura umana non cambia (Pareto bene la rappresenta con l’istinto delle combinazioni (le elite) con la persistenza degli aggregati (il popolo)… per la cronaca se lo piglia in cul* il popolo… sempre). 
     

  21. “In ogni caso dare giudizi per categorie (i milanesi, i genovesi, le guide alpine, ecc.) è sbagliato e pericolosamente vicino al razzismo.”
     
    Per esempio, che pensate della famigerata categoria dei commentatori del GognaBlog?  ???
     

  22. Marcello, non volevo rigirare alcuna frittata, credimi e non volevo accusarti di inquinamento.
    Stavo solo provando a modificare un po’ il tuo ragionamento: non è necessario che un posto sia brutto per desiderare di cambiare, qualche volta.
    Peraltro non per tutti il brutto (o il bello) è lo stesso.
    E con ogni probabilità senza una Milano un genovese non potrebbe vivere come vivi tu.
     
    In ogni caso dare giudizi per categorie (i milanesi, i genovesi, le guide alpine, ecc.) è sbagliato e pericolosamente vicino al razzismo.

  23. Sí, Alberto, per vivere l’avventura non è necessario andare in capo al mondo! Ti confesso che d’inverno molte montagne del mio Appennino (Giovo, Rondinaio, Rondinaio Lombardo, Cima dell’Altaretto, Corno alle Scale, M.Prado, Sassofratto, Alpe di Succiso, M.Alto, Alpe di Vallestrina, M.Scalocchio, ecc.) mi hanno regalato emozioni non molto dissimili a quelle provate sul Monte Bianco o sui Lyskamm.
    Ti confesso pure che, per quanto riguarda la Pietra di Bismantova, nei miei primi anni la consideravo erroneamente solo come una palestra di roccia: cosí mi era stato insegnato dai miei istruttori. Fu soltanto anni dopo che imparai ad apprezzarla per le sue opportunità di vivere belle avventure. In tal modo, con l’interesse rivolto non piú solo alle Dolomiti ma anche alla vecchia e cara Pietra, la frequentai in modo appassionato e potei finalmente salire da capocordata quelle vie che fino allora mi erano precluse (via Oppio, via Zuffa-Ruggiero, via Donato Zeni, via Montipò-Olmi, via dei Bolognesi, via Trebbi-Fogli-Avanzolini, via dei Modenesi, ecc.). 
    … … …
    In conclusione, le vie che proprio non mi piacciono sono quelle con troppa erba o alberi, oppure con chiodi ogni tre metri. Quando incominciai a scalare in Pietra la chiodatura era la metà della metà di quella attuale: si rischiava davvero la vita e il gioco era molto serio. Non mi piacciono neppure gli itinerari troppo corti; la mia mente si è plasmata su un dislivello minimo come quello di Bismantova: cento metri.
     
    Infine, ma non meno importante, detesto i nomi insulsi o triviali. La Signora del Tempo è un nome originale e stupendo. Invece La Signora del Tampax è volgarissimo (tu sai chi la chiamo cosí).
    Sul mio Appennino, nel corso di decenni, ho cercato di fare del mio meglio per denominare alcuni itinerari invernali in modo da accattivare l’interesse dell’alpinista classico: Sperone di Punta Sofia, Sperone Centrale e Canalone dei Bolognesi sulla parete E del Corno alle Scale; Canalone della Forcella e Via della Sentinella sul M.Giovo; Canalone a Zeta e Sperone dei Porci sul M.Prado, ecc. Fortunatamente i nomi sono poi stati accolti nella Guida dei Monti d’Italia (2003) e ora sono legato a tutti questi itinerari da un profondo affetto. Fanno parte della mia vita!

  24. Matteo, abile rigiratore di frittate, vado laggiù perché mi piace ed è il mio lavoro.
    Affronto il tema dell’inquinamento giornsliero in maniera che qui sarebbe lungo spiegare ma credo di inquinare veramente poco rispetto alla media.
    Su Milano e i milanesi purtroppo non riesco a pensare di meglio.

  25. Capisco quello che vuoi dire Fabio e per certi versi mi associo. Ma voglio anche dirti, anche se son certo che lo sai,  che spesso l’avventura è dietro l’angolo di casa. Perchè la differenza è come le fai le cose.

  26. Mi spiego meglio:
     
    1) Dal punto di vista toponomastico, lo Sperone Walker mi suscita suggestioni di cui non è assolutamente capace Convalescent SRL. Le mie parole volevano essere prima di tutto una battuta scherzosa nel paragonare il nome leggendario di Naso di Zmutt a quello di Superpanza.
     
    2) L’alpinismo è per me soprattutto un’avventura dello spirito.
    Il Naso di Zmutt è altro rispetto a un’arrampicata in falesia. Cosí come lo scialpinismo di Marcel Kurz è altro rispetto alle prestazioni sciistiche di Alberto Tomba. Cosí come le traversate oceaniche di Bill Tilmann sono altro rispetto a una regata sportiva.
    Ciò che conta per me è lo spirito. Di fronte alle grandi avventure provo ammirazione (e un poco di invidia); di fronte alla Via Pinco Palla non sento nulla.
    Da adolescente mi innamorai dell’alpinismo grazie anche al fascino dei racconti di Gaston Rébuffat e di Kurt Diemberger. Oggi, probabilmente, leggendo la classifica di Coppa del Mondo di arrampicata rimarrei indifferente e mi indirizzerei verso un’altra attività sportiva.
    N.B. Mi rendo conto, comunque, che le arrampicate dell’epoca di Grillo nulla hanno a che fare con le competizioni attuali. E capisco che ciascuno di noi ha il diritto di fare ciò che gli piace, per lo meno provarci.
     
    3) Per discutere di Hillary e Tenzing o delle aberrazioni attuali sull’Everest non è necessario averne raggiunto la vetta.
     
    Spero di avere chiarito.

  27. Mi unisco alla ammirazione espressa Da Placido M. (commento 4) per Grillo ed i suoi amici, visto che sono fresco reduce da Grimonett (giusto sabato) a Finale, che ho personalmente trovato bella dura (anche perché parecchio consumata… ma a vedere come ci arrampicava su una cordata  di quarantenni svizzeri mi ha tolto qualsiasi alibi), per quanto arrancassi  prudentemente e faticosamente dietro al mio socio assai più abile (per quanto sia un vegliardo coetaneo: eravamo compagni di scuola).  Quanto alla un po’ ambigua osservazione (commento 1) sula diversa caratura  tra il Naso di Zmutt e Superpanza, mi viene da pensare che un valore dell’alpinismo e dell’arrampicata – come della vita –  è la  maturità, che ti permette di continuare ad arrampicare oltre i 60 in relativa sicurezza, su vie attrezzate, scegliendo  degli obiettivi proporzionati alle tue capacità ed al tuo allenamento. Direi che Alessandro Gogna mi sembra un esempio di equilibrio anche sotto questo profilo. 

  28. “Chi dice che Milano è bella mi deve spiegare perché i suoi abitanti appena possono si incolonnano per andarsene.”
    Bella domanda, difficile risposta.
    La ribalterei in: ma tu, vivendo nel posto più bello del mondo, vicino alle montagne più belle e alle più belle pareti del mondo, perché appena puoi vai in una ghiacciaia battuta dai peggio venti dall’altra parte del mondo? Inquinando la terra in una volta sola, peraltro, più di tutti i weekend dell’anno del milanese medio ?

  29. Caro Bertoncelli (commento 1), sulla via della Superpanza non si trovano di certo le condizioni e i pericoli oggettivi dell’alta montagna, tuttavia ti garantisco che, se tu l’avessi ripetuta, avresti solo ammirazione per la visione e la bravura di Grillo, Simonetti e Croci.
    Prima conoscere, poi, eventualmente, sminuire.

  30. Più che degli sfigati direi  che sono dei fanatici del consumismo.
    Quanto ad essere una bella città, i gusti sono gusti.

  31. Le caratteristiche liguri di ristrettezza mentale, senso di superiorità, indolenza, parsimonia plateale, sono dei pregi impagabili di fronte alle peculiarità dei milanesi. Stiamo generalizzando, ovviamente, ma quella spocchia unita alla convinzione autoreferente di essere depositari dell’unico modo giusto di vivere, di sapere tutto dicendolo agli altri assieme a un’ operosità secondo me dannosa, li ho sempre trovati dannatamente insopportabili. Giuro che non esagero ma per me il milanese impersona lo sfigato per eccellenza, salvo rarissime eccezioni. E poi non ho mai capito come si possa vivere in un posto così brutto. Chi dice che Milano è bella mi deve spiegare perché i suoi abitanti appena possono si incolonnano per andarsene. Io associo Milano alla morte, e non esagero. 

  32. Mi domando: “Ma questo Gogna, primo solitario sullo Sperone Walker nel 1968 a 22 anni (!) e primo salitore del Naso di Zmutt a 23 anni (!), perché mai nel 1983 si è dato a Convalescent SRL e a Superpanza?”.
     
    Il perché mi sarà sempre incomprensibile: come decifrare la scrittura cuneiforme. 
     
    P.S. Alessandro, a 22 e 23 anni eri matto?  ???

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.