Nel numero 56 (maggio 1983) della Rivista della Montagna, nella rubrica “il Punto” furono pubblicate tre lettere alla Redazione, tutte a commento dell’articolo Tutto free climbing apparso qualche mese prima (ottobre 1982) su Lo Scarpone, a firma Franco Perlotto.
Queste tre lettere, di Nanni Villani, Andrea Parodi e Gianni Calcagno, costituiscono il corpo di questo nostro secondo post dedicato al free climbing.
Free climbing – 2
Lettera di Nanni Villani
[…] (si ricapitolano i principali punti dell’articolo di Perlotto: vedi XXXXXXXX).
Friend, nut, rurp, magnesite, ecc., sono davvero il «minimo di attrezzatura tecnologicamente avanzata»? «L’élitarismo del quale questa nostra società ha davvero bisogno» è forse quello basato sul muscolo più potente?
Sono solo alcune delle domande che l’articolo di Perlotto induce a porsi su questi temi da dibattere a fondo, visto che viene tirato in ballo a più riprese il fondamentale rapporto uomo (arrampicatore) – natura. L’alpinista veneto, e con lui le sempre più numerose schiere di free climber, hanno davvero saputo creare un rapporto con la natura che non sia di sfruttamento e di conquista? Hanno effettivamente individuato spazi di libertà sconosciuti all’uomo comune, oppresso da una società massificante?
Non saprei proprio, pensando ai sempre più numerosi free climber per i quali il dato più rilevante di una salita è il numero di chiodi non toccati. Qui a Torino si sta creando una stranissima setta: quella dei «Fedelissimi Sportuomo», fantastici arrampicatori per i quali la natura con cui confrontarsi è rappresentata esclusivamente dalle placche e dai camini di cemento della palestra artificiale; qualcuno al massimo è arrivato fino ad un masso erratico, per ricavarne la pessima impressione di passaggi troppo facili. La montagna è un lontano fantasma.
«Se esco da Finale lo faccio per andare in Dolomiti, sulle grandi pareti assolate di 800 o 1000 metri, e non certo per andare in Marittime, dove per fare 200 metri di via mi tocca camminare anche tre, quattro ore». Sono parole di N., dio di Finale, quando gli ho chiesto perché i giovani liguri saltassero la tappa un tempo obbligata delle montagne cuneesi. Ma allora, se un giorno si riterrà utile (magari in concomitanza con elezioni politiche?) innalzare grandi pareti artificiali nei sobborghi delle città, cadrà completamente l’ultimo lato attraente della montagna, la cui struttura rocciosa sembra equivalere (secondo Perlotto) alla natura?
Perlotto grande mistificatore e free climber seguaci di Attila?
Ho conosciuto escursionisti capaci di riconoscere sulla neve la traccia di una lepre variabile da quella di una lepre comune, di portare a spasso comitive di bambini alla scoperta di fiori e animali, di rompersi la testa con impegno feroce sui libri per approfondire la conoscenza dell’ambiente montano; ma ricordo anche poveretti per i quali le lunghe gite a piedi sono solo espedienti per sfuggire alle passeggiate in centro con la moglie la domenica pomeriggio.
Allo stesso modo immagino che ci siano free climber ai quali l’arrampicata permette davvero un contatto più profondo con la natura, ed altri a cui invece interessa solo poter dire di aver salito il cinque e ventiquattro.
Ma più che discutere il livello di destrezza ed armonia raggiunto da Perlotto nell’arrampicata secondo natura, vorrei esprimere delle riserve circa la smania divulgativa del suo scritto.
Penso infatti, forse da egoista, che scoperte e segreti vadano gelosamente custoditi ed espressi a chi ci è più vicino piuttosto che al mondo intero; e senza dimenticare che nel campo delle sensazioni ben difficilmente ciò che è di uno è di tutti.
Al contrario, nell’articolo traspare la pretesa di esprimere le Nuove Regole, di indurre frustrazione in chi (gli alpinisti di vecchio stampo?) certe cose proprio non riesce a capirle.
Dimmi che scarpe porti e ti dirò chi sei: guai a farsi trovare in giro in scarponi, oggi per essere arrampicoso (anzi freeclimberoso) puoi solo calzare scarpette.
A questo punto è doveroso precisare che non ho nulla di personale contro F. Perlotto, ma che l’ho chiamato in causa semplicemente come rappresentante-simbolo di un certo modo di intendere la montagna e l’alpinismo.
Proprio il vicentino è il capo-fila di una giovane generazione di arrampicatori che cerca di «vivere di montagna»: coloro che hanno ingrossato le fila delle guide alpine (puntando ad una professione che poggia su corsi di «Arrampicata Moderna» e di «Salite Estreme su cascate di ghiaccio») e che salgono gli spigoli dei palazzi cittadini per attirare l’attenzione della stampa. Coloro i quali infine scoprono tristemente che per vivere di alpinismo oggi (come d’altronde ieri) bisogna subire il gioco delle sponsorizzazioni, vendendo la propria faccia e le proprie prestazioni alla macchina pubblicitaria. Vediamo così lo stesso Perlotto agghindato come un albero di Natale (proprio dalla testa ai piedi: maglietta… tuta… scarpette…) in una recentissima pubblicità. E anche gli exploit eccezionali e certi articoli «di rottura» si inquadrano in un’indispensabile autoreclamizzazione di se stessi sui mass-media, per poter disporre anche in futuro di adeguati sponsorizzatori.
Non nascondiamoci dietro inutili e falsi moralismi: se si sceglie di vivere di alpinismo (scelta valida o meno: ognuno ha la sua risposta) bisogna soddisfare certi obblighi imposti dalla famigerata «logica consumista» imperante.
Se pensiamo ad altre attività sportive, Borg è sponsorizzato fino alle mutande, Paolo Rossi addirittura fino alle mutande del figlio. Ciò non toglie che nessuno sia obbligato a diventare una vera e propria bandiera del consumismo; esiste anche chi ha deciso, per non farsi stritolare da certi meccanismi, di estraniarsi dal grosso giro.
Bando alle perifrasi: di per sé la scelta di vivere di alpinismo, anche se non dà la sicurezza della maggior parte delle altre professioni, è tanto «alternativa» quanto quella di lavorare in banca. Così come mi sembra una forzatura definire il rapporto con la natura «alternativo» solo perché invece di chiodi si usano blocchetti che non feriscono la roccia, o perché, invece che al mito (giustamente vanificato) della vetta vinta ci si disseta a quello (pur sempre mito) del passaggio estremo superato.
Purtroppo ben altri sono i presupposti per un cambiamento effettivo di mentalità rispetto alla natura e più in generale rispetto alle regole dell’attuale società: per il momento Messner e Perlotto, Gogna e Campanile e anch’io, che non valgo nessuno di questi ma sono pronto a comprare puntualmente quanto mi «consigliano», siamo proprio tutti sulla stessa barca.
O quasi tutti.
Sono convinto che qualcuno abbia già saputo saltare su un canotto e stia certamente remando, nel silenzio…
Lettera di Andrea Parodi
Cara Rivista,
ho letto l’articolo di Franco Perlotto e trovo che sia contraddittorio in più punti. Nell’articolo si dice che la diffusione e l’evoluzione dell’arrampicata libera sono state favorite dal notevole sviluppo tecnologico e poi il «free climbing» stesso viene propagandato come il modo migliore per vivere in armonia con la natura.
Ma natura e sviluppo tecnologico non sono due cose antitetiche?
E poi come fa Perlotto a dire che l’arrampicata non è spettacolo e contemporaneamente ad apparire sulle pagine pubblicitarie delle riviste di montagna? Ma al di là delle contraddizioni, che in fondo sono parte integrante della natura umana, la lettura dell’articolo di Perlotto fa sorgere un dubbio: è proprio vero che le nuove tendenze dell’arrampicata hanno portato ad un maggiore e più genuino contatto con la natura?
Ricordo che quando conobbi Ivan Guerini, quattro anni fa, rimasi immediatamente affascinato dai suoi discorsi sull’armonia nell’arrampicata.
Guerini diceva che bisogna raggiungere l’armonia con la struttura rocciosa e salire sfruttandone le linee naturali, mettendo il minimo di «protezioni», perché fermarsi a chiodare interrompe la continuità dei movimenti e quindi si rischia di spezzare l’armonia.
È un discorso senza dubbio affascinante, ma io penso che sia valido soltanto se applicato realmente alla ricerca dell’armonia. Infatti un discorso simile, corretto di per sé, può facilmente trasformarsi in moda, perdendo in gran parte il suo contenuto vero (la ricerca dell’armonia con l’ambiente) e riducendosi a quella che è la sua esteriorità: cercare di salire utilizzando il minimo di ancoraggi, magari sentendosi tutt’altro che in armonia con la roccia e lottando con la paura di sfracellarsi al suolo, per poi poter dire: «Anch’io sono passato usando un solo chiodo».
Il problema secondo me è questo: cercare di capire le strutture per sfruttarne la naturale conformazione al fine di salire utilizzando esclusivamente mani e piedi, è un’idea stupenda. Così come è bellissimo arrampicare sui massi e provare equilibri sempre più audaci per poi lasciarsi cadere sull’erba. Però la validità di questi discorsi non dipende dal tipo di scarpette che usi o dal fatto di riuscire a superare il 6a o il 7b.
L’arrampicata libera, per tendere ad un migliore rapporto con la natura, deve essere libertà e non ossessione. Certo, a me va benissimo che ci sia gente che lotta tutti i giorni con la roccia con l’unico scopo di arrivare a superare difficoltà incredibili, ma poi non possono venirmi a dire che così facendo cercano il rapporto con la natura.
lo penso che cercare una linea di salita logica studiando la struttura di un masso o di una parete, e anche cercare l’armonia dei movimenti sulla roccia, siano ottime possibilità di «contatto» con la natura.
Ma la massa dei «free climber» cerca veramente l’armonia con l’ambiente naturale? Sono convinto che lo sviluppo dell’arrampicata libera e soprattutto l’allargamento del campo d’azione, che prima era limitato alle alte quote, hanno senza dubbio offerto ottimi spunti per un più completo contatto con la natura.
Sembra però che la maggior parte degli arrampicatori, invece di sviluppare questi spunti in maniera propria ed originale, ponga esclusivamente l’accento sui metodi, facendoli diventare regole rigide e quindi fortemente limitanti. Assistendo al via-vai continuo sulle vie e sui passaggi «di prestigio», quelli che «bisogna aver fatto», (senza resting naturalmente!) viene il sospetto che oggi si «tiri la libera» non tanto per una reale presa di coscienza del rapporto uomo-roccia, ma soltanto perché è di moda farlo.
Se domani tornerà di moda l’arrampicata artificiale, vedremo i profeti del free climbing trasformarsi senza troppi indugi in funamboli dei «rurp» e dei «cliff-hanger»?
Lettera di Gianni Calcagno
Leggendo l’articolo «free climbing» di Franco Perlotto saltano all’occhio alcune considerazioni e alcuni controsensi.
Se per «free climbing» si intende la scalata basata sul movimento in parete con i soli arti, proteggendosi con un minimo di attrezzature artificiali, il «free climbing» è nato molto, molto tempo fa e i seguaci di questa pratica (per non dire i maestri) hanno riempito, negli anni ’30, tutte le Dolomiti (e le Alpi) di magnifiche vie dove ancora oggi si rovesciano migliaia di persone a godere del fascino dell’arrampicata. E non credo che fosse diverso lo spirito degli scalatori di allora che non ricercavano la soddisfazione nel solo raggiungimento della vetta ma trovavano, nella parete e nella difficoltà, il senso del loro operato. Proprio come adesso… più o meno!

La deviazione da questo modo di ragionare c’è stata ed è stata proprio la ricerca della sempre maggior difficoltà che ha portato sulla strada dell’arrampicata artificiale, dove un soverchio uso dei mezzi ha snaturato il rapporto uomo-parete. Agli americani il merito di avere riportato il «treno» sul binario giusto, «treno» che sta trainando centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Ma il successo dell’«arrampicata libera estrema», e con questa parola intendo il portare il proprio corpo là dove sino a ieri non era possibile, è oggi una realtà dovuta in parte alle grosse tecnologie. Scarpette superanatomiche ad alta aderenza, nut, excentric e friend (tutti aggeggi da incastro rapido), moschettoni superleggeri ad apertura extra morbida, corde iperleggere ad alta resistenza, magnesite per migliorare l’aderenza delle dita sulle asperità… tutto ciò permette un’arrampicata più agevole, con un consumo di forze inferiori e quindi con un’efficienza maggiore, questa efficienza consente di affrontare i passaggi con un’ottica diversa e quindi con un ulteriore risparmio di forze, l’allenamento possibile tutto l’anno sulle strutture di fondo valle migliora la prestazione fisica e riduce il dispendio di energie con un rendimento superiore… e così via. Un serpente che si mangia la coda insomma…
Questo sino ad un certo limite ovviamente.
Oltre questo limite, raggiungibile da un grosso numero di addetti ai lavori, ci sono le difficoltà veramente estreme, quelle che sono a portata di pochi, quelle che richiedono una dedizione costante, quasi un culto. Ed il controsenso sta proprio in questo. Per poter vivere una dimensione di libertà e una comunione con la natura come certi «free climber» ce la vogliono proporre, è necessario diventare ginnasti e ballerini, trapezisti e funamboli, attrezzisti e giocolieri. Bisogna arrampicare tutti i giorni con costanza e dedizione e, in un’Italia dove solo pochi fortunati hanno delle rendite colossali da dilapidare, ciò vuoi dire trasformare lo svago in lavoro. Perché migliaia di ragazzi sognano di seguire questa strada è facile da capire. Arrampicare è bello e ti fa sentire bene, padrone di alcuni attimi profondi e spensierati, è come un gioco, il ritorno alla fanciullezza. E poi diciamocelo francamente: arrampicare è facile e su certe difficoltà, col chiodo all’altezza della pancia, è anche facile barare. Togliete lo zaino, alcune ore di marcia su per sentieri e morene, la «noia» del ritorno nella deconcentrazione della sera, togliete il pericolo e la fatica che fa da contorno ad un’arrampicata in montagna e lasciate il movimento puro e sublimato: otterrete una formula di successo. Datele un nome straniero che la possa rivestire di un fascino esotico che parla di giganteschi specchi rocciosi assolati e il gioco è fatto.
Che poi attraverso il «free climbing» si possa scatenare quel processo che apre le porte a sensazioni profonde di un contatto con la natura è pur vero. Ma lo è per quanto ognuno di noi è ricettivo in quel senso.
Personalmente amo l’arrampicata libera e mi sono adattato alla nuova moda dedicando un certo spazio e ottenendo un successo che mi rende felice e conscio di muovermi meglio su certe difficoltà, non amo spingermi oltre certi livelli che invece di aprirmi nuovi orizzonti me ne chiuderebbero di più importanti obbligandomi a «lavorare» con il paraocchi e a percorrere il ramo di una specializzazione che non mi appagherebbe di certo. Come rapporto con la natura e voglia di libertà cerco anche altre soluzioni: una corsa nel bosco, una passeggiata tra gli abeti innevati, una lunga cavalcata su un tagliente innevato sperduto nel blu, la selvaggia bellezza di una parete nord striata di ghiaccio, la vertigine di un «gully» scozzese, la caotica «fioritura» dei cavolfiori andini, l’immensa mole di una parete himalayana o… il semplice slancio di un picco dolomitico. Ed ogni volta che mi trovo in una di queste situazioni non rimpiango di non saper fare il 5.12.
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31. Luciano, significa appropriarsi, monopolizzare parti di pareti su cui altri non potranno disimpegnarsi, se volessero farlo. Non penso di aver messo paletti dopo le mie precedenti considerazioni. Quelli che tu chiami paletti, sono in realtà richiami al diritto di ogni alpinista di disporre di un bene che è di tutti. Una via di centinaia metri chiodata con chiodi a perforazione messi a poca distanza l’uno dall’altro, realizzata da chi non se la sente di aprirla con mezzi tradizionali, per poi godersela non più sulle staffe ma con mani e piedi in totale sicurezza, toglie ad altri la possibilità di cimentarsi su quello che è diventato un bene di una sola persona.
Il tutto certamente no! Insoddisfatto certamente si! Ci sono ancora tante cose da fare. Quindi mi devo sbrigare.
->29 Alla fine, dopo aver predicato bene, non ti sei sottratto a mettere i tuoi paletti su ciò che a tuo parere non è cosa buona. Ma senza entrare nel merito di ciò che ritieni o no rispettabile, ti chiedo solamente cosa intendi esattamente per “non alterare un bene che è di tutti”.
29#Marco o Angelo?grazie.
In preda assoluta di una passione ci si può trovare sordi e ciechi e fare delle deviazioni pericolose dette anche stronzate , bene accorgersi in tempo .
Ignorare il commento 22 del sig.Sartori è una di questi.
Lumignano ha il grande difetto di essere bella e comoda troppo vicina alle portiere dei California…è un dispiacere leggere quanto si può devastare un sito e la sua unicità naturale.
@ 25, 28
La tua escursione letteraria dal 1336 a oggi mi è piaciuta molto. Certamente è tra le cose più belle venute fuori da questo forum. È vero, conoscendo tutte le tappe nel loro susseguirsi si comprende meglio il tutto, e, come tu ci lasci intendere, questo ci protegge dal ritenere che solamente noi abbiamo la verità in mano. Lo vedo anche nella mia vita quotidiana; alcune cose le capisco meglio se guardo a tutta la mia storia. Non so se fra noi ci sia qualcuno che creda che il suo operare sia “il tutto”. Sono certo invece che in questa lunga e non finita epopea dell’alpinismo, purtroppo c’è stato chi l’ha fatto, né penso che tutto sia rispettabile; due cose mi vengono in mente: schiodare le vie a sorpresa senza il parere di altri; riempire le pareti di chiodi a perforazione, con lo scopo di salirle in un secondo momento con mani e piedi in totale sicurezza. Non si tratta di non ferire la montagna, ma di non alterare un bene che è di tutti. Direi che non bisogna disperare di riuscire ad avere almeno alcune idee chiare. Quantomeno un po’ ce la possiamo fare. Io ci sto provando (con molta autocritica) e sono fiducioso.
26#Alberto si! certo e ogni opzione è degna di rispetto.
27#Expo mi fa piacere ti sia piaciuta, volevo essere garbato nel rispondere a quanti vedono solo ciò che fanno (o hanno fatto) come il “tutto” mentre perdono di vista l’insieme.
Hai colto perfettamente! Difficile rispondere , ogni persona decide il valore verso il + o verso il – con un metro e peso sempre differente ,a malapena io vedo il mio e solo quando c è qualche rara schiarita.
Bella metafora !
I tagli successivi aumentano sempre il valore della gemma , o possono anche diminuirlo ?
Antonio, quella pietra, che tanto ci strega, la potremmo chiamare anche “curiosità”. Però non a tutti si manifesta allo stesso modo. Chi ne ha tanta, chi ne ha poca. Chi si accontenta, chi è sempre insoddisfatto.
Provenza1336 circa …un pastorello dona un enorme cristallo che ha ritrovato cercando la solita pecora errabonda e solitaria a tal Francesco interessato a salire dove il ragazzo l’ aveva raccolta.
Era un cristallone gigante da chili molto grezzo ,ci si poteva lavorare su.Con quella salita al Ventoux la prima delle mille faccette si stava levigando dentro la sacca del Petrarca.Da quel di’ ad ogni nuova scoperta e nuovo modo di contatto sui monti una faccetta si leviga.
Passano anni,secoli e la pietra passa di mano in mano ,molti la possiedono e la portano ovunque in giro per il mondo senza sentirne il peso,lo fanno e basta.
Non chiedono spiegazioni al richiamo che da quella pietra arriva contagia fa salire e poi sparisce.
Come un Graal invisibile la pietra nel tempo prende un nome ; Alpinismo.
Non c è periodo , epoca dove qualcuno non la volesse tutta per sé (cosa impossibile)e la continuò a far luccicare con nuove eleganti levigate ben si oltrepassano i 57 tagli classici dei preziosi. Amore e continuità nel passamano del tempo la rendono sempre più bella ,varia e consistente.
Racchiude dentro sé tutto ciò che ogni scalatore vuole vedervi riflesso.
Non sa cosa sia il grado ,la difficoltà.Lei è aliena al sentire umano, insomma è solo una pietra anche se rara.Raccolta nel piano inclinato di un vecchio ghiaione è grata a chi la porta in alto ma non indifferente anche a chi cammina ,esplora e rispetta ed è pronta a regalare un ultima (per ora)faccetta a tutti.
Siamo in suo potere!
Sagge parole. Resto convinto però che l’arrampicata sportiva per come esiste negli ultimi 25 sia veramente destinata a soccombere….o meglio destinata a rimenare ad uso di pochi appassionati……
Palma. Sono d’accordo. Lo scenario è completamente cambiato negli ultimi 25 anni e bisognerebbe esserci dentro fino in fondo per poter descrivere questi cambiamenti e cosa passa per la testa e l’anima dei praticanti di oggi che frequentano le diverse chiese. Nei media montagnardi italiani, ormai praticamente quasi solo online, ben poco si trova in proposito e questo è tipico dell’online. Prevalgono le cronache, le descrizioni di vie e tante belle foto ma si rimane alla superficie e allora uno si fa l’idea che siano superficiali anche le nuove leve. Cosa assolutamente non vera. Se uno legge un po’ di roba straniera e ascolta con attenzione chi incontra se ne può rendere conto. Voglio prendere anch’io un caso limite. Nella palestrona milanese che ogni tanto frequento per nostalgia della vita urbana ho parlato con qualche ragazzino che pratica speed e problem solving come si chiama oggi il Boulder. Praticamente miei nipoti che gentilmente ed educatamente chiacchierano con il nonno curioso che si sforza di ascoltare anche se l’udito, cara signora, non è più quello di una volta. Ben altro che superficiali. Mai farsi ingannare dalle forme. Come per ogni generazione un complesso di paure e speranze, di dilemmi e di sogni, di presunzione e di insicurezza. Così siamo fatti e così ci evolviamo, come uomini e come praticanti di uno dei tanti “giochi” apparentemente inutili e senza senso che caratterizzano la nostra specie.
https://rivistaetnie.com/lumignano-arrampicata-lhabitat-114454/
OT faccio i complimenti a Roberto Pasini perché mi ha fatto “straridere” (vocabolario Newton) con il suo ultimo intervento.
Ci sono sempre stati gli arrampicatori assolutamente incuranti del grado (ma fortissimi…) eppur amanti veramente della Natura quanto un biologo marino (alla Fred Nicole, Manolo, Dean Potter), che anche nella vita di tutti i giorni hanno vissuto nel legno e lontano perfino dall’asfalto), e quelli per cui l’arrampicata era una sfida alla difficoltà e basta. Alleno una Campionessa di Speed, per molti una deriva puramente agonistica del l’arrampicata (ed è vero), che da mesi da sola va a farsi il bagno in torrenti di montagna gelidi, lontano da tutti, dipingendo un acquarello l’intorno. E’ molto sponsorizzata ma ha un approccio alla natura quasi preistorico. Etichettare e’ sempre un po’ a rischio paradosso e il paradosso rivela debolezze nel pensiero. Oggi l’arrampicata è una disciplina che spazia da Honnold a Tony Roberts, da Samuel Watson che parla mille lingue e adora scacchi e filosofia a Jania Garnbret che è una delle più forti donne mai apparse nella storia dello sport in generale. E’ una disciplina paragonabile solo all’apnea, al surf, allo sci, dove esistono le medaglie olimpiche accanto a prestazioni solitarie che flirtano con il morire. La trovo super cambiata già solo dal 2005 ad oggi, da OGNI punto di vista. Honnold nel 2005 era più selvaggio di un puma, oggi alterna identici momenti wild al ruolo di commentatore della coppa del mondo. Lo trovo fantastico
@ 19
Non direi, visto che siamo stati invitati a discutere su un articolo del 1982, i cui contenuti sono risultati cosi rilevanti da avere conseguenze ancora oggi sull’operato e il pensiero di chi pratica alpinismo e arrampicata. La connotazione politica degli schieramenti può essere scemata, non del tutto però, ci si può documentare al riguardo, sostituita comunque da altre connotazioni che non mancano di creare contrapposizioni. Viviamo ancora le conseguenze di quei tempi. Altrimenti, perché aprire questo articolo con quella immagine, alquanto eloquente, di Perlotto? I concetti di sfruttamento, conquista, libertà, oppressione, società massificante, hanno una origine ben precisa, riassunta nel volto di Franco Perlotto. Chiaramente i tempi stanno cambiando, ma si danno nomi nuovi a cose antiche, perché i processi, per quanto veloci, sono pur sempre elaborati dalla nostra interiorità. Permane, come si evince dai commenti a questo articolo, un contraddittorio antico tra gli arrampicatori moderni e gli alpinisti classici, contraddittorio che ha poi trovato e trova nuova linfa, all’interno delle nuove tendenze dell’arrampicata. Buonanotte a te. Adesso, peraltro, devo proprio dormire.
Angelo. Quel conflitto è roba di mezzo secolo fa, un pezzo di antiquariato. Morta e sepolta se non la tirasse fuori ogni tanto da sotto la polvere qualcuno che c’era. Appena crepiamo tutti noi baby boomer, non manca molto, verrà consegnato definitivamente alla solerzia roditrice dei topi di biblioteca. Lo scenario e i dilemmi contemporanei sono di tutt’altro genere. Buona notte.
@ 17 antoniomeru
Penso che siano esistiti ed esistano falsi problemi. Nel mondo dell’alpinismo non sembrano aver spazio regole e vincoli, molte discussioni filosofiche e di valore si, invece, ma non limitazioni appunto. Il falso problema per eccellenza è ideologizzare l’alpinismo, contrapponendo il nuovo all’antico e viceversa, stando in lotta tra loro passatisti e innovatori senza radici, ognuno affermando di essere nel giusto solco dell’alpinismo e dell’arrampicata. Non si negano i benefici scaturiti dai cambiamenti degli Anni Ottanta, ma si può criticare l’impostazione ideologica del movimento, così come è criticabile la chiusura dei tradizionalisti (meglio passatisti) i quali, peraltro, si saranno ancor più trincerati nel loro pensiero per la connotazione anche politica ed anarchica del nuovo modo di praticare l’arrampicata; basti pensare ai nomi provocatori e anche dissacranti dati alle nuove vie. K2 e nazionalismo, arrampicata e comunismo: cosa cambia? In realtà, si dovrebbero rispettare gli altri pur se non se ne condividono le scelte e dialogare, traendo il meglio gli uni dagli altri per una vera maturazione. Ma, come si sa, si passa da un eccesso all’altro. Quello che non capisco è perché non si possa essere se stessi senza andare contro i propri simili, fare con eccellenza e modestia il proprio mestiere. Soldi, visibilità, fama fanno il resto. Esiste anche uno snobismo degli alpinisti nei confronti degli escursionisti, i quali non hanno minori valori e sentimenti degli altri colleghi a volte più arditi. So che sto per dire qualcosa per cui potrei essere ‘lapidato’: per me, fare escursioni e scalare non sono cose separate in una dicotomia aberrante. Alpinismo per me è l’andare per monti, che faccia una camminata o salga una parete. Come potrei dire di essere escursionista fino all’attacco della Gervasutti al Gra Sasso e poi, una volta sulla via, tornare alpinista e, in fine, ritrovarmi escursionista sul sentiero di ritorno? Direi di lasciare a valle i falsi problemi e di essere veramente liberi in montagna.
Penso che il corpo(umano) appeso nello spazioparetale si muova con una spinta verso l alto tanto più si tolga rigidità e peso al pensiero sia col progredire dei nuovi materiali come di fatto avviene e sempre avverra’ FRATTO tutto il precedente passato alpinistico. Regoletta buona per il singolo ,ma il mondo che gira in montagna perché si evolve e sviluppa? Boh!
La prerogativa del periodo e il cambio di paradigma avvenne per un uscita dai binari(in Italia un po tardiva)della tradizione dogmatica regnante e stagnante nel mondo della montagna con un deragliamento lento e che come dice Pasini dai molti risvolti .Prima qualche cane un po più sciolto c’era, ogni epoca ha avuto il suo ma il mucchio era poco selvaggio, numeri non sufficienti per la propulsione e cambiamenti sostanziali ed epocali.
E qui arriva in scena Perlotto che oltre che comparire in mute fotosponsor parla, spiega ,divulga un modo e un mondo anarchico che tuttora è separato ,unico;la tribù sa d’esserlo ed è numerosa.
Perche non condividerlo?
Apriti cielo e da lì i dibattiti…Infiniti.
La RI-strutturazione non ha dovere di date d inizio e tantomeno fine lavori,è sempre ben viva da quando si va’ per monti ,da sempre.
Qualcuno che obietterà sulle tinte e qualità lavori ci sarà sempre,ma il cantiere non lo ferma,anzi!
Pasini coglie i punti essenziali di quel periodo ne provo a mettere un altro :da quello step in poi avvicinarsi alle pareti era meno elitario , meno borghese, meno complicato,meno politicizzato ,la cima perde il ruolo, riflessi della appena trascorsa rivoluzione giovanile ovviamente , i cancelli sono sfondati ,il resto è storia recente.
Il nuovo modo era arrivato, che piaccia o no, inarrestabile.
Nel 1983 la scissione della comunità arrampicatoria non era ancora avvenuta, tutti facevano un po’ di tutto, la specializzazione, tranne che per i top, non era così diffusa nella platea dei praticanti, la plastica urbana non esisteva e il cursus honorum era più o meno quello per tutti. In quello scambio di opinioni si intravvedevano già i primi segni della futura segmentazione e della creazione di chiese diverse. In Calcagno e Parodi, legati alla scuola genovese, anche se appartenenti a generazioni diverse, si sentiva la resistenza della tradizione alla scissione e la rivendicazione del valore della trasversalità. Questo tema “olistico” come dicono oggi quelli fighi mi sembra più vivo in noi reduci che non nelle nuove leve. Ho la sensazione che la focalizzazione o almeno la priorità data ad una certa attività, cosa un po’ inevitabile se si vogliono ottenere certi risultati, non sia vissuta come una limitazione ma come una via per procurarsi certi stati d’animo e certe esperienze gratificanti attraverso l’intensità più che la varietà. Si tornerà indietro ? Le chiese torneranno a unificarsi tra quarant’anni? Difficile prevederlo, chi vivrà lo vedrà.
Ricordo le osservazioni di Nanni Villani, di Andrea Parodi, di Gianni Calcagno. Le rammento bene perché le condivisi totalmente, cosí come le condivido tuttora.
Se non altro, dopo piú di quarant’anni non ho cambiato idea su questo punto basilare. È un piccolo conforto personale.
Che l’arrampicata sportiva praticata ad alto livello chiuda gli orizzonti più che aprirli andrebbe chiesto a chi l’arrampicata l’ha praticata ad alto livello. Non a chi non ne ha mai avuto esperienza e quindi non sa di cosa stia parlando. Il punto non è’ arrampicata o free climbing o alpinismo. Il punto è’ se si vuole essere dediti ad una attività’ in modo totalizzante. chiudo dicendo che la scalata indoor su plastica è’ un ‘ altra cosa ancora che poco o nulla ha a che fare con il free climbing ed anche con l’arrampicata sportiva.
Scusa Expo ma di quello che piace a me, a te o ad altri non frega niente a nessuno. Qui si sta parlando di un dibattito avvenuto quarant’anni fa e quindi ormai storia dell’arrampicata in Italia e del suo significato rispetto ai temi che animano oggi questo mondo che ha assunto dimensioni e caratteri che francamente nessuno a quell’epoca si immaginava. Senza offesa eh , con il massimo rispetto dei nostri gusti personali, ci mancherebbe ma la dichiarazione dei quali non è che da’ un gran valore aggiunto agli altri.
Trovo condivisibile quello che qui dice Calcagno :
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non amo spingermi oltre certi livelli che invece di aprirmi nuovi orizzonti me ne chiuderebbero di più importanti obbligandomi a «lavorare» con il paraocchi e a percorrere il ramo di una specializzazione che non mi appagherebbe
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Senza alcun intento critico verso il grande Perlotto , è bello e figo andare forte, ma penso che l’abilità e le capacità arranpicatorie siano più un mezzo per vivere delle emozioni che un fine.
Mi fa piacere ritrovare nel nuovo articolo, ciò che ieri ho espresso riguardo all’intervento di Perlotto.
Negli Anni Sessanta e fino agli Ottanta, anche in alpinismo qualcuno si è assunto il ‘grave compito’ di annunciare una nuova verità, che il passato era morto. Non ho mai superato il settimo grado, sia in estate che in inverno. Non so come sarebbe stato il mio contatto con la natura scalando su gradi maggiori, se ne fossi stato capace. Lo avrei percepito e positivamente? Forse si, avendo una padronanza dei movimenti e una leggerezza superiori. Ma forse, l’impegno per raggiungere quegli obiettivi non mi avrebbe consentito un rapporto costante, schietto e sereno con la natura, espressa dalla roccia, così come è avvenuto scalando sul quarto, quinto e sesto grado, camminando su un sentiero, stando seduto su una roccia a contemplare le crode, tenendo l’anima con i denti nel cercare di tornare a valle sfuggendo a una tempesta. Forse ancora si, se lo avessi fatto in umiltà e nascostamente, senza palcoscenico.
Calcagno era nato nel 1943. Apparteneva ad un’altra generazione rispetto agli altri tre. C’erano quasi 15 anni di differenza. Nel 1983 era un quarantenne, gli altri avevano più o meno 25 anni.
“E poi diciamocelo francamente: arrampicare è facile e su certe difficoltà, col chiodo all’altezza della pancia, è anche facile barare. Togliete lo zaino, alcune ore di marcia su per sentieri e morene, la «noia» del ritorno nella deconcentrazione della sera, togliete il pericolo e la fatica che fa da contorno ad un’arrampicata in montagna e lasciate il movimento puro e sublimato: otterrete una formula di successo”
Rimango sorpreso dal fatto che Calcagno non avesse intuito quali sviluppi avrebbe avuto l’arrampicata e la ritenesse solo un’aberrazione da praticare in pareti brevi e a bassa quota, dove poter “barare” indisturbati (ma davvero era quello il tarlo?) eppure già in quegli anni c’erano evidenti esempi di quello che sarebbe avvenuto sulle grandi pareti negli anni a seguire. Non mi sembra che i giovani d’oggi che si muovono con disinvoltura dai blocchi alle grandi pareti, alle discese con parapendio ultraleggero o su itinerari di ghiaccio impensabili 30 anni fa lo facciano con il paraocchi.
A mia sensazione i temi sollevati da quel dibattito sono passati in secondo piano oggi, tranne due. Penso che le sponsorizzazioni siano date ormai per scontate, nessuno si indigna per una maglietta di Honnold, magari qualche eccesso può dar fastidio ma è considerato un peccato sotto sotto veniale. Che l’arrampicata sia un gioco autonomo fuori dalla logica della conquista della vetta, anche questo mi sembra ormai scontato per milioni dei frequentanti palestre indoor e outdoor. La sfida più che con l’alpe è con il grado. Il rapporto “empatico” con la natura mi sembra non sia poi così centrale per molti anche perché francamente la vedo dura avere un rapporto empatico in alcuni climbing Park contemporanei per non parlare della plastica indoor. Invece mi paiono ancora in auge soprattutto il tema delle chiodature più o meno plaisir (vedi discussioni accese anche su questo blog) e in parte il tema dell’arrampicata come “experience” arricchente, così si dice oggi, attraverso la quale acquisire una maggiore consapevolezza di sé. Penso che a molti, completamente “secolarizzati” non interessi più di tanto ma c’è sicuramente un’area che riprende in chiave moderna temi che nel passato erano legati al filone “figli dei fiori” o “new age”, ovviamente con caratteri oggi un po’ meno ingenui e più legati alle conoscenze acquisite sui rapporti mente/corpo. Poi sono emerse tante altre cose nuove ma di queste magari si parlerà in seguito.
Quello che fa un pò sorridire, è la rivendicazione (illusa) di libertà che si racconta ci avrebbe dato il freeclimbing, ma allo stesso tempo ci si veste ben firmati, con tanto di maglietta con marca sbandierata in bella vista fotografica. Ma forse era stata comprata al mercatino delle pulci… A quel tempo del resto usava vestirsi con cenci multicolorati comprati al mercatino.
A mio parere il tema del favorire o meno il “consumismo” facendo pubblicità sulle riviste dell’epoca era solo uno dei temi sollevati delle lettere. Quello che è venuto dopo con il “marketing” fa apparire persino ingenue e pure un po’ datate quelle frecciatine. Il fenomeno dell”influenza delle logiche di business sul mondo dell’arrampicata, che indubbiamente esiste, ha raggiunto livelli ben più estesi e sofisticati, quasi come la frequentazione dei luoghi di arrampicata e il livello di difficoltà delle vie. Val la pena prendere spunto da confronti con voci del passato per parlare di queste evoluzioni più che non rivangare aspetti contingenti e anche un po’ personali di antiche contese.
Essi’ Perl8 è stato un ottimo “testimonial” per la vendita e commercializzazione di un prodotto tutto sommato buono e non mi riferisco alla nota marca…tuttora anche se un po scolorito resiste agli strappi dei 40 anni, che stoffa sto freeclimbing o friclaimbingg come direbbe sora Lella.
Chissa se Per l otto ha mai risposto alle tre letterine io non credo e non lo so ma potrebbe farlo ora e credo sarebbe interessante.
Sì ispirante il contributo di Calcagno.
Eh certo che guadagnarsi una sequenza di critiche (peraltro è attualità malgrado l’articolo provenga da altre “ere”)dovrebbe far riflettere, un alpinista che invecchia dovrebbe esser in grado di moderarsi
1983. Erano finiti gli anni di piombo e stava per iniziare l’età dell” “edonismo”. Sono passati 4o anni, un’epoca e “una vita e’ già quasi trascorsa”.Interessante notare anche il linguaggio e lo stile delle lettere, perché si scrivevano delle lettere e non dei post. Suona più formale, meno colloquiale, leggermente arcaico nella sua sintassi ineccepibile. Sarebbe interessante, per gli appassionati della storia della comunità rampicante, sia reduci che militanti al fronte, confrontarsi su come è andata a finire. Cosa ne è stato dei grandi temi che agitavano allora gli animi: il ”consumismo”, come si diceva allora, la “pulizia”dell’arrampicata e dei suoi supporti, il rapporto “empatico” con la natura, la ricerca della consapevolezza di sé attraverso il gesto e il corpo, l’idea del gioco arrampicata contrapposto all’ideale eroico della conquista. Bisognerebbe però lasciar da parte il solito motivo della nostalgia del tempo che fu. Nella sua intervista, rilanciata qui, Gogna formula alcune osservazioni, a mio parere obiettive e non nostalgiche, sull’evoluzione di quel mattino nel mattino di oggi (che a qualcuno pare sera, perché proietta la sua personale sera) mettendo molta enfasi sul tema della prestazione. Uno stimolo per proseguire il confronto.
Lo sapevo che con Gianni Calcagno mi sarei compreso.
(…)giovane generazione di arrampicatori che cerca di «vivere di montagna»: coloro che hanno ingrossato le fila delle guide alpine (puntando ad una professione che poggia su corsi di «Arrampicata Moderna» e di «Salite Estreme su cascate di ghiaccio») e che salgono gli spigoli dei palazzi cittadini per attirare l’attenzione della stampa. Coloro i quali infine scoprono tristemente che per vivere di alpinismo oggi (come d’altronde ieri) bisogna subire il gioco delle sponsorizzazioni, vendendo la propria faccia e le proprie prestazioni alla macchina pubblicitaria.-
Sí, la genuina passione per la montagna e per il gesto naturale del progredire, (parete, bosco o qualunque distesa si vada ad affrontare ad armi pari) in fondo sarebbe quella che in maniera naturale ti armonizza i momenti di libertà, via dalle vere necessità della vita, di tanto in tanto.
In maniera naturale ho detto.