Gian Carlo Grassi (secondo Gian Piero Motti)

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***

Gian Carlo Grassi (GPM 066)
(da alcuni detto “il Maestro”, da altri detto “Il Naif”)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Fila n. 9, settembre 1979)
Fotografie dall’archivio di Gian Carlo Grassi

Se non lo conosci di persona ma hai dato uno sguardo al suo curriculum alpinistico, magari ti aspetti una grinta da duro, una di quelle facce da “spaghetti western”, tanto per intenderci. Invece poi ti trovi davanti un volto da ragazzino, un’espressione un po’ incantata, un’ingenuità persino scoraggiante. Poi, se lo osservi ancor meglio in viso, allora magari i trentatrè anni cominciano a venir fuori: qualche rughetta di fianco agli occhi, un paio di solchi appena accennati ai lati della bocca. Quasi vent’anni d’alpinismo lasciano indubbiamente il segno anche per chi, come Gian Carlo Grassi, cerca con la montagna soprattutto un rapporto sereno e non aggressivo.

Gian Carlo Grassi

Un po’ di conti e t’accorgi dunque che Grassi ha cominciato ad arrampicare praticamente da ragazzino. Me lo ricordo bene, in quanto si può dire che cominciammo insieme. Allievi alla Scuola Gervasutti di Torino, poi istruttori sempre alla Gervasutti. A ripensarci oggi, in quegli anni eravamo un po’ fanatici; arrampicare per noi era tutto, non si guardava tanto per il sottile: bel tempo, brutto tempo, sole, pioggia, neve… ciò che importava era arrampicare. Ma già sin dall’inizio Grassi manifesta una curiosità, un desiderio di scoperta e un intento creativo che distingueranno poi tutta la sua attività alpinistica. Prima sono le ripetizioni delle grandi salite occidentali, ritenute un po’ tabù nell’ambiente torinese di allora, anche se Andrea Mellano, Alberto Marchionni e Gianni Ribaldone avevano notevolmente disinibito l’ambiente con le loro realizzazioni di primissimo piano. Poi fu la volta delle Dolomiti e anche lì si cercò di aprire il discorso, a dispetto degli “auguri” di molti che vedevano finire la nostra rapida e folgorante carriera in una cassa di legno d’abete. Ma ripetere non bastava. Iniziò così la lunga e metodica esplorazione delle Alpi piemontesi (e non solo piemontesi) alla ricerca di nuovi campi d’attività in palestra e in montagna. Tutti e due eravamo affascinati dal nuovo. E fu così che ci lanciammo alla scoperta delle vicine Prealpi Francesi, del Massiccio dei Cerces, dei gruppi calcarei del Briançonnais e delle splendide “falaises” provenzali.

Bisogna sottolineare che in quel periodo Grassi non aveva certo vita facile. Io ero studente, avevo tempo libero da rubare alla scuola quando volevo. Gian Carlo languiva in fabbrica e doveva strappare ogni salita con i denti nei pochi ritagli di tempo libero. Il lavoro che svolgeva in fabbrica lo lasciava spersonalizzato, profondamente insoddisfatto, direi quasi alienato e strangolato nell’espressione del suo essere. Il desiderio era quello di vivere di montagna e di dedicare tutto se stesso all’alpinismo, ma i tempi non erano facili. Tu lo vedi e non ti dà l’impressione del duro, anzi ti sembra un po’ timido e smarrito in un mondo caotico dal quale lui si astrae con vero piacere appena può. Ma se poi cominci a conoscere la sua vita, se vedi la lotta sostenuta per arrivare a una meta sempre sognata, se capisci i grandi sacrifici compiuti, allora comprendi che li sotto c’è un mostro di volontà e di tenacia.

Gian Carlo, fa un primo passo decisivo: lascia la fabbrica, lascia la città e lavora in inverno come battipista (qualcuno gli dice che è umiliante “dare il piattello nel culo agli altri”. Ma lui dice “io me ne frego. La mia mente è libera e va dove vuole”) per guadagnare quel tanto che gli basta per poter poi arrampicare in estate e in autunno. Magari se in estate c’è dà fare la cinghia, si può guadagnar qualcosa lavorando in Francia a costruire dei paravalanghe. Sono gli anni del “Mucchio Selvaggio”, gli anni in cui viene fuori la personalità esuberante di Danilo Galante. E proprio con Danilo stringe un’amicizia profonda e sincera. Sono gli anni delle vie al Caporal e al Sergent, gli anni dei “californiani” a Torino, un periodo che avrebbe dovuto durare un po’ di più, come la vita di Danilo, interrotta a vent’anni n quella notte di bufera sui prati del Grand Manti, quando Danilo vinto dal freddo e da una grande stanchezza scelse di non svegliarsi più.

Un secondo passo decisivo è poi il corso da Guida. Gian Carlo dà ampia dimostrazione delle sue notevolissime doti su roccia e su ghiaccio ottenendo in ambedue i corsi votazioni lusinghiere. Ora gli si aprono nuovi orizzonti, anche se, e bisogna dirlo, non è che gli organismi competenti (leggi il Club Alpino Italiano) si diano poi molto da fare per favorire la professione delle guide che hanno diplomato. Ma anche come Guida Gian Carlo desidera essere creativo, un professionista nel vero e proprio senso della parola. Il suo desiderio è quello di potersi esprimere al meglio di se stesso, di non dover rinunciare alla propria capacità creativa per motivi contingenti e derivanti da meccanismi che non permettono una totale manifestazione di se stessi. Recentemente l’accordo con la Fila gli ha permesso di raggiungere quella serenità e quella sicurezza, un’atmosfera distesa in cui è possibile esprimere il proprio potenziale, prima trattenuto come da una sorta di limitatore. Qualcuno degli “amici” dice che Gian Carlo si è venduto al sistema che lui contesta a parole: io credo che in queste affermazioni vi sia tutta la frustrazione e la gelosia di chi “vorrebbe ma ‘non può”. Comunque i risultati non si son fatti attendere. Vedi le numerose ripetizioni di altissimo livello realizzate in Yosemite, vedi il numero notevole di vie nuove (tutte estreme) aperte sia su ghiaccio che su roccia nelle Alpi Occidentali, vedi le numerose solitarie realizzate in tempi velocissimi nei vertiginosi couloir di ghiaccio del Bianco e del Delfinato, vedi recentemente l’esperienza invernale in Scozia.

Ho detto che Grassi ama il nuovo. Ed è vero. Il lavoro che ha svolto in seno all’ambiente alpinistico piemontese e italiano in questo senso è determinante. Fu uno dei primi a essere fermamente convinto dell’utilità dell’arrampicata sui blocchi (eravamo stati a Fontainebleau e in Saussois e avevamo ricevuto una inequivocabile dimostrazione del “come” e del “perché”…). Eccolo allora cercare ad uno ad uno i massi erratici sparsi nell’anfiteatro morenico di Rivoli, eccolo ripulirli ad uno ad uno dall’edera che li ricopriva quasi per intero, eccolo segnare ad uno ad uno i passaggi con i bolli di minio, aprendo quindi un vastissimo campo d’attività alle nuove generazioni torinesi e non, le quali, forse un po’ distratte, sovente si trovano la pappa pronta e non pensano che un grazie ci starebbe pure bene. Eccolo tra i primissimi in Italia (se non il primo) ad affascinarsi alla scalata delle cascate ghiacciate in inverno, attività ormai affermata in Scozia, nei Paesi nordici e in Nord America. Eccolo allora darsi con metodica passione alla ricerca di tutte le cascate esistenti nelle valli torinesi, eccolo poi scrivere note tecniche, articoli, monografie, affinché altri alpinisti possano vivere le stesse esperienze. Se non lo conosci, tu potresti anche dire: ma cos’è che stimola Grassi? Il successo, l’ambizione, il collezionismo di salite? Io credo di conoscerlo bene. Ambiziosi lo siamo tutti e non vi è proprio nulla di male in ciò. Il successo a nessuno fa schifo. Ma nel caso di Gian Carlo parlerei soprattutto di amore. Amore sconfinato per la Natura, tanto da soffrirne quasi fisicamente quando questa viene umiliata, deturpata, «massacrata dall’ignoranza bestiale di alcuni uomini con la u molto piccola. Amore sconfinato per la montagna e per ogni espressione che lo leghi alla montagna: guardare, camminare, arrampicare sui blocchi, arrampicare in palestra, il Bianco, le Dolomiti, il ghiaccio, il calcare, il granito… ogni esperienza Grassi la considera come un Universo a se stante, ogni espressione lo lascia soddisfatto. E ora già vedo alcuni storcere il naso e subito pensare a interpretazioni freudiane fin troppo banali (solo quando si analizzano gli altri però, mai su se stessi), già li vedo tirare in ballo la montagna come Grande Madre, con relativo complesso edipico non risolto… via, non è il caso credetemi, la so lunga pure io. Ma a me Gian Carlo piace così.

Proprio perché di tutto questo non sa proprio nulla, proprio perché quando sovente arrampico con lui mi par di giocare come da bambini, mi sembra che tutta la faccenda non sia poi così seria come tanti la mettono giù. Quest’inverno abbiamo passato quasi due mesi a cercare massi erratici nei boschi, servendoci di una cartina trovata su di un vecchio libro, come pirati alla ricerca di tesori sepolti. Eravamo nei boschi di Avigliana a venti chilometri o poco più da Torino. Eppure, lo giuro, l’avventura era totale, completa. Certo, si giocava. Ma per noi ogni masso scoperto era un Universo intero, una galassia da esplorare, un deserto da conoscere. Credetemi, il più delle volte l’avventura non è lontana, è lì sulla porta di casa, anzi meglio è in noi, a patto che si voglia tornare un po’ semplici, attraversando tutto l’oceano della complicazione umana. Un giorno qualcuno, che certamente la sapeva molto lunga, disse che soltanto colui che si fosse fatto fanciullo e si fosse stupito avrebbe conosciuto il Regno. E rispose anche a colui che gli chiedeva dove mai fosse questo Regno: «il Regno è qui, dentro di voi e fuori di voi». Ma capire Grassi, per chi naviga fiero nell’oceano della complicazione, non è facile. Se tu guardi bene la sua attività alpinistica, ti spaventi: non so quanti altri in Italia gli possano tenere dietro. Ma lui non è l’uomo della salita-effetto. È anche capace di ripetere più volte una via, solo perché gli piace. Gian Carlo cerca in montagna qualcosa che non è l’affermazione. Un giorno di quest’inverno un amico giornalista, un po’ duro a capire discorsi d’alpinismo che non siano impregnati di competizione, telefona a Gian Carlo e gli chiede se si è dato da fare con delle prime invernali… «Sai, gli dice, ora tu sei un professionista e non puoi più permetterti di giocare sulle cascate ghiacciate».

Io invece ti dico Gian Carlo: mi raccomando, continua a giocare sulle cascate ghiacciate, sui blocchi di serpentino, nei canali di cristallo inclinati a 70° e 80° gradi, da solo a tu per tu con le stelle nelle notti passate sulle “nord” fredde e siderali, sulle placche di granito che vorresti infinite, come è infinita la sfera che ruota sotto i piedi. Guai se tu ti mettessi in testa di vendere ad altri un’immagine che non è la tua. Se non la capiranno, tanto peggio per loro. Un giorno mi dicesti: «Anche sulla Nord dell’Eiger ci si può divertire, anche nel mezzo di una bufera si può essere sereni, anche su un Ottomila si può arrivare senza voler vincere la montagna. Non riesco a vedere espressioni negative nella Natura, nemmeno nella morte, anzi». Mi par ora di udire il Coro di prima: «Oh… che candore! Cantico delle Creature? Un nuovo San Francesco? I santi oggi sono così rari…». Lasciali dire Gian Carlo, lasciali sorridere della tua “voglia di scalare”.

Ora tu mi chiedi se sia più forte su roccia oppure su ghiaccio. Non lo so. Su roccia ha un suo stile particolare, non esuberante e nemmeno danzante, ma straordinariamente efficace. Tu lo vedi andar su e di sotto ti sembra tutto facile, quasi banale. Poi quando tocca a te trovi lungo e non sai più dove attaccarti. Il ghiaccio ora gli piace parecchio: il vero ghiaccio, quello verde e nero delle cascate, dei super-couloirs, delle “goulottes” del Ben Nevis in Scozia. Certo, in Gianni Comino ha trovato un compagno formidabile, senza tema di smentita uno dei migliori ghiacciatori d’Europa del momento. La solitaria del Supercouloir del Tacul in sole sette ore lascia veramente senza fiato. Eppure chi conosce Comino? Nessuno. Lui è una sfinge, non gli cavi una parola di bocca, non gli tiri fuori una riga di scritto. Eppure, leggendo tra le righe delle poche parole che dice, capisci che lì sotto c’è un vulcano di impressioni, di sensazioni, di visioni. Ma Comino è un altro che in montagna cerca un grande Se Stesso, o meglio cerca di giungere in armonia con un inconoscibile interiore, l’Atman per gli amanti dell’induismo, per poi riferirlo ad un Sé esterno, chiamalo pure Dio se vuoi, anche se oggi si sorride di questa parola.

In due fanno una cordata fortissima su ghiaccio e lo hanno ampiamente dimostrato. Idee ne hanno parecchie.

Di quegli anni un po’ pazzi e fanatici (a volte penso come mai non ci lasciammo la pelle!) ti è rimasta solo una forma maniacale che credo mai riuscirai ad estirpare da te stesso: il culto un po’ esagerato e ossessivo dei gradi, delle differenze tra quinto superiore e sesto inferiore, delle discussioni un po’ assurde su dei numeri che a parer mio non contano nulla. Ma via… non ricominciamo a discutere di nulla. Conoscendoti bene il tutto finisce nel ridere, anche se a volte all’uscita di un passaggio dove hai trovato eterno, il sentirti dire con aria un po’ candida e un po’ malignetta: «… oh, ma è solo quarto!» ti metterebbe la voglia di darti la risposta che Royal Robbins voleva dare a Don Peterson sull’Half Dome durante l’apertura della via Tis-sa-ack: «Grassi, fuck you!».

L’intervista di Gian Piero Motti a Gian Carlo Grassi
GPM “Dopo due esperienze realizzate in Yosemite penso che tu sia uno dei pochi italiani ad avere veramente le idee chiare sul mondo californiano. Anche perché mi sembra che qui le idee non siano poi troppo chiare. Vi sono un sacco di malintesi, di luoghi comuni. Per molti, a me pare, che il tutto si riduca a mettersi le E.B. nei piedi, una fascia sui capelli e un sacchetto di magnesite in vita. Ma la sostanza interiore mi pare che sia rimasta per molti quella della “Lotta con l’Alpe…“.

GCG “C’è tanta confusione. Ma anche là non è tutto chiaro come potrebbe sembrare. Se parliamo di ambiente umano, possiamo dire che si possono osservare diversi gruppi di arrampicatori, con mentalità piuttosto differenti. Il nucleo principale è formato dai cultori della ginnastica e della preparazione atletica spinta ad oltranza. Come diceva a ragione Warren Harding, il Campo IV (ossia il Camping dove si radunano gli arrampicatori) sembra un villaggio olimpico: funi appese agli alberi, attrezzi da ginnastica, pesi, sbarre, gente che per tutta la giornata si tira su e giù. Certo, vedi delle torce che qui puoi vedere solo per televisione alle Olimpiadi. I risultati sul terreno non possono mancare: ciò che si vede fare sui blocchi da noi è ancora fantascienza, soprattutto per ciò che concerne i passaggi di forza. Vi è poi un altro gruppo che disdegna un po’ la preparazione atletica e invece impegna tutto se stesso nelle discipline orientali di controllo della mente, magari aiutandosi con qualche cicca di marijuana. Mi ha impressionato (e ha impressionato anche Gogna) un ragazzo che passava le sue giornate a starsene in disparte a suonare il sax. Poi, ogni tanto, si alzava, andava verso qualche blocco e superava dei passaggi allucinanti, alti anche 15 metri, con una disinvoltura, una naturalezza e una leggerezza tali da credere che fosse roba da principianti (si trattava di John Bachar, NdR). Abbiamo provato con Renato (Casarotto, NdR), ma non ci siamo alzati di un metro da terra: subito ti incazzi, poi non puoi che ammirare. Eppure quel tizio non era un gorilla alla Bridwell. Non che avesse braccine da impiegato, ma certo non passava le giornate a tirar su manubri o a consumarsi la pelle delle mani su una sbarra”.

GPM “Per quanto ne so io, mi pare che ci sia ora una grande tendenza al “bouldering”, trascurando un po’ le grandi vie in parete”.

GCG “È vero. Da un anno all’altro ho visto un incremento pazzesco dell’arrampicata sui blocchi o dell’arrampicata sulle paretine alte fino a 100 metri. E qui che si sono toccati livelli di 5.12 e 5.13 (i nostri ottavo e nono grado!). Cresce anche l’abitudine di attaccare le grandi vie e di salire “all free” per i primi tre o quattro tiri di corda, e poi scendere.
Comunque vi sono anche quelli che invece praticano un’arrampicata di ampio respiro sulle grandi pareti, ma rispetto a quelli del “bouldering” sono in minoranza. Sono piuttosto ora gli europei che vengono per fare le grandi vie del Capitan, del Sentinel Rock o del Dome. Comunque va subito detto che nessun europeo per ora può sognarsi di ripetere le grandi vie in artificiale del Capitan come Tangerine Trip, Mescalito, Pacific Ocean, Acquarian, ecc. Per ora sono fuori portata. Ancora non siamo cosi specializzati nell’uso delle ancorette, dei gancetti, dei blocchetti da schiacciare.
Gli europei agiscono sul Nose, sulla Salathé, sulla Muir, forse sulla Dihedral Wall. Credo che nessuno abbia fatto la North America Wall che, pur essendo estrema, è la più facile delle grandi vie in artificiale.
Continua comunque il processo di trasformazione in libera delle vie in artificiale, con risultati allucinanti. Si è arrivati a passare in libera dell’A3.
Ma, soprattutto nel gruppo che fa capo a Jim Bridwell, continua anche la ricerca di nuove vie da aprire con tecnica artificiale raffinatissima”.

GPM “Da ciò che mi sembra di capire, l’ambiente alpinistico italiano tradizionale non accetta molto il discorso  che tu porti nella tua conferenza sul Yosemite”. GCG “Forse ti riferisci alla serata di Torino. Hai ragione. Sembra quasi che abbiano paura che gli americani vengano in Europa a portargli via le salite. E poi quell’incredulità a riguardo dei livelli raggiunti in arrampicata mi fa veramente incazzare. Vadano un po’ a vedere. D’altronde l’Accademico ha dimostrato tutta la sua apertura mentale nell’assemblea plenaria in cui ha negato l’esistenza del settimo grado perché “non sono ancora state date sufficienti prove fisiche e psichiche di un reale superamento dei limiti precedenti“. Davanti a questo cosa vuoi ancora dire? Ignorano l’esistenza del gruppo dei sassisti di Sondrio, ignorano Ivan Guerini, ignorano Renato Casarotto, i dolomitisti veneti della nuova generazione, ignorano (non lo volevo dire, ma me lo fanno proprio dire) i livelli raggiunti sui nostri massi erratici in Val Susa. Se proprio non vogliono andare fino in California, vadano in Val di Mello o vengano a consumarsi la pelle delle dita sugli erratici. Questo conservatorismo e quest’oscurantismo danno veramente fastidio. E dire che qui noi saremo arrivati al 5.10, non credo al 5.11. Là qualcuno parla di 5.14! E pensa che anche là vi sono ancora dei passaggi di John Gill (detto “the Master of Rock) che non sono stati ancora ripetuti! Ma qui si continua a voler fare gli struzzi”.

GPM “Come hai trovato l’esperienza sulle grandi pareti?”.
GCG “Fantastica. Assolutamente fantastica. E’ chiaro che ci vuole grandissima umiltà. Non puoi partire di qui e dire: vado là e spacco tutto. Non spaccherai un bel niente, anzi ti prenderai un’inculata super che non ti farà tornare mai più. Ci vuole umiltà, ma neanche ci si deve demoralizzare. È vero, subito ti senti una merda e vorresti far fagotto e tornare a casa. Le pareti sono immense, ti schiacciano. Poi a poco a poco, cominciando da qualcosa di potabile, inizi ad ambientarti e riacquisti fiducia nei tuoi mezzi. Così puoi avvicinarti a salite sul Dome, sul Sentinel Rock o sul Capitan. L’impressione che ti dà il Capitan è indescrivibile: è qualcosa di irreale, di troppo grandioso, ripeto, fantastico. Peccato il calore. Alla fine vedi che potresti tirar via in libera numerosi passaggi, soprattutto passaggi in Duelfer o a incastro, ma la fatica ed il calore ti hanno spremuto le energie. E poi va anche detto che noi non siamo dei gorilla come Bridwell, che ha fatto il Nose al 70% in libera! Il calore ti ammazza. Casarotto a ogni golata asciugava una borraccia. Comunque una salita al Capitan è un viaggio fuori della realtà, un’esperienza che sulle Alpi non esiste. E poi quell’uscita nella foresta è veramente super, indimenticabile,  come la marcia sul sentiero che ti riporta alla base. Peccato che gli americani con il loro cattivo gusto cronico riescano a rovinare le cose belle. Ogni tanto ti imbatti in sentieri asfaltati, telefoni nel bel mezzo della foresta, cessi con scritto “Men e Ladies” nel fitto dei boschi, cartelli assurdi. Per non parlare poi della porcata delle cascate colorate al fosforo di notte o delle placche dipinte di vernice per creare affitti discutibilissimi. E per non parlare delle comitive di turisti un po’ idioti e schiamazzanti che ti trovi un po’ dappertutto. Ma lo sai, è l’America. Quando sono arrivato a New York mi son sentito come schiacciato, ho capito che il capitale e la tecnologia americani passono fare qualunque cosa: che ne so, spostare la Luna, cambiare clima al pianeta, fondere i poli, tutto, tutto quello che vogliono. Terribile e disgustoso”.

GPM “A me piace il gioco degli estremi. Saltiamo dal caldo al freddo e parliamo dell’esperienza invernale in Scozia”.
GCG “È stato molto, molto interessante. Sulle nostre cascate ghiacciate ci eravamo fatti già un’esperienza più che buona, quindi eravamo abituati al ghiaccio fragile creato dall’acqua che cola. Ma là non si tratta proprio di cascate, quanto di canalini riempiti di ghiaccio. Il clima umido (le montagne sono vicinissime al mare), il gran freddo e la latitudine già considerevole, fanno sì che in determinate condizioni le pareti rocciose si rivestano completamente di una corazza di ghiaccio più o meno sottile, su cui poter arrampicare in tecnica piolet-traction. È chiaro, anche qui ci vuole molta umiltà. Devi cominciare con i canalini più classici del Ben Nevis, Point Five Gully, ad esempio, che già non è uno scherzo, se pensi che i primi salitori ci hanno messo cinque giorni per salirlo. Sì, sì, il piolet-traction ancora non si usava e si doveva gradinare, comunque cinque giorni per poco più di trecento metri ti fa capire tante cose. Poi puoi passare a vie secche, a veri e propri camini verticali e strapiombanti che in inverno sono riempiti di ghiaccio colato. Eravamo allenati, Comino, Alberto Soncini ed io; però devo dire che abbiamo trovato difficoltà serie, degne della fama che i monti di Scozia si sono fatta. E poi va anche detto che abbiamo imbroccato un periodo di tempo chi più “loffio” di cosi non poteva essere. Un freddo della Madonna (meno 30°!), bufere, in un paio di salite abbiamo proprio dovuto ricorrere alle estreme risorse di volontà per salire.
Eppure ti confesso che quella terra desolata e selvaggia, quelle lande ghiacciate e deserte, quelle pareti tutte incrostate e frangiate di ghiaccio, hanno un fascino indescrivibile, un qualcosa che ti resta dentro per sempre. Abbiamo trovato lungo per il freddo e per il vento in un paio di occasioni, ma ne valeva la pena, siamo stati ripagati da sensazioni di qualità”.

GPM “E il livello degli alpinisti locali?”.
GCG “Elevato, molto elevato. Qui anche il principiante inizia la sua attività direttamente sul ghiaccio vivo e con condizioni meteorologiche avverse. Non ci si deve quindi stupire se gli scozzesi sulle Alpi danno dimostrazioni stupefacenti sulle grandi pareti nord e in inverno. Per essi arrampicare con il tempo brutto e con condizioni severe è abituale: non è voler salire ad ogni costo. Sembrano come affascinati dall’idea di arrampicare in un ambiente duro, severo e apparentemente ostile. I big in questi ultimi anni hanno realizzato cose da fantascienza, vincendo pareti ghiacciate verticali e strapiombanti con tecnica piolet-traction. Fin quando sali in un canalino o in un camino, per quanto possa essere verticale e strapiombante, hai modo di assicurarti con qualche chiodo da roccia sui bordi, ma quando ti trovi su una parete verticale e strapiombante corazzata di ghiaccio vetroso, non sai più che santo invocare. D’altronde sai anche tu che l’assicurazione con chiodi su ghiaccio colato o vetroso è puramente morale e aleatoria. Comunque per noi che veniamo di fuori, questo genere di imprese è proibito: bisogna essere sul posto, studiare le condizioni, approfittare del momento favorevole. Anche Alessandro Gogna e Gianni Calcagno, anche Jean-Marc Boivin, si sono cimentati solo nei “gullies” di ordine classico. Comunque l’esperienza mi ha soddisfatto in pieno e mi ha pure aperto nuovi orizzonti. Il terreno che abbiamo a disposizione in Piemonte in inverno è immenso e del tutto inesplorato. Credo che il prossimo inverno avrò molto da fare, spero solo che il freddo sia dalla mia parte”.

Nota di oggi
Gian Carlo Grassi disponeva di uno splendido fotodocumentario a colori, in dissolvenza e completamente sonorizzato, che illustrava la sua esperienza scozzese, dal titolo Il ponte di cristallo. Grassi disponeva anche di una conferenza (non sonorizzata) sulla sua esperienza in Yosemite.

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Gian Carlo Grassi (secondo Gian Piero Motti) ultima modifica: 2018-02-05T05:14:26+01:00 da GognaBlog

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10 pensieri su “Gian Carlo Grassi (secondo Gian Piero Motti)”

  1. Ho conosciuto GP Motti a Breno e con lui Grassi , ero un ragazzino e mi piaceva andarli a vedere salire su un grande masso ,li vicino, li paragonavo nella mia testa a dei ragni che cercano la via…era bello vederli e così nel mio piccolo ho continuato la mia montagna.

  2. Non l’ho mai frequentato, ma l’ho conosciuto. Mi chiedo ancora oggi perché, poco tempo prima della sua morte venne a smontare le vie che avevamo spittato in Val di Thuras e alla Sbarua. La prova, la vedova volle regalare le placchette recuperate, le stesse che avevamo fatto fare da un artigiano Lucchetta ed io.

  3. Grande ispiratore insieme a Gianni Comino della mia generazione sia su roccia che su ghiaccio ma soprattutto emblema di sconfinato amore per l’arrampicata e l’alpinismo in tutte le sue forme anche innovative e sperimentali.

  4. Non conoscevo..”G.Carlo G. ” questo racconto fa capire L’uomo , L’alpinista..e la sua arte  di scalatore….fantast.  G.C.

     

  5. Ho fatto 3 salite con lui per imparare a salire il ghiaccio ripido. Da Toscano ne avevo bisogno. Erano i primissimi anni 80 e Giancarlo mi ha fatto fare una prima ripetizione di una sua prima alla becca di Gay e 2 prime salite (la 54 e la 69 del suo libro sulle 100 cascate). Mi ha ospitato a casa sua, ho conosciuto la moglie e la figlia. Quello che posso dire non riguarda la sua bravura di alpinista, per questo bastano le sue salite e la sua continua ricerca del nuovo, quello che più mi ha colpito è stata la sua umanità, la semplicità, l’amore per la natura. Ecco sono d’accordo nel definirlo un Naif. Pochi sono o sono stati come lui.

  6. Bellissima testimonianza di un passato che se n’è andato troppo in fretta lasciandoci l’amaro in bocca per avere in qualche modo interrotto e deviato il futuro che sarebbe potuto essere diverso. Loro due, Casarotto, Comino e altri, hanno comunque lasciato una sontuosa eredità agli amanti della montagna e delle arrampicate e continuano ad accompagnarci pur non essendo più con noi.

  7. Fa venire i brividi per quel senso  di bellezza latente sempre presente, unito al farti sentire in armonia con la terra e fino al cosmo. In una parola: irripetibile.

     

  8. con Ugo Manera ho fatto un corso per istruttori llv nel 97, grassi e motti li ho solo letti, anche se ghiaccio dell’ovest è stato la mia meridiana per lunghi anni…

    quanta malinconia nel rivedere i miei sogni dopo 30 anni.

     

    quello che ieri sembrava futuro oggi è passato, almeno cronologicamente…

  9. Ho conosciuto GianCarlo Grassi nella prima metà degli anni 80 . Lo invitammo a Pietrasanta per una conferenza. Ci fece vedere e ci spiegò tante cose per la salita su ghiaccio.

    Il 6 di gennaio del 1985, anche grazie ai suoi suggerimenti, salimmo DOCCIA FREDDA al monte Fiocca in Apuane, un couloir fantasma come lui li chiamava.

    Anche il nome  “Doccia Fredda” che demmo a questa nostra via, oltre che dalle circostanze ambientali,  fu suggerito da una sua guida di arrampicata sui massi in val di Susa.

    Ci siamo poi rivisti diverse volte, in Val Varaita, dove una sera mi autografò il suo GHIACCIO DELL’OVEST, e anche ad un meeting sulla cascate di ghiaccio in val Daone.

  10. Come é vera questa illustrazione del personaggio Grassi da parte di Gian Piero.

    Rileggendo queste righe mi pare di avere, nel presente, davanti agli occhi i due amici scomparsi da tanti anni.

    Gian Carlo era proprio così.

    Quanta nostalgia provo per tutti e due

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