Giuseppe Alippi, il Det – 2

Giuseppe Alippi, il Det – 2

Il Det e la Nord dell’Eiger
Per ciò che riguarda la Nord dell’Eiger, della salita racconta Canéla: «Mi ero accordato con Det Alippi. Io ero su in avanscoperta, con l’accordo di telefonargli quando il tempo si fosse messo al bello. Era quindici giorni che aspettavo in tenda, ogni tanto scendevo alla Kleine Scheidegg a vedere un po’ di gente. Erano arrivati Armando Aste e Franco Solina, che avevo conosciuto quando avevo fatto la Hasse in Lavaredo. Abbiamo fatto una ricognizione sullo zoccolo che si è trasformata in un attacco: il giorno 11 agosto, avrei dovuto scendere per telefonare al Det, ma come facevo […] La sera, all’inizio della traversata Hinterstoisser, sento uno che mi chiama: Canéla… Era Romano Perego, che aveva attaccato con Gildo Airoldi e Andrea Mellano. Arrampicando tre ore al giorno (infatti il pomeriggio nevicava fisso) e in gruppo così numeroso ci abbiamo messo sei giorni. Comunque la prima italiana ce la siamo portata a casa, sbucando in vetta il 16. Quando sono tornato a Lecco qualcuno mi ha chiesto con aria un po’ sfottente: “Cosa sei stato in giro a fare”? E io: “Sono stato a fare le ferie”».

Det Alippi
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Proprio negli stessi giorni in cui Pierlorenzo Canéla Acquistapace e gli altri cinque italiani sono sulla Nord dell’Eiger, Det era ai Piani Resinelli: «Io facevo il contadino, avevo le mucche, tenevo la stalla ad Abbadia, e d’estate le portavo su ai Piani Resinelli. Mio padre era molto malato. Nella nostra azienda agricola lavoravamo io e mia madre. Passavo l’estate ai Resinelli dove facevo il fieno per l’inverno. Per me, d’estate, era impossibile star via tanti giorni. D’inverno era diverso» racconta Alippi in Due cordate per una parete, G. Capra, Corbaccio, Milano, 2006. Lo contatta lassù il monzese Nando Nusdeo: «”Guarda che mi hanno detto che il Canéla ha attaccato la parete con degli altri italiani!”. Il Nandino sapeva che io ero d’accordo con il Canéla; sapeva del nostro progetto. Quel pomeriggio, io stavo costruendo una “meda”, un covone di fieno; lo stavo assestando, perché il fieno lì ci può stare anche un anno e sotto rimane sempre asciutto. Adesso non si usano più, è tutto meccanizzato, ma allora bisognava saperlo fare ad arte e non era facile.

Io conoscevo il Nandino come un capocordata e poiché anch’io lo ero – io godevo della salita se stavo davanti – ci siamo accordati di andar su a tiri alternati e abbiamo deciso di partire subito per l’Eiger.

Un giovanissimo Det Alippi
Giuseppe "Dett" Alippi. Da Due cordate per una parete, 362

All’Eiger c’ero già andato una volta con Romano Merendi, un alpinista di Milano che gestiva il rifugio SEM in Grigna. Eravamo andati a Grindelwald con la sua Giulietta Alfa Romeo. Era l’agosto del 1959. La parete era piena di neve e il tempo era brutto, così eravamo tornati a casa.

Ero tornato una seconda volta a Grindelwald con Guido Machetto, nel 1960; quando siamo arrivati sotto la Nord, lui ha avuto un ripensamento, come preso da forte soggezione e a malincuore mi disse che non se la sentiva di attaccare quella parete. Così tornai a casa un’altra volta».

Nusdeo e Alippi attaccano la parete nord dell’Eiger alle 15 di mercoledì 15 agosto 1962. Hanno quasi raggiunto la famosa traversata Hinterstoisser quand’ecco che il tempo cambia: «Io ero dietro e il Nandino era sotto di me una trentina di metri; erano forse le sei e mezzo, sette quando, improvvisamente, vidi due che scendevano uno sopra e uno sotto, slegati, in libera sopra di me alla mia destra. Mi pareva strano vedere due, lì, scendere slegati. Un attimo dopo sentii come un sibilo e uno dei due, quello più in basso, lo vidi saltar via: pareva come quelli che si vedono nei film western che gli sparano e cadono all’indietro giù da una roccia. Fece un volo, finì sotto di noi, rimbalzò su una cengia, tentò di fermarsi, ma continuò a cadere, finché si fermò sul ciglio di un gradone! Quasi andava di sotto e sarebbe precipitato fino ai piedi della parete. Si muoveva, come scosso da tremiti. Io gli gridai di non muoversi, ma mi resi conto subito dopo che lui non capiva».

Nandino Nusdeo
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È Nusdeo a continuare il racconto: «Il Det è scattato via veloce a raggiungerlo mentre io gli facevo sicurezza. È riuscito a bloccarlo perché altrimenti quello andava di sotto, fino in fondo. Mi calai anch’io. Capimmo che non era italiano. Imprecava e farfugliava. Era ferito, aveva una gamba tutta rigirata e perdeva molto sangue dalla testa. Subito dopo arrivò giù anche il suo compagno che era fortemente sotto shock. Stavamo su questa stretta cengia senza poterci intendere. Erano inglesi. Cercammo di prestare al ferito le prime cure. Gli abbiamo dato da bere e abbiamo tamponato la ferita alla testa. Intanto il temporale ci era addosso».

I quattro sono ad almeno 400 metri da terra, con un temporale incombente e un uomo gravemente ferito. L’unica salvezza sarebbe stata raggiungere lo Stollenloch, il buco nella roccia attraverso il quale si poteva raggiungere la ferrovia dell’Eigergletscher. Racconta Det, cui è ben chiaro che la Nord può attendere: «Sapevo che c’era la finestra. Sono salito per andare a cercarla; l’inglese è rimasto giù con il ferito. Andavo un po’ di qua un po’ di là, perché dal basso la finestra non puoi vederla. Il Nandino mi faceva sicurezza. Io mi arrampicavo e mi spostavo un po’ a destra, un po’ a sinistra. Per la prima lunghezza di corda non ho trovato niente, mentre nel secondo tiro ho visto una placca verticale sopra una cengia. Mi sono detto che lì poteva esserci la finestra e fu una fortuna perché la finestra c’era davvero. Io ero sotto di quindici metri, sono andato su, ho rotto il vetro e l’ho aperta. Noi avevamo corde da quaranta metri, le abbiamo giuntate e ho fissato un’estremità lì alla finestra. Così ci siamo calati giù fino al ferito. Il temporale infuriava, eravamo fradici fino all’osso. Usammo allora le altre due corde, quelle degli inglesi. Con una io che stavo davanti assicuravo il Nandino e l’inglese; all’altra era legato il ferito e a mano a mano che loro lo sollevavano, io lo fermavo e lo bloccavo. E così risalimmo lungo la corda fissa, che era fradicia d’acqua. Ricordo che risalendo stringevo la corda, la strizzavo e l’acqua mi entrava lungo il polso e scorreva giù, giù fino alle caviglie!

Con l’inglese non c’era verso di intendersi e allora andò bene che il Nandino rimanesse di sotto e io di sopra, così potevamo intenderci sulle manovre. Il ferito si lamentava molto, quello sì lo capivamo».

Riescono a issare il ferito, ancora fermo dove era caduto, per circa 70 metri. Alla fine sono tutti dentro, il buio è totale, ma almeno sono fuori dalla tempesta.

«Decisi di andare avanti a cercare la stazione di Eigerwand, perché là il trenino si sarebbe fermato. Allora non avevamo le frontali, a dire il vero noi non avevamo nemmeno la pila; l’inglese l’aveva ma non potevo chiedergli di prestarmela. Serviva a loro. Così mi avviai lungo il binario in salita nel buio più totale. Sentivo la rotaia con un piede, la saggiavo e avanzavo passo dopo passo. Dopo meno di un’ora vidi delle luci e arrivai alla stazione. Ebbi un attimo di paura, pensai che se c’era qualcuno mi avrebbero preso per un ladro! Aprii la porta che dava sul binario. C’era una stanza riscaldata, un tavolo, delle sedie, un telefono. C’erano vari numeri che provai a chiamare ma nessuno rispondeva. Mi pareva di essere in una situazione sempre più irreale! Tornai subito indietro ad avvisare il Nandino e gli altri, giù fino allo Stollenloch».

Nandino riprende: «Io e il Det abbiamo costruito una specie di barella con delle assi che abbiamo trovato e aiutandoci a turno abbiamo portato il ferito fino alla stazione. Nel tunnel tirava un’aria gelida, come un risucchio. Alla stazione c’era un fornello a gas, abbiamo fatto del tè caldo, abbiamo cambiato il ferito e l’abbiamo asciugato. Così fino all’alba; lui era malconcio, aveva una gamba spezzata e una ferita alla testa. Ma pareva essersi ripreso. Al mattino arrivò il primo treno e sul treno c’era Luis Trenker, il regista, con altri che lo aiutavano e che stavano girando un film. Scesero a vedere cosa era successo. Il treno si fermò una buona mezz’ora, c’erano molti curiosi che volevano vedere. Il treno ripartì per la Jungfrau e poi tornò, ci caricò tutti e quattro e così scendemmo alla Kleine Scheidegg. I due inglesi proseguirono per Grindelwald perché quello ferito doveva andare in ospedale. Ci ringraziarono.

Noi ci fermammo alla Kleine Scheidegg. Eravamo stanchi morti e ancora bagnati. Il Det fu proprio un fenomeno. Io gli diedi manforte ma fu davvero incredibile come seppe risolvere la situazione».

Il ferito si chiamava Andy Wightman, il suo compagno era nientemeno che Dougal Haston, che di lì a poco sarebbe diventato uno dei più forti alpinisti mondiali degli anni Sessanta e Settanta, con conquiste del tipo via direttissima alla Nord dell’Eiger, alla Sud dell’Annapurna e alla Sud-ovest dell’Everest.

Il soccorso sull’Eiger fu premiato come “miglior soccorso dell’anno” dalla giuria che, nel 1962, assegnò a Det Alippi e a Nando Nusdeo il premio di solidarietà alpina, l’Ordine del Cardo. Ma forse per Det ancora oggi è più importante che il rapporto con Acquistapace non si sia guastato: «Lui era più giovane di me, l’alpinismo per lui era una ragione di vita. Per un po’ di tempo ci fu, più che distacco, un grande impaccio tra di noi. Ma il tempo mise a posto tutto. Adesso posso dire che aver salito l’Eiger senza di me era dispiaciuto più a lui che a me».

Il Det in arrampicata artificiale
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1973-1974: attacco… al Sasso Cavallo
di Giuseppe Det Alippi
(u
n bel racconto di Det Alippi, a cura di Arnaldo Ruggiero, tratto da Antologia alpinistica mandellese 1924-1974, cai Sezione Grigne-Mandello del Lario)

Nella vita di un uomo arriva sempre il giorno in cui, insopprimibile, insorge il bisogno di volgersi indietro a rivedere il proprio passato per verificare che cosa si è fatto, e a chi, quel che si è fatto, possa essere servito.

E se, al termine di questo inventario, per avventura o per felice sorte, accade che i conti tornino e che la partita si chiuda in attivo, allora ecco nascere dentro un’altra urgenza, non meno pressante, quella cioè di poter trasmettere ad altri la conoscenza che si è acquisita, così che essa non si bruci in una esperienza individuale, ma, continuando a sopravvivere in altri, assuma un valore universale.

Anch’io mi sono un giorno fermato a considerare il mio passato di alpinista e ho compreso che, nella misura in cui ritenevo che i miei conti tornassero, dovessi anche riuscire a trasmettere ad altri quello che della montagna avevo capito e imparato.

«Così sono nati la mia amicizia e il mio interesse per un gruppo di giovani alpinisti della mia sezione; giovani appassionati, costanti, sempre tesi a continuamente migliorarsi: Benigno Balatti, Franco Tantardini, Adriano Moss Trincavelli, Ezio Buita Molteni.

Così, con tre di loro: Franco, Benigno e Moss, il 18 agosto 1973 decido di attaccare la via Oppio o “Delle cento ore” sul Sasso Cavallo, la più dura via di roccia del Gruppo delle Grigne e con loro la ripeto nel tempo record di dodici ore e mezzo.

Con loro e per loro decido di aprire, sempre sul Sasso Cavallo, una nuova via che sia ancora più dura della via Oppio.

Spedizione nazionale del CAI al Lhotse, 1975: da sin., Gigi Alippi, Sereno Barbacetto, Riccardo Cassin, Franco Gugiatti, Aldo Leviti, Ignazio Piussi, Reinhold Messner, Alessandro Gogna, Fausto Lorenzi, Mario Curnis. In ginocchio: Giuseppe Det Alippi, Mario Conti, Gianni Arcari

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Ed ecco la cronistoria di questa nostra impresa:

21 ottobre
Con Benigno e Franco alle ore tre partiamo per il Sasso Cavallo decisi ad assaggiare la parete. Le prime luci dell’alba ci colgono al suo attacco. Io mi lego con Benigno; Franco ci assisterà ai piedi della parete.

Comincio a salire; pianto i primi due chiodi e con sorpresa scopro due chiodi a pressione. Proseguo ancora. Non vi sono più tracce di altri chiodi, ma non vi sono nemmeno fessure ed appigli.
Comincio a scoraggiarmi, poi con gioia scopro una minuscola protuberanza.
Abbandono la staffa e mi alzo leggermente tanto da scoprire una fessura rovesciata.
La sfrutto e con rilevanti difficoltà salgo obliquamente in artificiale sino a raggiungere lo spigolo di un marcato strapiombo.
Le ore passano rapide in questa lenta progressione ed il crepuscolo si avvicina.
Per oggi non si può fare di meglio: buttiamo le doppie e scendiamo.

11 novembre
Riattacco con Moss. Benigno, sorte beffarda per un alpinista, è scivolato sulla strada andando al lavoro e cadendo si è fratturato una spalla. Sarà immobilizzato per alcuni mesi.

Risaliamo fino al punto toccato la volta precedente e cerco di proseguire ulteriormente: le difficoltà sono estreme e non accennano a diminuire. Attraverso a sinistra su di una piccola cengia, risalgo in obliquo aggirando un tetto ostile e raggiungo una macchia d’erba.

La fatica è grande: dall’inizio non abbiamo ancora trovato un ripiano anche piccolo; solamente placche e placche, verticali e compatte. Vedo un diedro invitante; lo risalgo di slancio, ma in alto è chiuso, ancora una volta, da un camino strapiombante.
Quando lo supero è ormai sera: bisogna ripiegare.

25 novembre
Oggi la compagnia è più numerosa. Per aiutarci a portare il materiale sono venuti con noi Marino e l’amico Sergio.
Va avanti Moss a ripetere la parte già attrezzata. Quando tocca a me, il sole è già alto nel cielo. Mi impegno a fondo ma le difficoltà sempre estreme non mi consentono di proseguire che di pochi metri. La via è preclusa da uno strapiombo.
Per quanto mi sforzi non riesco a trovare il punto vulnerabile.
A sera ridiscendiamo: abbiamo potuto aggiungere solo un trentina di metri a quanto già fatto in precedenza.

La cartolina ufficiale della spedizione al Lhotse 1975
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8 dicembre
Siamo nuovamente ai piedi della parete (ogni volta dobbiamo “sgrugnare” tre ore di ripido sentiero, nella marcia di avvicinamento). Siamo quasi dell’avviso di fare un bivacco in parete, ma le condizioni del tempo sono troppo avverse. La neve ci blocca dopo le prime lunghezze. Con la neve perdo anche il secondo compagno di cordata dopo Benigno. In Moss provetto sciatore, riemerge l’antica passione.

Così per alcuni mesi staremo tutti lontani dalla nostra parete, ma con sempre fissato in testa il ricordo di quello strapiombo che ci ha bloccati nell’ultimo tentativo.
Quando con la mente mi accade di ripercorrere la strada tracciata, mi arresto bruscamente al pensiero di quella enorme massa aggettante almeno per otto metri.
Un filo a piombo, condotto dallo spigolo non incontrerebbe altro ostacolo che il… prato, duecento metri più sotto.
Mi convinco sempre di più che ci troviamo di fronte ad una parete veramente terribile e sempre di più mi viene istintivo di accostarla alla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, dove sale la Via Couzy, che già ripercorsi in prima invernale.

17-18-19 marzo
Ripartiamo all’attacco. Sono ancora con Benigno che è perfettamente guarito. Dal basso ci assistono Marino e Sergio.
Benigno parte in testa, ma non ha fatto trenta metri che un chiodo cede, forse minato dal ghiaccio.
Il volo è breve ma a “freddo” e temo per il morale del mio compagno. Ma Benigno reagisce subito. Con rabbia, quasi, picchia un altro chiodo e riprende a salire.
Ora siamo nuovamente sotto il tetto: eccolo, è lì che ci sovrasta, lui, l’incubo e l’ossessione delle mie notti.
È lì enorme, minaccioso, implacabile, a rappresentare la forza bruta della natura. Lo affronto deciso a tutto.
Pochi movimenti e le gambe già sono nel vuoto.
Riesco a piantare un chiodo, ad espansione, ad attaccare una staffa, e poi un altro chiodo, e un altro ancora.
Una fatica penosa e massacrante. Rispetto al mio compagno sono ormai “fuori” di almeno cinque metri. Ma salgo, salgo sempre. A poco a poco Benigno scompare dalla mia vista; restano le corde che sfregano contro la roccia.
Ancora un durissimo passaggio in libera e finalmente il tetto è vinto, sotto i miei piedi.
Ora comincio a sentire la certezza che la parete può essere sconfitta. Ma intanto si fa notte. Un giorno intero di impegno ci è costato il superamento del tetto.
Siamo stanchi e costretti ad un bivacco in parete in condizioni per niente confortevoli. Siamo accovacciati su un ripiano non più grande di un seggiolino subito sotto il grande tetto dal quale ci siamo calati e che abbiamo lasciato attrezzato. La notte sarà penosa ed il vento gelido del mattino ci coglie tutti indolenziti.
Ma bisogna ricominciare; bisogna risalire il tetto, superare un altro diedro impegnativo di venti metri per giungere sotto un altro tetto, meno sporgente del primo ma più infido perchè la roccia è friabile. Scorgiamo una possibilità di superamento sulla destra, ma purtroppo siamo ormai senza materiale.
Passeremo il resto della giornata a rifornirci del materiale che dal basso i nostri compagni ci mandano su.
A sera ripieghiamo al nostro bivacco compiendo delle acrobazie degne di un trapezista.
L’indomani siamo troppo stanchi per poter continuare e ripieghiamo.

5-6-7-8 aprile
Ormai siamo decisi a portare a termine la nostra impresa. Il giorno 5 alle ore 21 partiamo di slancio per bivaccare ai piedi del Sasso Cavallo. Siamo in quattro, oltre a me ci sono Franco, Benigno e Moss.
Moss ci precede sulla mulattiera in motocicletta con i sacchi; noi seguiamo a piedi.

Ma per Moss sarà una sera sfortunata. Poco più avanti, forse sbilanciato dai sacchi, precipiterà con la moto nel bosco sottostante la strada. Recupereremo lui e la moto con le corde. Moss è forse più pesto dentro che fuori. Il suo morale è a terra, capisce che in quelle condizioni non potrà affrontare la salita.
Ripiega verso casa. Andrà ad avvertire il Buita perchè ci raggiunga al suo posto.

Il mattino del 6 attacchiamo: io mi lego con Benigno; Franco con il Buita. Benigno sale per primo lungo la parete attrezzata fino oltre il grande tetto. Poi gli dò il cambio deciso a superare il secondo strapiombo. Dietro seguono Franco e Buita con un certo distacco, in quanto stanno schiodando i primi metri.
Il secondo tetto si mostra subito più addomesticabile del primo anche se mi impone la massima attenzione e prudenza per la friabilità della roccia.
Chiodare è assai difficile; i punti di appoggio sono pochi e tutti malsicuri. Ma devo proseguire ad ogni costo per poter bivaccare sopra lo strapiombo.
È quasi buio quando finalmente il tetto è superato e posso accingermi a bivaccare.

All’alba del 7 aprile mi rimetto al lavoro. Ora traverso a sinistra sino ad una cengia comune anche alla via Oppio e mi trovo di fronte un altro enorme tetto che in alcuni punti strapiomba più di dieci metri. Lo aggiro sulla destra, supero un muro di roccia gialla, annaspo per un attimo coi piedi nel vuoto, sino a quando raggiungo una fessura; piego ancora a destra per alcuni metri, poi torno nella direzione iniziale.

Benigno Balatti
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Sono costretto a chiodare continuamente, ma alla fine la spunto. Ridiscendo dove Benigno mi attende e ci prepariamo ad affrontare sulla cengia il secondo bivacco. Intanto ci raggiungono anche Franco e Buita. Non hanno con sé che parte dei rifornimenti e del materiale. Il resto pensano di recuperarlo dal basso con il cestino e con l’aiuto di Marino. Purtroppo il cestino si impiglia in un colatoio e non riusciamo a liberarlo.

Siamo ormai rassegnati a patire fame e freddo. Ma di questo parere non è Franco. A notte ormai fonda affronta a ritroso una traversata dove molti probabilmente rinuncerebbero anche in pieno giorno. Il cestino è liberato. Lo stomaco è sistemato. In queste condizioni tutto sembra più bello.

All’alba dell’8 aprile si riprende. Superiamo le parti già attrezzate. Intuisco che oltre un muraglione di una settantina di metri ed un successivo camino c’è la vetta.
Procedo più velocemente; con due chiodi supero un leggero strapiombo ed entro in un diedro che percorro sino alla fine.
Mi fermo per recuperare Benigno, poi riprendo a salire, dopo una breve traversata, un altro diedro.
Esco su una cengia erbosa. Ora so che il camino di trenta metri che mi sta di fronte è l’ultima difficoltà che ci separa dalla vetta.
Lo affronto senza risparmio di energie, stringendo i denti, annaspando in un colatoio scivoloso e sbuco fuori sulla vetta.
È fatta, abbiamo vinto.

In vetta ci vengono incontro Moss e Marino, saliti fin quassù dalla via normale per godere insieme a noi la gioia di questo momento indimenticabile.

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Giuseppe Alippi, il Det – 2 ultima modifica: 2015-08-30T06:00:04+02:00 da GognaBlog

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